
Sono da poco passate le venti quando, avvolto nella calda luce rossastra che accarezza le strade di Ravenna, un variegato popolo di spettatori “erranti” di cui facciamo parte si raccoglie davanti a Palazzo Malagola, sobria dimora settecentesca nel cuore della città da anni sede della Scuola di vocalità e del Centro internazionale di studi sulla voce e sul suono fondati da Ermanna Montanari ed Enrico Pitozzi nel 2021. Ed è proprio l’immensa voce di Ermanna, affacciatasi da un piccolo balcone con ringhiera di ferro battuto, a rompere il silenzio di questo momento sospeso in un tempo-non-tempo di attesa. Ci interroga e si interroga sul senso ultimo di un’erranza che non è ancora un andare verso una meta precisa ma che già si preannuncia come il viaggio per antonomasia: quello dentro di noi, dentro i nostri sogni, le nostre in-certezze, le nostre confusioni, la nostra immaginazione. Un viaggio personale e, tanto più, collettivo, condiviso, dove si rincorrono domande fondative sul valore dell’arte, del teatro, della letteratura, delle illusioni; sulle scellerate straducole che il mondo odierno ha deciso di percorrere sostituendo il mostruoso all’umano, il cinismo alla pietà, la censura alla libera espressione, l’apparire alla sostanza.

Siamo solo all’inizio dell’avventura. Sappiamo che ci aspettano più di quattro ore di spettacolo. Sappiamo che incontreremo tante figure, immagini, parole, tanti archetipi, corpi, luoghi, tanta musica, tanta energia. Tutto l’ardore, insomma, che Marco Martinelli e la stessa Montanari hanno messo nelle spirali del loro complesso Don Chisciotte ad ardere, una sorta di polittico “pittorico” in tre parti ispirato al celebre romanzo di Cervantes che, dopo le prime due ante messe “in vita” (per usare un’espressione cara alla compagnia romagnola) rispettivamente nel 2023 e nel 2024, giunge adesso alla sua forma conclusiva con la realizzazione di una terza anta fisiologicamente legata alle precedenti e votata ad accogliere, nel respiro metateatrale che la connota, un autobiografismo artistico quanto mai “politttttttico” (per attingere ancora al vocabolario delle Albe) e, insieme, quanto mai poetico.
Politica e poesia ci sembrano infatti le radici più autentiche di questa affascinante esperienza immersiva che si snoda da Palazzo Malagola all’area archeologica del Palazzo di Teodorico fino al Teatro Rasi (luogo emblematico di approdo) e dalla quale si esce – evviva – storditi di domande, emozioni, pensiero.
Conditio sine qua non: lasciarsi attraversare dai molteplici segni di un universo incantato dove lo sguardo sul mondo – sul nostro povero mondo – risulta sempre vigile ma spesso sghembo: mutuato, appunto, dalla caparbia consapevolezza che la creazione artistica sia e debba continuare ad essere un antidoto contro la barbarie. È la linfa, questa, che in un modo o nell’altro tiene insieme l’intero processo performativo, innescandolo su una drammaturgia che posiziona sullo sfondo il tema clou del romanzo e alcuni suoi snodi narrativi per aprirsi a continue inversioni, continue rotture della finzione, continue sollecitazioni diverse, complice la presenza in scena dei numerosi cittadini e cittadine ravennati che – come già sperimentato negli esiti scenici del progetto Cantiere Dante (2017-2022) – hanno aderito alla Chiamata Pubblica della compagnia, cui si aggiungono qui alcune “tribù” di giovani ragazzi attinte ai laboratori della Non-Scuola disseminati in Italia e oltreconfine.

