ATTRICI> La spasmodica ricerca di amore e di senso. Incontro con Manuela Mandracchia di Laura Palmieri

Manuela Mandracchia. Foto di Gerardo Gaetani

Il quarto incontro della rubrica Attrici, a cura di Laura Palmieri, è dedicato a Manuela Mandracchia.

Cosa significa essere una attrice? Ce lo raccontano alcune tra le maggiori interpreti del nostro teatro, di cui ricorderemo negli anni – o già nel presente – lo stile, il rigore, la potenza, la personalità.

Un incontro vis-à-vis per tracciare percorsi, d’arte e di vita, per scoprire segreti e aspirazioni di uno dei mestieri più belli del mondo.

Classe 1970, dagli inizi degli anni Novanta ad oggi ha interpretato a teatro almeno 64 spettacoli. Una attrice che si è formata alla scuola del grande teatro di regia italiano, diventandone una delle interpreti privilegiate. Drammatica, ma anche comica, classica ma anche contemporanea, Manuela Mandracchia è una attrice – sperimentatrice, che ha saputo trovare in questi oltre 30 anni di carriera, una sua identità e autorevolezza, mantenendosi aperta al nuovo e ai cambiamenti.

Manuela partiamo dagli inizi. Come ti sei avvicinata al teatro?

Ho cominciato a scuola, come spesso succede. Alla scuola media di Albano. La professoressa di italiano ci fece fare un lavoro di drammaturgia, di scrittura, sul ruolo della donna nelle società e nei diversi periodi storici, e poi ce l’aveva fatto mettere in scena, creando un bel gruppetto di ragazzini che si erano appassionati a questa cosa.
Poi al liceo classico mi sono iscritta al laboratorio teatrale tenuto da Michele Francis, un attore romano che aveva fatto un percorso con Carmelo Bene. Ci faceva lavorare sulle poesie di Majakovskij, abbiamo fatto anche Pinocchio in playback! Lui era assolutamente contrario alla formazione accademica. Invece un po’ di noi del Liceo Ugo Foscolo, segretamente, abbiamo fatto l’esame in Accademia, alla Silvio d’Amico, e siamo stati presi.
Il mio primo spettacolo l’ho fatto a 14 anni, nel coro di un’Antigone ad Agrigento.

Già allora pensai che questo lavoro, il lavoro dell’attore, fosse un lavoro triste.

Vedevo questi attori più grandi di me, ma che erano comunque giovani attori, e mi sembrava che avessero concepito questo lavoro, come un compromesso tra le proprie aspirazioni, tra il proprio sogno e quella che invece è la realtà. Viene definito un lavoro d’arte, ma l’arte è qualcosa che accade, degli istanti.

Bisogna considerarla invece una professione, fatta di tecnica, di dedizione. Poi c’è anche una parte più incontrollabile, legata al talento, all’idea di qualcosa di spirituale, di magico. Quello che dico sempre ai ragazzi che incontro è che accanto ai metodi e al lavoro c’è qualcosa di incontrollabile che avviene, a volte, anche solo per degli istanti. Nello stesso spettacolo possono esserci tre attimi di luce e poi per il resto è routine.
Recitare è questa lotta continua tra l’essere presente in quello che fai, essere nell’istante, e avere il pieno controllo di tutto quello che accade fuori. Tra l’altro io volevo fare archeologia, poi invece quando cominci a fare questo lavoro gli devi dedicare tutto il tempo, se vuoi farlo davvero.

La tua famiglia ti ha appoggiato in questo percorso?

Mi hanno sempre sostenuto molto. Insegnanti tutti e due, mia mamma di italiano e storia, mio padre di matematica. Sono stati due genitori molto aperti, molto creativi. Mi ricordo questa infanzia piena di gente che arrivava, colleghi, amici, i miei compagni di Accademia, e si stava insieme a chiacchierare di politica fino a notte fonda. Insomma, non proprio una comune, ma un luogo aperto sì.

