ESERCIZI DI MEMORIA > Contagio a cura del gruppo di lavoro Esercizi di memoria

Fotogramma da "Fanny e Alexander" di Ingmar Bergman, 1982."

Questa è la prima tappa di Esercizi di memoria. Addentriamoci nelle “camere delle meraviglie” di uomini e donne che hanno definito, attraverso il loro pensiero e loro pratica artistica, traiettorie inedite sulle scene italiane dalla seconda metà del secolo scorso fino ad oggi. Marco Solari, Fiorenza Menni, Enzo Cosimi e Gianni Manzella riabitano il momento in cui il teatro si è inoculato in ognuno di loro. Libri, figure mitologiche, recensioni, tubi catodici e colpi di fulmine dalla platea: da qui è avvenuto il contagio.

Libri e cantine

Marco Solari in un momento del suo primissimo spettacolo “Z come ecologia” andato in scena a Roma, in uno scantinato di via San Francesco a Ripa, gennaio 1973.
Foto di Andrea Fiorentino

Marco Solari, appassionato di insetti e d’Oriente, fin da adolescente guarda le piccole cose del mondo attraverso una lente d’ingrandimento che possiede ancora oggi. Dopo l’esperienza della Gaia Scienza, che fonda negli anni Settanta insieme a Giorgio Barberio Corsetti e ad Alessandra Vanzi, dal 1985 prosegue con quest’ultima le sue scorribande artistiche, prima con una loro compagnia, poi con l’associazione Temperamenti. Ora continua a fare arte come fosse un jazzista, sperimentando spazi, forme e modalità differenti.

In famiglia non ci sono mai stati artisti. Ho incontrato il teatro per caso. Era il periodo del liceo. A sedici anni mi sono imbattuto ne I greci e l’irrazionale di Eric Dodds, tutto il suo ragionamento sulla maschera e su Dioniso mi aprì la mente, ho assaporato la prima passione intellettuale, la filologia non c’entrava niente, facevo il classico e in quel greco e latino, dove andavo male, scoprivo un altro mondo. Tra le mura di quel liceo, il Mamiani, parlavo spesso con un professore di religione, Stefano Salviucci, un gesuita, molto intelligente, fratello della musicista e cantautrice Giovanna Marini. Era molto di sinistra, uno di quelli che quando arrivavano i fascisti al liceo per picchiarci si parava subito davanti: «Qua non passate, né di qua né di là». Aveva preso in affitto un casello ferroviario per portare gli scout a fare i ritiri spirituali e le gite. Un giorno, ero in terza liceo, gli ho detto: «Padre Salviucci, potrei andare al casello? Vorrei stare un po’ in meditazione…». Mi ha dato le chiavi. Era febbraio. Mi sono preso la mia “settimana bianca” con la complicità del prete. Nel casello, a farmi compagnia, c’era ancora un libro, Per un teatro povero di Grotowski, me l’aveva prestato proprio Padre Salviucci quando si era accorto di quel mio primordiale interesse per il teatro. Fui rapito dal mondo di Grotowski (1). Sempre in quel periodo, ogni tanto, mio fratello più grande mi portava a vedere gli spettacoli nelle “cantine”, piccoli spazi nel cuore di Roma, che negli anni Sessanta e Settanta venivano affittati a basso costo. Mi ricordo Il bagno di Majakovskij con Carlo Cecchi e Pirandello chi? (2) di Memè Perlini, mi piacquero tantissimo. Andavamo a vedere i protagonisti dell’avanguardia, nei teatroni non ci mettevamo piede. Del Teatro Argentina e del Valle conservo solo immagini sfocate di quando da ragazzino mi ci portava mia madre, niente a che vedere con quella esperienza magnetica vissuta in quegli spazi angusti dove stavamo, noi spettatori, tutti raccolti, a due passi dai visi e dai corpi degli attori.

Andrea Scappa

“Consacrazione” di un’attrice

Fiorenza Menni nel suo “Non stare ferma nel vento”, novembre 2019, con la pupazza creata da Francesca Ghermandi.
Foto di Giovanni Brunetto

Abbiamo incontrato Fiorenza Menni a Roma in occasione di una conferenza a cui doveva partecipare proprio in quei giorni di marzo del 2019. Fiorenza Menni (1967), attrice, autrice, drammaturga, cofondatrice di Teatrino Clandestino, compagnia storica degli anni Novanta, oggi fondatrice di Atelier Sì, gruppo teatrale che agisce a Bologna nel complesso di San Leonardo, in quella che è stata la casa del Teatro Laboratorio di Leo de Berardinis.