Un popolo di erranti loro. Un popolo di erranti noi. Un popolo di erranti anche gli incisivi interpreti chiamati a ricoprire i ruoli di Don Chisciotte (Roberto Magnani), Sancho Panza (Alessandro Argnani) e Dulcinea (Laura Redaelli) ed erranti sono pure i due maghi che ci guidano: Marcus ed Hermanita. Per loro stessa ammissione la loro arte magica vacilla; hanno le bacchette spuntate, i poteri indeboliti. Eppure, in questo vortice di illusioni in cui tutto è e non è, tutti sono e non sono, essi non perdono mai la bussola della loro magia: Marcus sembra un demiurgo paterno e accudente che epicizza i fatti e srotola via via il filo del racconto; Hermanita possiede la forza di una presenza ieratica, extra-terrena, che con il suo dire e i suoni della sua lingua antica (animata a tratti da lievi coloriture ironiche) crea spazi e luoghi e mondi. In fondo, ricollegandoci proprio alla precedente esperienza dantesca delle Albe, questi due incantatori un po’ malandati hanno tutta la potenza di Virgilio. Ma anche quella di Prospero e, ancor di più, quella di Cotrone, il mago vacillante de I giganti della montagna di Pirandello che sente piombare sulla sua villa la minaccia atroce di una civiltà senza cultura e senza grazia.
Per fortuna ci sono i sogni. E proprio dai sogni prende avvio la prima anta dello spettacolo, laddove il palazzo incantato e la locanda del romanzo secentesco disegnano la loro architettura su quella di Palazzo Malagola trasformandolo in un labirinto di ascolto e di visioni oniriche. Alcuni cittadini-attori lavorano con la macchina da cucire, altri scrivono i loro sogni su dei cartoncini rettangolari, ce li raccontano sommessamente, intimamente: un incontro che è vicinanza e al quale è impossibile sottrarsi.
Ogni spettatore riceve un sogno in dono e poi si incammina dentro il palazzo seguendo il suo sognatore. Di stanza in stanza, il superbo racconto per immagini si appunta alla realtà, alle pulsioni più ancestrali, ai sentimenti più veri: un campo di grano, una famiglia luttuosa che beve il brodo con i coltelli, un bambino che gioca, una biblioteca disordinata, un campo di battaglia con soldati feriti, una donna che si taglia i capelli, due anziani nudi seduti di spalle su un piccolo divano che si cingono con le braccia come a segnare un legame eterno (immagine quanto mai potente che ci ha profondamente commosso e ci ha ricordato il meraviglioso libro di Georges Banu L’Homme de dos. Peinture, théâtre, Adam Biro, 2000).

Quando usciamo in cortile, lo spettacolo improvvisamente vira, fa una giravolta: musica dal vivo, balli, festa. Marcus introduce i tre personaggi del Don Chisciotte. Anche loro vacillano, “sono e non sono”, “vogliono e non vogliono”, stanno nella finzione e ne escono di continuo per professarsi attori, per parlare di sé, per raccontare il romanzo, per mescolare biografia e immaginazione. Tra registri straniati e accenti burleschi in odore di Commedia dell’Arte, i tre bravi attori (tutti legati alle Albe da anni) tengono acceso il nesso con il Seicento di Cervantes, secolo di guerre, epidemie e sciagure che nasconde tra le sue pieghe una crisi assai simile a quella contemporanea (non è forse anche il secolo di Amleto e del suo «To be or not to be?») e però, allo stesso tempo, fanno del palcoscenico – di questo palcoscenico qui – la loro casa, la loro tribuna di umanità.
Ruolo teatrale e identità personale si con-fondono a tal punto che, non appena il popolo furioso si abbatte contro di loro e appronta un rogo di tutti i libri responsabili di aver reso “folle” Don Chisciotte (Dante, Artaud, Voltaire, Campo, Calvino, Majakovskij, solo per citarne alcuni), il gioco della finzione non può più essere tale e l’eco della nostra Storia recente diventa ineluttabile scenario di memoria: «Si comincia col bruciare la carta» – dice Hermanita – «Si finisce per bruciare la carne! Si comincia con un rogo di libri. Si finisce con un rogo di donne, uomini, bambini! Scapì! Scapì!».