Poi si sono trasferiti in campagna e hanno creato una specie di fattoria, dove pensavano di ospitare spettacoli, di creare una compagnia teatrale. Un po’ è successo. Adesso per esempio c’è il Teatro di Paglia, la rassegna teatrale che facciamo ormai da più di 10 anni nell’azienda agricola di mio fratello. Un posto incredibile sul lago di Nemi, dove l’estate facciamo teatro in mezzo alle balle di paglia, con la collaborazione di tanti artisti amici, che vogliono provare delle cose, che hanno un progetto in costruzione…  non ci sono finanziamenti, non c’è niente, è un luogo da cui partire, in cui sperimentare, un presidio.

Manuela Mandracchia e Mariangela Melato in “Amor nello specchio”, di Giovan Battista Andreini, regia Luca Ronconi. Foto di Marco Caselli Nirmal

Tu sei nata nel 1970, dunque fai parte di una generazione teatrale che ha conosciuto la stagione del grande teatro di regia. Tra i tanti registi con cui hai lavorato, Ronconi è sicuramente quello con il quale hai stretto il sodalizio più lungo, partecipando a ben 10 suoi spettacoli. Tra gli incontri fondamentali che hai avuto citerei anche quello con Massimo Castri. Cosa è cambiato oggi secondo te? C’è ancora il teatro di regia?

Io sono uscita dall’Accademia agli inizi degli anni Novanta, e devo dire che quelli sono stati un po’ gli anni di svolta. C’era ancora, appunto, il grande teatro di regia, il teatro dei grandi classici. Ricordo, però, che noi giovani attori cercavamo anche qualcosa di più vicino alla nostra generazione, di più contemporaneo.
Alcuni registi, alcuni insegnanti che abbiamo avuto in Accademia ci sembravano degli insegnanti un po’ vecchia maniera.

Detto questo, però, la grande differenza è che noi quel teatro che ci veniva insegnato o con cui entravamo in contatto, poi lo vedevamo in scena. Noi abbiamo visto gli spettacoli di Ronconi, di Castri, di Cobelli, e di tutti i registi con cui tu ti confrontavi. Allora nel bene e nel male, avevi dei punti di riferimento, anche per prenderne le distanze.

Quello che è complesso adesso, per un ragazzo agli inizi, è che non lo può vedere quel teatro, se non quel poco che sopravvive ancora nel DNA di alcuni interpreti a cavallo tra due “epoche”. E per un giovane può essere del vecchiume senza senso, perché non ha riferimenti. Vedere uno spettacolo di Ronconi ti metteva in una relazione tra te, l’analisi del testo, una ricognizione di tutto il teatro passato, del tipo di drammaturgia, di letteratura, e tu ti ci potevi confrontare.
Per noi il fare teatro conviveva con il nostro bisogno di ricerca, di crescita, di ammodernamento. Forse è così per ogni generazione, ma adesso mi sembra sia tutto più complesso. La possibilità che uno spettacolo cresca, che una compagnia si formi, che un linguaggio si tramandi, che si mettano insieme mondi di riferimento, non c’è più.

E quindi per un giovane è più difficile capire dove si situa quello spettacolo piuttosto che un altro. Non che non ci siano spettacoli belli, ma ti rendi conto che, a volte, chi fa teatro viene da mondi di riferimento un po’ più circoscritti, un po’ autoreferenziali. Invece registi come Ronconi o Castri avevano l’ambizione di poter lavorare anche con attori di diversa provenienza, con una formazione diversa, o con attori agli inizi, a cui hanno dato enormi possibilità.

Di crisi del teatro si parla da molti anni, e per vari motivi, ma in questo momento specifico stanno accadendo cose molto gravi, e da più parti si stanno sollevando voci di protesta e inviti a manifestare contro questa sorta di restyling del teatro italiano, basato prevalentemente su meri criteri numerici e molto poco artistici.
Cosa pensi tu della vostra categoria, c’è poca unione tra di voi?

Noi effettivamente siamo una categoria poco unita, ma lo siamo anche perché siamo una categoria estremamente fragile. Sto parlando soprattutto di noi attori.
Durante il periodo del Covid, mi ricordo che ci fu il problema dei contratti, per cui chi aveva perso una scrittura, veniva pagato i famosi 11 giorni e poi arrivederci. In quei giorni ci siamo messi in contatto con la Direttrice di un teatro francese, non mi ricordo se di Marsiglia o di Nizza, e le abbiamo chiesto come avevano affrontato questa questione, e la sua risposta è stata: «ma io ho pagato tutti i miei, tutti i contratti sono stati onorati, perché altrimenti il Ministero mi asfaltava». Questa è stata la risposta, non è stata «sennò gli attori mi facevano causa». Perché le cause degli attori non servono a niente.