Sono nata e cresciuta in un paesino della Romagna, sulle colline dell’Appennino romagnolo. Ho avuto un’infanzia difficile. Quinta di cinque figli, con genitori incapaci di gestire una bambina così votata all’osservazione. Ancora oggi mi esercito a ripensare a quella bambina per non perdere i fili con quel mondo. Il primo rapporto con la mia vita creativa l’ho avuto a cinque anni quando le suore della scuola mi avevano scelto per interpretare Santa Bernardette. Allora mi chiesi: «Perché avete fatto a me una richiesta così forte? Cosa c’entro io?». Ero rimasta colpita dal compito di dover incarnare una figura così diversa dalla mia vita quotidiana, ma dover mostrare a tutti che quella persona non ero io, ma Santa Bernadette, mi aveva fatto scoprire un piacere sconosciuto, a me, una bambina che soffriva di una forte mancanza affettiva. Da quel momento ho iniziato a riflettere sul quel piacere, su come poterlo alimentare e conservare. Dopo, crescendo, il rapporto con quel piacere si è trasformato, ma sono arrivata a chiedermi se non nascondesse anche un percorso di cura, perché io rifiuto il concetto di arte come cura. Così è nato il mio desiderio del teatro, ma vivevo in un paesino, non sapevo neanche cosa fosse il teatro. L’esperienza più vicina a Santa Bernadette era Raffaella Carrà quando appariva in televisione: una creatura divina che aveva la possibilità di mostrare una libertà d’espressione del corpo alla quale non ero abituata. Combattevo per cercare un equilibrio tra il desiderare di essere simile a quella apparizione o rifiutarla, perché quello che faceva non mi piaceva (3). Ecco tutto quello che avevo, allora. Nel mio paese non c’era neanche un cinema. I film americani li vedevo in televisione, ma pensavo sempre al teatro, dove non ero mai stata. La prima volta che ci sono entrata avevo sedici anni e l’emozione è stata fortissima. Ho visto i Sei personaggi in cerca d’autore di Pirandello al Teatro Duse di Bologna. Quasi mi vergognavo, mi sembrava di non essere all’altezza di quel grande tempio. Per fortuna l’attrice era potente e mi attaccai a lei e al suo personaggio. È stato un momento bellissimo, ma anche un trauma. Sono uscita da lì decisa a fare teatro pensando che i miei genitori non avrebbero mai accettato la mia scelta, invece acconsentirono che m’iscrivessi a una scuola di teatro a Bologna. Così ho cominciato a fare i conti con la scoperta della mia indole drammatica. È più facile essere Ofelia quando hai certe caratteristiche, anche se le Ofelie sono tante, ma essere Medea è veramente difficile (4): «Che c’entro io? Perché una richiesta così forte mi viene rivolta?». No, non ho mai smesso di ripensare alle domande di quella bambina a cui un giorno avevano chiesto di incarnare Santa Bernadette.

Elisa Callia D’Iddio e Massimo Giardino

Risveglio

Enzo Cosimi
Foto di Daniela Zedda

Enzo Cosimi, “ragazzo avventuroso e avventuriero”, ha praticato la sua arte attraversando confini. I semi da lui gettati nell’arco di quarant’anni di attività sono stati considerati eterodossi e guardati spesso con sospetto dal mondo della danza. Fin dall’inizio, all’insediamento in spazi già abitati, ha preferito la creazione di luoghi “non previsti” dove radicare il suo lavoro, costringendo gli sguardi ad osservare il sorgere di una nuova isola nella geografia delle arti performative.

Sono nato alla Garbatella, classe 1958. Romano di origini umili, non c’era un libro in casa, ancora da liceale a teatro non c’ero mai andato, né tantomeno avevo avuto un qualche tipo di esperienza artistica. Quindi, direte voi… Come mai è arrivata la chiamata? Lo devo a Franco Cordelli (5). Cordelli scriveva di teatro su “Paese Sera”, un quotidiano di sinistra che allora usava la cronaca degli spettacoli per difendere i nuovi spazi della cultura che cominciavano a nascere in città. Mio padre lo comprava perché era comunista, ed io, un sedicenne solitario e un po’ stravagante, ero attratto dagli articoli di teatro, leggevo del Carrozzone, di Memé Perlini, della Gaia Scienza… chissà, forse c’era già in me la voglia di guardare oltre il limite delle cose conosciute. Andavo al teatro La Piramide, oggi è una palestra, ma allora era il crocevia romano dell’avanguardia nazionale e internazionale, una specie di bunker dove, entrando, un tavolo fungeva da botteghino. E seduta a quel tavolo mi ricordo di una giovane donna che cercava a tutti i costi di vendermi libri e cataloghi dello spettacolo e subito dopo me la ritrovavo in scena, era Marion d’Amburgo (6), difficile capire, le prime volte, quella strana convivenza di ruoli. Lì vidi Forman, la Childs e molti di quelli che segnarono il teatro in quel momento. Ci andavo di domenica, in una sala quasi sempre vuota, a vedere i lavori teatrali di quella che Giuseppe Bartolucci aveva battezzato la postavanguardia (7). Il corpo era al centro, non i testi, ed io ho sentito un corto circuito tra me e ciò che vedevo. Uno spettacolo su tutti: Punto di rottura dell’allora Magazzini Criminali ferì la mia sensibilità. Prima sì, c’era stato un altro grande spettacolo, Vedute di Porto Said, ma con Punto di rottura ebbi l’incantamento. Sogni? No, non avevo sogni particolari, nessuna vocazione chiara. Volevo solo una vita avventurosa. La fascinazione per la danza non è arrivata subito, ma la presenza e la vita di quei corpi mi ha aperto tutto un mondo e mi ha costretto, seppur inconsciamente, ad allertare il mio, lo ha risvegliato, sì, solo dopo sono arrivato alla danza.

