Dentro la scuola, fuori la Scuola. Per i laboratori teatrali un nuovo confine di Carlo Lei

Martedì 27 maggio Francesco Montagna, regista e organizzatore con Maura Teofili dello spazio romano di Carrozzerie n.o.t e anima del festival Allezenfants! che raccoglie da anni alcuni dei più virtuosi esiti dei laboratori teatrali nelle scuole superiori romane, in scena dal 4 al 6 giugno al Teatro India, scrive un appello, leggendo il cuore di molti e molte che operano nel teatro, nella scuola, in entrambi gli ambienti. Cuori, si potrebbe dire, divisi in due metà, come chi scrive, più o meno comunicanti. Lo fa per provare a creare «(…) una volta presa coscienza di questa grandissima comunità che opera silenziosamente e costantemente nelle strutture scolastiche (…) una piattaforma di confronto presente e costante. Contarsi. Conoscersi. Condividere una visione». Rispondo all’appello in prima persona su queste pagine, ipotizzando un contorno di riflessioni non originali ma urgenti.

Da qualche anno nella scuola secondaria di primo grado Guglielmo Massaia, parte dell’IC Artemisia Gentileschi di Roma, quartiere Centocelle, in cui insegno, teatro lo facciamo senza chiedere soldi alle famiglie. Nei primi anni è stato possibile grazie alla lungimiranza della (ex) dirigente Chiara Simoncini e alla sua collaboratrice Cristina Nardella, più recentemente anche centrando nel teatro le attività del bando Scuole Aperte del Comune di Roma, vinto per due volte. Ci hanno lavorato Francesca Macrì, regista e drammaturga di Biancofango, e Riccardo Guratti, danzatore e coreografo.

Foto di Margherita Masè

Il teatro, la danza, la musica, sono un antidoto, o perlomeno un vaccino – e le recenti esperienze ci hanno insegnato che un vaccino può non essere risolutivo, ma è capace di attenuare alcuni sintomi – contro l’individualismo, contro l’isolamento, la surroga dei rapporti causata dalla comunicazione attraverso le tecnologie digitali, contro diverse solitudini contemporanee, contro una vita inconsapevole. Le arti performative sanno resuscitare un testo dato per morto alle orecchie dure dei ragazzini, restituirgli senso quando non riesce più a parlare perché la distanza da chi ascolta è troppo compromessa dai media più abboccati e ammiccanti. Sanno anche insegnare la costruzione di una parola che non si parli addosso ma sia come un oggetto messo insieme, confezionato per qualcuno, che a quel qualcuno si mostri viva, perché deve essergli pórta.
Le arti performative sanno parlare del corpo in senso non competitivo (diversamente dallo sport, oggi agonisticizzato fin dalla più tenera età, tendente a una prematura professionalizzazione prima che al gioco), non sanitarizzato o medicalizzato, non giudicante o esclusivo, poiché lo portano agli occhi degli altri e delle altre come soggetto espressivo da cogliere. Le arti performative a scuola ribadiscono il significato originale del termine “laboratorio”, sanno incardinare le energie in progetti senza monetizzazione, senza obbligatoria produzione, senza mercificazione, che trovino nel presente del lavoro il senso del lavoro. Sanno far riemergere un’accezione di ambiente come luogo del respiro, come habitat del corpo e della vita, perché il corpo e la vita si rivelino essi stessi ambiente, habitat e protagonisti degli accadimenti.

Ecco perché sì, certamente, il teatro, la danza, le arti performative devono essere parte della vita scolastica, essi rispondono a un bisogno inespresso o espresso talvolta confusamente. Il bisogno di trovare un senso del sé nel mondo e del mondo nel sé – ben altrimenti di come suggeriscono le nuove e tanto criticate Indicazioni Nazionali per il primo ciclo di studi.
Devono mantenersi estranee ai curricoli, non devono dar luogo a “lezioni”, che sanno talvolta essere tomba dell’amore; fuori dal monte ore, fuori dalle classi di concorso dei docenti, fuori dagli obblighi di rendicontazione con presenze, giustificazioni, indicazioni stringenti o programmi, magari interrogazioni e voti. Contemporaneamente devono coinvolgere tutte le studentesse, tutti gli studenti. «In fondo, manca una cosa semplice: la fantasia. Non si vuole contemplare la possibilità (anche solo la fantasia appunto) di renderla strutturale all’interno del percorso scolastico cercando di farla uscire dalla casualità della fascia pomeridiana per renderla una presenza costante all’interno del programma didattico stesso», scrive Montagna. E invece sì, va contemplata questa possibilità, anzi ne va ricercata una forma efficace, e tale può essere solo se liminale. Al di qua dell’ingresso come materia nel curricolo, opzione che già solo a livello organizzativo-economico si autoelimina, e che anzi corre il rischio di diventare una nuova Educazione Civica, un nuovo Orientamento, così ben descritti recentemente da Christian Raimo; ma al di là dell’aleatorietà e della buona volontà di una dirigente o di una docente.

Foto di Margherita Masè

La forma va trovata insieme, senza contare sulla contingenza di un governo che ha espresso più volte il carattere del proprio orientamento nella cultura, nazionalista e conservatore, e nella scuola, ordinato meritocraticamente, finalizzato alla professionalizzazione. Il perno, la garanzia di questo equilibrio tra l’altissima professionalità degli operatori teatrali, la dimensione pedagogica e gli specifici bisogni dei territori, deve essere là dove molti di noi sentono di stare, collocato a metà strada, in una dimensione collegiale e liminale che sappia maneggiare i nomi, le storie artistiche, il peso delle metodologie, e mantenere lustro alle finalità.

Come tentammo di fare in uno spazio interno a Teatri di Vetro 2023 con Roberta Nicolai, Laura Novelli, Francesca Macrì e la complicità di Letizia Bernazza, ospite di queste righe e di altre che potranno seguire attorno alle questioni dei rapporti tra teatro e scuola, l’appello di Montagna vuole mappare i territori, con la consapevolezza che Roma non rappresenta un’avanguardia in termini di messa a sistema. In Emilia-Romagna, ad esempio, attraverso il lavoro di Altre Velocità, è stata tentata la strada della Rete di scopo tra Istituti.

Incontro tra scuole, comitati scientifici con soggetti istituzionali, teatrali, pedagogici e scolastici (perché i meccanismi della scuola vanno conosciuti), così si può organizzare il confine che cerchiamo.

Noi qui, ora, a Centocelle, ci accontentiamo di fare di necessità virtù, riconvertire fondi generici per attività mirate, un accrocco virtuoso, scassinare la cassaforte con una forchetta. L’anno prossimo, se riuscirà a vincere nuovamente il bando Scuole Aperte la scuola Massaia ospiterà, oltre a corsi L2 per famiglie, a pomeriggi di studio condiviso e altre iniziative, tre laboratori intensivi (una microscopica Ecole des Maîtres) di Unterwasser, Bartolini/Baronio, Riccardo Guratti e Silvia Gribaudi. In una prospettiva progettuale senza ampi orizzonti davanti a sé, in un territorio, quello del V Municipio di Roma, tutt’altro che facile.

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