L’imperscrutabilità del male: ovvero la letteratura della peste di Filippa Ilardo

Improvvisamente la peste ricompare, sconvolge la vita, la società, le abitudini, i pensieri. Impossibile non chiedersi perché? Che significato ha? Domande a cui tanti autori hanno provato a dare risposte, sondando un enigma che rimane senza soluzione. «Perché una metafisica della peste? Perché la peste è un fenomeno della natura, che però non può essere spiegato su base puramente naturale. C’è qualcosa di fatale, nella peste, qualcosa come un destino». Afferma Sergio Givone in Metafisica della peste (2012).

Non si poteva che partire da queste parole, per affrontare un breve, ma ragionato excursus, sull’antichissimo rapporto tra peste e letteratura.
Ed è proprio assumendo la prospettiva di Givone che, indaga sulla dimensione della peste come catastrofica e immotivata calamità e su quale senso, metaforico, simbolico, allegorico essa riveste nelle varie epoche e nelle varie opere, che si può ragionare su come si sia andato declinando questo topos letterario che attraversa la storia della letteratura occidentale dalle origini ad oggi.
La peste è una forza così straordinaria da determinare cambiamenti radicali, momenti di rottura e di rinascita che finisce per diventare un vero e proprio fulcro del congegno narrativo.
Esemplare in questo senso è l’«orrido cominciamento» del Decameron di Boccaccio, in cui per sfuggire alla peste fiorentina del 1348, e al decadimento morale in cui imperversa la città, un gruppo di giovani, si allontana in una villa, cercando salvezza nel potere dell’affabulazione. Per la brigata decameroniana, la parola e la narrazione determinano un mondo alternativo a quello infestato dalla mortifera pestilenza, la quarantena per sfuggire il contagio diventa quindi architettura della narrazione, pretesto narrativo.
La vastissima letteratura sulla peste è trasversale alle epoche e ai generi, dalla Bibbia alla poetica teatrale di Artaud, per cui il teatro deve essere come la peste, al cinema, pensiamo al film-capolavoro di Ingmar Bergman, Il settimo sigillo (1956) che si svolge in un apocalittico scenario di peste.
La peste è la piaga che per secoli affligge gli uomini, la malattia per eccellenza, il morbo, il male peggiore (il termine peste, infatti, deriva da peius).
Segno dell’ostilità degli dèi o della sorte, punizione divina per peccati commessi, icona stessa del male, sintomo di un progresso incontrollato, postumo di una decadenza ineluttabile, o simbolo dell’insensatezza dell’esistenza, della fragilità dell’essere umano: non esiste una peste, esistono le pesti.
La letteratura nasce, in Occidente, proprio con la descrizione di un’epidemia. L’Iliade di Omero si apre, con l’invocazione del poeta alla Musa e con la descrizione della terribile pestilenza diffusa nell’esercito acheo. Nella visione poetica omerica l’eziologia della malattia è attribuita ai dardi di Apollo, è emanazione del divino, metafora della punizione.
La peste è figura che ritorna spesso nella letteratura greca. I classici ci rimandano, con il loro alto grado di problematizzazione, all’imperscrutabilità dell’ordine naturale delle cose e della natura.
La catastrofe epidemica è un grande enigma metafisico che si agglutina intorno ai concetti di colpa, innocenza, destino, necessità e responsabilità, concetti che fra di loro si toccano e si sfidano.
Nel dramma di Sofocle, Edipo, di fronte alla città di Tebe sconvolta dalla peste per cause oscure, si chiede di chi sia la colpa. La ricerca insistente della verità e del colpevole, l’assassinio di Laio, lo porta, alla fine al doversi chiedere «sono forse io il colpevole?» e termina con la risposta tragica «la peste sono io». Colpa di Edipo è, soprattutto, l’estrema volontà di conoscere la verità: Edipo si punisce per non essere stato in grado di vederla, di riconoscerla.
Fin qui il binomio di peste e castigo. A poco a poco la peste diverrà, invece, il postulato di un grande enigma metafisico, ovvero per tornare a Givone, una domanda sull’essere e sul senso dell’essere. Tucidide ci lascia, nella Guerra del Peloponneso, una descrizione della peste che sconvolse Atene nel 430 a. C, mutuata in forma poetica da Lucrezio nel De rerum natura, dove più forte si fa l’interrogativo se la peste possa avere un senso ulteriore o trascendente.
«Il senso dell’essere è di essere identico a sé, interamente risolto nel divenire se stesso» scrive chiaramente Lucrezio.
Non si può incolpare la natura –  detto in altri termini – di essere unicamente se stessa, si nasce e si muore, questo è il destino. E se il Male fosse proprio questa accidentalità priva di finalità?
«La vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve continuamente all’altra» – scrive Leopardi nel Dialogo della  Natura e un Islandese (1835), in cui pone le ragioni della Natura, che è unicamente se stessa, in contrasto con un uomo che risponde «a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono?».
A riportare il dibattito sulla peste ad una sfera umana e sociale, sarà il Manzoni de I Promessi Sposi, nell’opera emerge un forte contrasto tra superstizione e religiosità controriformistica da una parte, e razionalismo settecentesco dall’altra.
La terribile epidemia che si scatenò nel Nord Italia tra il 1630 e il 1631, decimando la popolazione, fece nascere pregiudizi infondati, secondo cui alcuni untori spargevano unguenti venefici per propagare la peste. Giangiacomo Mora e Guglielmo Piazza vennero accusati di essere untori e condannati a morte, a causa di confessioni estorte con la tortura: Manzoni ricostruisce la vicenda giudiziaria nella Storia della colonna infame (1842) un saggio storico in appendice al romanzo.
Leonardo Sciascia ne I burocrati del Male, introduzione alla Storia della colonna infame dell’edizione Sellerio del 1981, e in uno dei saggi della raccolta Cruciverba (1983), arriva a interpretare il testo manzoniano come una disamina lucida e «inquieta» della società del tempo in cui il romanzo si svolge, del tempo in cui l’autore scrive, del tempo in cui noi lo leggiamo. Manca, quindi, secondo l’autore siciliano, quel carattere provvidenzialistico con cui viene etichettato da alcune letture superficiali. E quanto al cattolicesimo di Manzoni, Sciascia si spinge a scrivere: «è stato detto che ha convertito, convertendosi, l’illuminismo al cattolicesimo; ma penso che in lui è forse accaduto il contrario: il cattolicesimo si è convertito all’illuminismo».
Anche La peste (1947) di Camus, presenta un netto contrasto fra medicina e religione espressa dalle tesi contrastanti di cui sono portavoce Bernard Rieux, un medico ateo, alter ego dell’autore, e Paneloux, un gesuita che insiste sul carattere espiatorio della sofferenza che Dio scaglia sugli uomini per punirli dei peccati. Per Paneloux, conservare la fede significa ammettere l’esistenza del male e ridurre al silenzio la ragione. Egli afferma infatti: «forse dobbiamo amare quello che non possiamo capire». A questo Rieux si ribella, egli si rifiuterà «sino alla morte di amare questa creazione dove i bambini sono torturati».
Nella  lotta contro l’epidemia, la peste, per il medico, è una sconfitta: impossibile trovare un senso e una giustificazione all’esistenza umana, impossibile conciliare la fede in Dio e l’esistenza del male.  Il male è dunque ineluttabile, incomprensibile, gratuito.
L’assenza di Dio è dimostrato dal suo silenzio: «se l’ordine del mondo è regolato dalla morte, forse val meglio per Dio che non si creda in lui e che si lotti con tutte le nostre forze contro la morte, senza levare gli occhi verso il cielo dove lui tace».
Nel romanzo di Cormac McCarthy, La strada (2006), ispirato a La peste scarlatta di Jack London (1912), un padre e un figlio percorrono una strada in uno scenario totalmente sconvolto da una catastrofe che ha devastato la natura.