Emanuela Bauco e Tiziano Di Muzio

La ferita di uno spettatore

Gianni Manzella conversa con Leo de Berardinis, di spalle, al Festival di Santarcangelo nel luglio 1994.

Gianni Manzella è critico e studioso teatrale. Nel 1993 pubblica la prima edizione de La bellezza amara. Il teatro di Leo de Berardinis, elemento innescante e fondante per la narrazione che ha scelto di regalarci: questa è l’inizio della storia di uno spettatore.

Assoli (1977) è il primo spettacolo che vedo di Leo e Perla; non avevo visto tutti quelli precedenti. Per ragioni anagrafiche, perché quando Leo iniziava a fare teatro io andavo alle scuole medie, e per ragioni geografiche, perché la loro attività si svolgeva allora da Roma in giù, mentre io vivevo tra Ferrara e provincia e non avrei mai immaginato che io, studente d’ingegneria, di lì a brevissimo, avrei cominciato a scrivere di teatro. Allora: vedo questo spettacolo, ed è una rivelazione. È quello che ogni tanto può capitare ad uno spettatore di teatro, si imbatte in qualcosa e si dice: questo non lo ho mai visto! Qualcosa che un po’ ti cambia la vita. Ecco come sono caduto in questo buco nero, in questa tana eppure, eppure allora, non ero uno spettatore del tutto ingenuo, di cose strane ne avevo viste. Per esempio il Living Theatre. A Ferrara da ragazzo andavo spesso a teatro perché a mio padre, funzionario della prefettura, riservavano un posto in cui non sedeva nessuno, e un giorno, ecco che ti trovo il teatro presidiato dalla polizia, c’era Mysteries and smaller pieces, accadeva spesso quando arrivavano quelli del Living. Intanto cominciavano a capitarmi tra le mani libri che non avevano nulla a che fare con l’ingegneria, ma erano in qualche modo “fratelli” di quegli spettacoli inusuali. Nel 1968 era uscito in Italia Il teatro e il suo doppio di Artaud: scritti incandescenti. E poi anche io, come tanti giovani allora, cominciavo a girare, ospite di amici, dove si finiva spesso per dormire nei letti dei bambini, e così venivo sempre più spesso a Roma, dove vivevano Leo e Perla Peragallo. Ora, un salto d’immagine: sono passati più o meno quindici anni da quella visione e sono in una casa di montagna per scrivere il libro su Leo. Non comincio dal capitolo uno, insomma dal “c’era una volta”, comincio dal capitolo sei. Ho un’immagine molto precisa del momento in cui prendo un foglio bianco e a penna scrivo sei a numeri romani. Cominciare da lì mi sembrava la cosa più semplice: avevo visto lo spettacolo, avevo già scritto un testo sulla rivista “Scena”, avevo i materiali… ma avevo soprattutto una cicatrice nella memoria. Me ne accorgo ora. Allora, come oggi, saprei raccontarlo quello spettacolo, ricostruirlo intellettualmente, ma non saprei dire cosa in quel momento mi abbia colpito e ferito. Il teatro è qualcosa che si impregna nella retina, e dalla retina arriva al cervello e quella cosa che ci è rimasta impressa nella retina e nel cervello che fine fa? Dove va a finire? Che cosa possiamo fare? Sono qui, a raccontare qualcosa che molti di voi non hanno visto, che in parte io ho visto, e che posso solo raccontare e testimoniare: il teatro vive nella memoria degli spettatori feriti.

Marta Marinelli

1) Questo libro, per molti anni e per intere generazioni ha rappresentato l’iniziazione all’universo grotowskiano, e per suo tramite, al teatro. L’edizione Bulzoni è stata pubblicata per la prima volta nel 1970.
2) Spettacolo spartiacque per il Nuovo teatro, Pirandello chi?, il primo di Perlini come regista, convoca nel buio, accentuato dal nero delle pareti, del Beat 72 presenze fantasmatiche in rivolta contro l’autore siciliano e le interpretazioni dominanti della sua opera.
3) A quel tempo la Carrà impersonava Maga Maghella, una figura immaginaria che aveva creato per la trasmissione Canzonissima 1971, apparendo, in proporzione al presentatore Corrado, di dimensioni minuscole.
4) Si riferisce allo spettacolo del 2004 realizzato con il Teatrino Clandestino, Madre Assassina, ispirato al personaggio di Medea.
5) Franco Cordelli raccontava dei gruppi teatrali sperimentali di cui i critici teatrali dei quotidiani non si occupavano.
6) Loriana Nappini, in arte Marion D’Amburgo, volto, corpo e voce della neo avanguardia, cofondatrice con Federico Tiezzi e Sandro Lombardi della compagnia Il Carrozzone, divenuti poi Magazzini Criminali e infine Magazzini.
7) Giuseppe Bartolucci è stato una presenza fondamentale nella geografia di quei luoghi, un osservatore che accompagnava e sosteneva i giovani artisti vivendo attivamente le scene.