Da questa fuga necessaria scaturisce la seconda anta del lavoro: il corteo errabondo degli spettatori segue Marcus per le strade del centro. Ora è buio. L’atmosfera cittadina si fa ovattata, quieta. Ci attende un’area archeologica all’aperto dominata da alte mura, un prato e un braciere di fiamme ardenti. Sebbene prosegua il filo drammaturgico basso e buffo degli attori lamentosi, il cuore della narrazione è rappresentato adesso da una novella, intitolata La schiava di Algeri, che trova spazio nelle pagine stesse del Don Chisciotte, dove si narra la tragedia di una donna che giace morta sul fondo di un lago insieme alla sua bambina.
L’accostamento tra ridicolo e dramma è qui fondamentale e il legame con il femminile dà alla vicenda un piglio sociale di indubbio spessore. È sempre Hermanita a invitarci all’indignazione perché questa povera schiava: «Porta il nome di tutte! Viene dall’India, dal Nepal, che importa. Da un villaggio sperduto dell’Africa. Viene dalla Grande Moldavia, dal Kosovo. Dall’immensità sterminata della terra. Cammina come uno spettro. Sulle vie che portano a Roma. La Salaria, l’Appia, la Tuscolana. È uno straccetto. Afferrato e poi buttato via. Nella desolazione di questo Mondo!».

Ancora dunque un travaso dall’immaginazione alla realtà. Dalla stoffa di una storia inventata a quella della cronaca contemporanea. Ancora l’urgenza di dire e di far sentire la propria voce di teatranti.
Naturale perciò che l’ultimo luogo deputato ad accogliere la nostra erranza carica di senso sia un teatro, nello specifico il Rasi, dove, in una coralità di presenze festanti chiamate ad incorniciare l’episodio romanzesco delle nozze di Gamaccio, Hermanita incontra la se stessa bambina e la prende per mano. O meglio, le Albe incontrano la loro storia pluridecennale e la ricapitolano in segni, oggetti, reperti di vecchie scenografie per affermare – oggi più che mai – il diritto di esserci e di creare.
Proprio come Cotrone difende la sua villa degli Scalognati, così l’ultima anta di questo poderoso polittico si inscrive nel perimetro di un fare-Teatro che, arrivando in ogni dove, assemblando cittadini e ragazzi, rifugge il mero “teatttrino” commerciale, il cicaleggio di vezzi sociali e “social” superficiali e disattenti, per difendere la libertà di sognare, immaginare, progettare spirali, pieghe, ipotesi più che linee rette. I due maghi di questo incantesimo un po’ folle ci regalano, in definitiva, un organismo scenico e un messaggio che sono davvero politici nel senso più alto del termine. Regalandoci, nel contempo, la poesia di un theatrum mundi da difendere e amare come il più prezioso dei nostri beni.

Don Chisciotte ad ardere
ideazione, spazi architettonici, drammaturgia e regia Marco Martinelli e Ermanna Montanari
in scena Ermanna Montanari, Marco Martinelli, Alessandro Argnani, Roberto Magnani, Laura Redaelli, Fagio, Marco Saccomandi e le cittadine e i cittadini della Chiamata Pubblica
musiche LEDA, commissione di Ravenna Festival
electronics e sound design Marco Olivieri
scenografia Ludovica Diomedi, Elisa Gelmi, Matilde Grossi
disegno dal vivo Stefano Ricci
costumi Federica Famà, Flavia Ruggeri
disegno luci Luca Pagliano
direzione tecnica Luca Pagliano, Alessandro Bonoli, Fagio
direzione organizzativa Silvia Pagliano, Serena Cenerelli
disegno e grafica Stefano Ricci
coproduzione Albe/Ravenna Teatro, Ravenna Festival e Teatro Alighieri in collaborazione con i Musei nazionali di Ravenna e con Opera di Religione della Diocesi.
Palazzo Malagola, Palazzo di Teodorico, Teatro Rasi, Ravenna, fino al 13 luglio 2025.