Gli attori sono estremamente fragili, ricattabili. Se per caso un attore alza un dito e protesta per una certa situazione, la stagione successiva non lo richiamano. Un attore da solo è preda di ritorsioni, e noi non siamo riusciti a creare negli anni degli organi che potessero in qualche modo tutelarci, che facessero da filtro e da ponte con le istituzioni, con il Ministero.
Avremmo dovuto approfittare, per esempio, del momento del Covid per far diventare lo spettacolo dal vivo uno dei primi punti dell’agenda di ripresa di una nazione, di una società che si era disgregata, isolata. E invece non siamo stati in grado. Avremmo dovuto chiudere baracca e burattini e dopo un po’, forse, qualcuno si sarebbe chiesto: «ma gli attori dove sono? Ma c’era una cosa che si chiamava teatro?».
Non è un rimprovero a nessuno, sia chiaro! Perché poi al centro c’è tutta la questione di che cos’è questa professione. Anche tra di noi è complesso dire chi è attore, chi non è attore, chi ha una formazione e chi no. E chissà se è giusto che esista solo chi ha una formazione, un titolo accademico.

Quello di regolamentare, stabilire dei parametri, è da un lato necessario, dall’altro l’arte per sua natura rifiuta le classificazioni. Per esempio, tutta la questione degli under 25, 30, 35, così discussa, è a mio parere invece necessaria per dare maggiori possibilità ai giovani senza prescindere però da una valutazione artistica.

Sul regolamentare sono assolutamente d’accordo. Ti dirò di più, io sono pure per le quote rosa, perché altrimenti non ce la faremo mai. Non è una questione di capacità o di merito. Noi donne paghiamo le tasse tanto quanto gli uomini, siamo forse più degli uomini come percentuale, eppure la narrazione ci dice che in teatro la drammaturgia per le donne non esiste. Superati i 30 anni non ne parliamo.

Da destra Alvia Reale, Manuela Mandracchia, Mariangeles Torres, Sandra Toffolatti in “Roma ore 11”, di Elio Petri, interpretazione e regia Mitipretese. Foto di Francesco Biscione

La misoginia è stata uno dei motivi che ti hanno spinta nel 2006 a creare Mitipretese insieme a Sandra Toffolatti, Alvia Reale e Mariangeles Torres. E tutte venivate dalla “scuola” di Ronconi.
Parliamo un po’ di questa esperienza.

La molla che ci ha spinto a creare una compagnia autonoma e indipendente come Mitipretese è stata di cimentarsi con la regia, ma nessuna di noi era “la regista”. C’era una regia collettiva, in cui facevamo una grande analisi sulla drammaturgia. Era un lavoro davvero di condivisione. Durante gli anni di lavoro con Mitipretese non sai le volte che ci siamo sentite dire “ma perché non vi fate aiutate a fare la regia?”.
E poi non condividevamola visione che Ronconi aveva sul femminile, che era un po’ mostrificante e dove la donna era sempre colpevole. Una visione purtroppo molto diffusa. Volevamo provare a fare qualcosa che prescindesse dal nostro essere donna, interpretare ruoli diversi, confrontarci con i nostri stessi pregiudizi. Abbiamo provato a metterci in gioco e a raccontare le donne dal nostro punto di vista.

Il nostro primo spettacolo è stato Roma ore 11, che abbiamo creato a partire dall’inchiesta di Elio Petri, che diventò poi un film, su un fatto di cronaca avvenuto a Roma nel 1951, quando 200 ragazze si presentarono al colloquio per un posto di lavoro da dattilografa e 77 di loro rimasero coinvolte in un incredibile incidente.
Lì affrontammo il tema del lavoro femminile, poi abbiamo fatto insieme Troiane. Frammenti di tragedia sulle donne e la guerra, e Festa di famiglia, un collage di testi pirandelliani sul tema della violenza domestica realizzato con l’aiuto del grande Andrea Camilleri. Una trilogia sulle donne che abbiamo portato in scena fino a pochi anni fa.

