Sei “atleti del cuore” guidati da Latella hanno acceso la Biennale Teatro di Katia Ippaso

Foto di Andrea Avezzù - Courtesy La Biennale di Venezia

Eva Cela, Pietro Giannini, Fabiola Leone, Irene Mantova, Riccardo Rampazzo, Daniele Valdemarin: ricordiamoci questi nomi. Sono giovani attori tra i 25 e i 30 anni. Li ha scelti Antonio Latella per un progetto pedagogico dell’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico durato due anni, che ha fruttato cinque spettacoli, presentati tutti nel corso dell’ultimo festival Internazionale della Biennale Teatro, la prima diretta da Willem Dafoe.

Theatre is Body. Body is Poetry recitava il titolo di questa edizione, che l’attore statunitense, in accordo con Andrea Porcheddu e Valentina Alferj, ha disegnato seguendo le linee della propria costellazione personale – Richard Schechner, Richard Foreman, The Wooster Group, Thomas Richards, Eugenio Barba, Anthony Nikolchev – senza trascurare innesti di diversa matrice teorica (Thomas Ostermeier, per esempio).

L’intero festival si è caratterizzato per un confronto vivo con la Biennale del 1975 diretta da Luca Ronconi, alla cui figura è stata dedicata un’intera giornata di studi. Come ha raccontato Jacopo Quadri nel suo bel documentario 75 Biennale Ronconi Venezia, il grande regista (scomparso nel 2015) riuscì allora a sabotare tutte le attese, comprese le proprie. Lui che si sarebbe contraddistinto per il rigore filologico, per il culto della parola (teatrale, letteraria, poetica, saggistica che fosse), aveva voluto regalare la città di Venezia non tanto ai simili ma ai dissimili: Eugenio Barba, il Living Theatre, Jerzy Grotowski, Ariane Mnouchkine, Meredith Monk, Memè Perlini, Alvin Curran, Giuliano Scabia, Andrei Șerban, erano arrivati tutti con i materiali incendiari, pronti a fare dell’intera città di Venezia un grande palcoscenico. Fu, quella del 1975, la Biennale dei giovani, magari non dei giovanissimi, ma dei più accesi sperimentatori della scena teatrale internazionale.

Foto di Andrea Avezzù – Courtesy La Biennale di Venezia

Torniamo così ai sei attori portati da Antonio Latella all’interno della Biennale College Teatro. Giovani e dissimili: per quello che abbiamo potuto constatare, Eva Cela, Pietro Giannini, Fabiola Leone, Irene Mantova, Riccardo Rampazzo e Daniele Valdemarin (alcuni di loro sono anche scrittori di teatro), si sono presentati così: refrattari ad ogni norma, compresa quella che vuole, a volte in maniera pretestuosa, la rottura di ogni regola artistica.

Dopo mesi di estenuante combattimento con i differenti materiali su cui erano chiamati ad esercitarsi, i sei attori ci hanno regalato una linea sinuosa, indimenticabile, di interpretazione fisica ed emotiva. Con la direzione del loro maestro, Antonio Latella, hanno rimesso in campo uno dei testi-monstrum della letteratura europea, indissolubilmente legato alla memoria di Luca Ronconi, ovvero Gli ultimi giorni dell’umanità, apologo fantastico- documentario sulla guerra (Kraus scriveva durante la Prima guerra mondiale), costruito su una ridda di voci contrastanti, ferocemente accostate, raccolte nei caffè letterari, in trincea, nei luoghi di villeggiatura e nei palazzi imperiali.

Foto di Andrea Avezzù – Courtesy La Biennale di Venezia

Come risarcimento ideale rispetto ad un mancato appuntamento con Ronconi (nel 1990, Antonio Latella, che era stato scelto per far parte del cast, all’ultimo momento si ammalò, e quindi non partecipò alla creazione di quell’opera-monumento), il regista e pedagogo napoletano ha composto, con Quattro stazioni per non dimenticare, un manuale vivente dell’arte dell’attore, inteso in senso artaudiano. Con uguale furore e millimetrico controllo, i sei “atleti del cuore” si sono gettati sotto le bombe di differenti parole: dai Sonetti di Shakespeare, alla base del romantico, estatico lavoro firmato dalla regista francese Nathalie Béasse (A.MOR.T), ai paesaggi metafisici e grotteschi evocati da Daniil Charms, poeta russo dell’inizio Novecento scelto dallo svizzero Thom Luz per la sua avvolgente opera (Evviva! Non ho detto niente!), passando per l’elaborazione di testi propri ripetuti nel flusso ossessivo imposto da Sebastian Nübling (Grrrrr/Grrrrr) e la dimensione collettiva del Noi evocata da Alessio Maria Romano.

Foto di Andrea Avezzù – Courtesy La Biennale di Venezia

Titolo unitario del progetto dell’Accademia Silvio D’Amico (dedicato al secondo anno del corso  di diploma in recitazione), Wordworldwar: una chiara presa di posizione rispetto alle guerre di ieri e di oggi fondata, nelle intenzioni di Antonio Latella (che si conferma non solo raffinato regista, ma anche responsabile pedagogo mai pago di sé, sempre alla ricerca di ciò che non si sa ancora), sulla consapevolezza che la parola, tutte le volte che spegne la luce della poesia e del ragionamento critico, spiana di fatto la discesa agli inferi. «Wordworldwar indica ironicamente una sorta di Paese delle Meraviglie, nell’assonanza con il fantastico Wonderland dell’Alice di Lewis Carroll: un luogo di parole magiche su cui permane però un alone di orrore che ci ricorda come ogni parola sia esplosiva, una potenziale bomba che può farci saltare in aria, più campo minato che giardino delle delizie».

Ora, tutto questo non solo non è rimasto a livello di intenzione pedagogica, ma è riuscito a farsi corpo, voce, gesto, sguardo, presenza, grazie alla maturità dei giovani attori che hanno saputo gettare il cuore oltre l’ostacolo. Qui non è solo una questione di bravura. Qui si gioca il potere della testimonianza, che si dà solo quando si arriva a non lesinare nulla di sé.

Peccato solo che questo lavoro coraggioso e polifonico non si possa vedere, almeno per il momento, da nessun’altra parte.

Foto di Andrea Avezzù – Courtesy La Biennale di Venezia
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