Il bambino è la sola ragione di vita del padre, ma, mentre il cammino del padre mira solo alla sopravvivenza, il figlio suppone un percorso dotato di senso.
L’istinto protettivo del padre, arriva perfino ad uccidere, si contrappone al desiderio del figlio di aiutare i pochi sopravvissuti che incontra lungo il cammino.
La strada che dà il titolo al romanzo, è quella che padre e figlio percorrono insieme, ma finisce per assumere per un significato diverso: immanente per il padre, che respinge la sfera religiosa nell’interpretazione degli eventi, trascendente per il figlio, che esprime un bisogno di condivisione, di solidarietà, di redenzione, una prospettiva che restituisca senso anche al male.
Per un altro versante, grande rilevanza assume il binomio amore e peste: in Cecità (1995) dello scrittore portoghese Saramago, in cui un’improvvisa cecità (richiamo a Edipo?) appesta migliaia di persone che si contagiano a vicenda, ad emergere sarà la presenza chiave di una donna di dantesca memoria, tanto che l’opera, se non  proprio come romanzo d’amore, si può leggere come romanzo dell’amore, sull’amore. Così L’amore al tempo del colera (1985), in cui, nel favoloso mondo sudamericano di García Márquez, i sintomi del colera si sovrappongono a quelli dell’amore. Così, schematizzando parecchio, in Bufalino, Diceria dell’untore (1971) dove amore e morte si rincorrono con metafore e barocchismi linguistici.
Numerosissime sono le opere letterarie che tratteggiano peste ed epidemia nei loro romanzi: Puškin in Festino in tempo di peste (1830); Edgar Allan Poe in Re Peste (1840) e La maschera della Morte Rossa (1842); Thomas Mann in Morte a Venezia (1912) che descrive l’epidemia di colera che si scatena nella città lagunare, mentre Kafka affronta il tema ne Il cacciatore Gracchus (1917).
Lungo è il filone degli autori che trattano l’argomento in termini post-apocalittici, Mary Shelley che, in L’ultimo uomo (1826), ipotizza la fine dell’umanità a causa della diffusione di una pestilenza.

Altro capolavoro da citare è Rumore bianco di Don DeLillo (1985), in cui un’apocalisse chimica fa sprofondare un professore nel terrore paranoico della morte, mentre il rumore bianco, prodotto dal consumismo e dei media, il rumore di fondo della nostra epoca moderna, tenta di allontanarci dalla presa di consapevolezza della nostra fragile caducità, ma in ultima analisi, si fa baluardo di un’ultima possibile trascendenza, per così dire, tecnologica.
La paura della morte, che tentiamo di mantenere al di sotto della superficie delle nostre percezioni, si collega dunque direttamente a quel sentimento di trascendenza che è innato nell’essere umano. Del resto, la catastrofe e la paura ci pongono davanti a quell’orrido abisso che ci porta a scrutare un senso possibile nel cuore del non-senso, una comprensione dell’incomprensibile.