L’esperienza di Mitipretese si colloca anche in un periodo di allontanamento da Luca Ronconi, con cui hai collaborato dal 1996 al 2003. Poi, dopo una interruzione di 10 anni, vi siete reincontrati per una delle sue ultime regie, anzi la penultima, Il panico di Rafael Spregelburd. In questo spettacolo Ronconi aveva messo insieme tante attrici di generazioni diverse. Con te c’erano le tue compagne di Mitipretese Alvia Reale e Sandra Toffolatti, insieme a Maria Paiato, Iaia Forte, Elena Ghiaurov, Francesca Ciocchetti, Valentina Picello, Maria Pilar Pérez Aspa, Bruna Rossi, Lucrezia Guidone, Valeria Milillo. Uno squadrone di donne sull’orlo di un precipizio, in una società senza padri. Un testo manifesto, in qualche modo, del teatro ronconiano.

Vorrei partire dal mio primo incontro con Ronconi, accaduto in realtà grazie ad una sostituzione durante le prove di uno spettacolo di Massimo De Francovich, Le cugine di Italo Svevo. Da lì, con due battute, mi sono trovata catapultata nel mondo di Ronconi, che invece inizialmente non mi aveva presa al Corso di perfezionamento in Accademia.
Il mio primo spettacolo con lui fu Verso Peer Gynt di Ibsen, nel 1996.

Aveva un carattere difficile, ma era anche una persona divertentissima. E, soprattutto, un lettore di testi straordinario. Sembrava che stesse tutti i giorni sul pullman, nei gabbiotti dei portieri o al bar a servirti, perché conosceva il mondo. Conosceva gli uomini e le donne, la loro lingua, che poi restituiva, a suo modo, in teatro. Ci diceva una cosa che era molto interessante: «non imitate la rappresentazione che i media fanno della realtà, ma imitate la realtà. Perché la realtà, con i suoi suoni, con la sua lingua, è molto più articolata, molto più complessa».
Nel teatro di Ronconi c’è sempre stata questa capacità di analizzare l’essere umano attraverso i movimenti interiori, l’inconscio, i sentimenti, cosa di cui lui non avrebbe mai parlato.

Per arrivare invece alla separazione di cui accennavi, accadde in un periodo in cui, per motivi che non voglio più ricordare, ma che mi avevano fatto molto soffrire, mi allontanai soprattutto dal Piccolo, e dunque anche da Ronconi. Perché il Piccolo e Ronconi erano anche una “gabbia”, se pur dorata e meravigliosa. Fuori da lì era difficilissimo poter fare altro. E proprio in quel momento di crisi, invece, mi chiama Castri a fare Mommina in Questa sera si recita a soggetto. Sono stata per molti anni lontana dal Piccolo e da Ronconi. Poi lui si è ammalato. Mi informavo attraverso gli amici, e un giorno noi quattro di Mitipretese siamo andate a trovarlo a Santacristina.
Non ero mai stata a Santacristina e non lo vedevo da tanto tempo. Era molto stanco, ma contento di farci vedere la sua Scuola. A un certo punto gli abbiamo parlato di Roma ore 11. Gli ho detto: «guarda Luca, se vuoi lo possiamo fare anche qua, noi lo facciamo ovunque, abbiamo due lenzuola, quattro sedie, davvero!». E così lo abbiamo fatto a Santacristina, davanti a lui. Ci disse delle cose meravigliose, e poi mi chiese se volessi andare al Piccolo a insegnare. E così fu.
Successivamente ci chiamò tutte per Il panico di Rafael Spregelburd. Riflettendo sugli ultimi due spettacoli di Ronconi, nel testo di Spregelburd erano tutte donne o quasi, mentre in Lehman Trilogy di Massini quasi tutti uomini, e in entrambi al centro c’era il padre, la ricerca del padre.
Come dicevi, sembra un testamento. E pensa che proprio durante le prove de Il panico, Ronconi ci ha raccontato di aver ritrovato casualmente in biblioteca un libretto che gli aveva regalato anni prima Margherita Palli. Si trattava di una di quelle riscritture di romanzi per ragazzi della Scala d’oro. Aveva scoperto che era un libro scritto da suo padre, Giovanni Ronconi.
Alla fine, io penso che stesse cercando la figura paterna.

Manuela Mandracchia e Massimo Popolizio in “Questa sera si recita a soggetto”, di Luigi Pirandello, regia Luca Ronconi. Foto di Marcello Norberth

Dopo il percorso con Ronconi, che ti ha formato, che è stato un riferimento, sei riuscita e con quanta fatica a crearti un tuo metodo?

Questa è una domanda interessante. Io ho sempre continuato a formarmi, a fare dei laboratori anche mentre lavoravo con Ronconi. Ho fatto un laboratorio con Thierry Salmon, ho frequentato la scuola di Peter Brook, all’École des Maîtres ho lavorato con Alfredo Arias, Dario Fo, Anatolij Vasil’ev. Insomma, ho voluto incontrare anche altri Maestri. Pur riconoscendo che il lavoro con Ronconi era stato fondamentale, ho capito che era una parte del lavoro. In questa ricerca che non finisce mai, sono arrivata alla conclusione che non esiste un unico metodo, ma che ce ne sono tanti e ciascuno deve ricomporre il proprio. Lo dico sempre ai ragazzi quando mi capita di lavorare con loro. Ciascuno deve essere consapevole di dove stia andando e, a volte, deve semplicemente seguire l’intuito.

Dopo Ronconi l’altro tuo incontro importante è stato quello con Massimo Castri. Ed è stato Luigi Pirandello, un autore che tu ami molto, il trait d’union tra te e questi due grandi registi, che ti hanno diretta in Questa sera si recita a soggetto, Ronconi nel 1998 e Castri nel 2003.

Si, con due ruoli diversi, però. Con Ronconi interpretavo La Sciantosa, e con Castri invece ero Mommina.
Lo spettacolo di Ronconi era sul panoptismo. Aveva messo gli spettatori in scena, per sottolinearne il ruolo attivo nel processo teatrale. Fu un lavoro straordinario di lettura, un Pirandello fuori dal comune.
Castri invece era in qualche modo meno ostinato a opporsi alla scrittura pirandelliana. Perché Pirandello è un autore infame, perché per quanto tu lo possa odiare, ti ci voglia mettere contro, in realtà vince sempre lui. Perché ha dei meccanismi che ti sembrano passati, ormai desueti, e che invece funzionano sempre.
E poi c’era un cast bellissimo. Valeria Moriconi, un altro incontro meraviglioso. È stato uno degli ultimi spettacoli di Valeria, l’ultimo forse. Tutti mi avevano messa in guardia sul rapporto della Moriconi con le donne, con le attrici. Con me è stata meravigliosa. Tutte le sere ai ringraziamenti, lei arrivava per ultima, tra me e Sergio Romano, e mi mandava avanti a prendere gli applausi.
Castri era un regista che faceva un lavoro straordinario sul sottotesto, creava per gli attori un immaginario di riferimento molto preciso. La famiglia, il senso della famiglia, era il suo grande campo di indagine.
Mi ricordo di come aveva creato l’immagine di Mommina e Verri invecchiati: una coppia stanca, invelenita dagli anni, calata in una provincia italiana desolata, dove si consumavano delle tragedie. Così ti allontanavi dall’immaginario degli allestimenti pirandelliani degli anni Trenta e ci vedevi i tuoi nonni, i tuoi genitori, le tue dinamiche familiari.

Lo scavo nel testo di Ronconi e invece lo scavo nell’immaginario di Castri.

Si, erano due mondi complementari. Uno guardava alle viscere e l’altro alle viscere del cervello. Insomma, erano dei registi che ti mettevano in difficoltà, ma che sicuramente ci hanno consegnato una visione, un immaginario.

Da destra Valeria Moriconi, Manuela Mandracchia, Greta Zamparini, Anna Della Rosa, Laura Gambarin in “Questa sera si recita a soggetto”, di Luigi Pirandello, regia Massimo Castri. Foto di Tommaso Le Pera

Venendo all’oggi, ti chiederei della tua recente e fortunata collaborazione con Filippo Dini, che ti ha diretto in due bellissimi spettacoli: Il crogiuolo di Arthur Miller e Agosto a Osage County del premio Pulitzer Tracy Letts, anche grande successo cinematografico, e che ti è valso il Premio Le Maschere del Teatro 2024 come miglior attrice non protagonista all’interno di un cast davvero straordinario.
Parliamo un po’ di questa nuova generazione di registi-attori, che sempre di più negli ultimi anni stanno occupando anche posizioni importanti nei Teatri Stabili, come appunto Filippo Dini, Valerio Binasco, Arturo Cirillo…
È più difficile per te, adesso, incontrare un regista con cui iniziare un percorso?

Sicuramente è più difficile. Anche perché ho più esperienza, conosco le strade già percorse, mi sento a casa. Ma proprio per questo continuo a fare ricerca. Mi piace. Mi confronto anche con la scrittura, con la regia.
Tra poco, il 12 e 13 luglio, a PolverigiFest firmo la messa in scena di un testo di Sergio Pierattini, Bartali all’inferno, interpretato da Massimo Reale, Lorenzo Frediani e Camilla Diana. E nella prossima stagione ci sarà la ripresa del testo di Lucia Franchi e Luca Ricci, anche regista, Le volpi, in cui sono in scena con Giorgio Colangeli e Federica Ombrato. Un testo che sembra scritto oggi, per questi tempi di crisi del teatro e di politiche culturali dissennate.

Mi interessa la drammaturgia contemporanea, ho voglia di confrontarmi con nuovi registi, e mi rendo conto che quelli che hanno più “strumenti”, spesso sono anche attori. Filippo Dini è un bravissimo attore. Conosce perfettamente la “macchina” e capisce quali sono le difficoltà, le idiosincrasie, le resistenze del nostro mondo. Ed è anche un eccellente costruttore di compagnie, proprio perché è lui stesso un attore. Sia in Agosto a Osage County sia ne Il crogiuolo è riuscito a mettere insieme attori di diversa provenienza, con risultati eccezionali. A mio avviso è un regista in grado di creare un immaginario, come i grandi registi che abbiamo citato in questa intervista.

Manuela Mandracchia in “Agosto a Osage County”, di Tracy Letts, regia Filippo Dini. Foto di Luigi De Palma

Che cos’è che non ti piace del tuo lavoro, del tuo mestiere di attrice?

Non è una domanda semplice. Ti dico quello che ti avevo detto all’inizio. Secondo me è un lavoro un po’ triste, malinconico. È un lavoro per cui tu sei l’oggetto del tuo lavoro, sei sottoposto a un giudizio continuo, tuo e degli altri, ed è anche un lavoro che chiede un compromesso tra i propri desideri e la realtà.
Tutti i lavori probabilmente sono così. Però se, ad esempio, io costruisco un tavolino, certo mi dispiace se mi dicono che non mi è venuto bene, però il tavolino è fuori da me. Invece io sono il mio tavolino, e quindi se il tavolino non piace è come se dicessero che tu non piaci, che il legno di cui sei fatto non va bene.

La spasmodica ricerca di amore, dell’essere apprezzato, è dolorosa. È dolorosa per la crescita stessa dell’essere umano.

Poi però credo anche profondamente nella funzione sociale di questo lavoro. Quando qualcuno ti viene a ringraziare, a dirti che “è successo qualcosa”, allora tutto prende senso. Questo è un momento atroce, di guerre devastanti, di genocidi, dove ti sembra tutto totalmente insensato. Il teatro, la cultura, la letteratura possono invece restituire identità ad un popolo. Riconoscere, per esempio, la poesia del popolo palestinese, la loro letteratura, la loro musica, significa riconoscerli come esseri umani. Se la vedi da questo punto di vista, allora essere un attore, un artista, è una grande funzione. Quella di un artigiano che aiuta a costruire identità.

Così hai già risposto all’ultima domanda che ti avrei fatto: che cosa significa per te essere un’attrice?

Significa lottare, stare in equilibrio tra la tua vanità, il tuo bisogno di essere apprezzato, e il profondo senso che può avere e che deve avere questo mestiere.

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