Anni di una memoria sempre presente di Paolo Ruffini

Foto di Michelle Davis

Ha ragione Paolo Nutini quando canta Through The Echoes (brano tratto dal suo ultimo struggente lavoro discografico), il nostro modo di stare al mondo riconosce nelle eco quel “possesso” di uno spazio soggettivo che resiste all’usura del tempo, eco di ritorni e distanze in uno “spreco” percettivo di azioni moltiplicatrici di spazi privati e collettivi (direbbe Michel de Certeau), quali margini non soltanto metaforici di interconnessioni tra pratiche, confini e habitus emozionali. L’eco intangibile, riverbero e memoria sempre presenti, è il timbro che meglio “fotografa” questo spettacolo di Marco D’Agostin Gli Anni con Marta Ciappina protagonista scenica, che ha avuto una prima apertura presso il fiorentino CANGO – Cantieri Goldonetta e successivamente il debutto all’Arena del Sole di Bologna. Il pubblico entra mentre la Ciappina è intenta a calibrare quel vuoto dello spazio come per orientarvisi al suo interno, qualcosa sembra essere già accaduto, nella migliore trazione della tragedia, ma è lì ad incassare un dolore ulteriore, attende in quanto mai rimosso un possibile rigurgito di quel dolore, quelle eco nel nostro presente, appunto, nel presente della protagonista soprattutto che con l’autore cuce parabole di andate e ritorni dalle rispettive biografie, sebbene quella della performer sia il terreno dal quale far riemergere reperti e paesaggi. Sul fondo, in alto a destra, un monitor riporta i crediti e in esergo frasi di Annie Ernaux e di Max Pezzali, come a rimarcare le possibili derivazioni persino pop di un titolo che lega l’autrice Premio Nobel per la Letteratura di quest’anno al mainstream della cultura musicale italiana (ma è poi, anche, l’appiglio narrativo generazionale, di quegli anni che vedono la formazione di autore e interprete e, in un caso, la tragedia della quale annusiamo il sordo boato). Dopo un veloce passaggio musicale del brano di Achille Lauro C’est la vie, eccola rivolgersi direttamente al pubblico e raccontarci di essere stata al mercato dove ha acquistato un numero spropositato di limoni; li enuclea uno ad uno in un paradossale e ossessivo (persino comico) elenco numerico portando la voce ad una sua “accessibilità” intima con chi guarda. Nello spazio si espande un rumore basico, appena percepito, chissà la puntina di un disco che gira a vuoto e altre interferenze dall’esterno, voci di passaggio, una fugace eco da un brano di Alanis Morissette (ancora eco che si ripercuotono e si rincorrono in questo lavoro friabile, commovente), fanfare in lontananza, un groviglio di vite catturate e fermate che funzionano da cassa di risonanza a un quadro a sfondamento prospettico qual è Gli Anni. Sul lato sinistro, un piccolo ed essenziale tavolino fa da contraltare ai suoi movimenti levigati, appena accennati, porta con sé uno zaino dal quale trae cuffie auricolari, dallo stesso tavolino un telefono “di una volta” e a seguire dei piccoli cavalletti numerici utilizzati come per evidenziare indizi, tracce emozionali (lo spazio sarà poi disseminato di tracce). Incessante prosegue l’elencazione numerica dei limoni acquistati. Da uno smartphone la performer lascia andare la canzone Eternità interpretata da Ornella Vanoni, ripreso più avanti dall’amplificazione, aggiungendo elementi di “avvicinamento” con precise datazioni sparigliando sulla pagina bianca materiali; la scena diviene così una cartografia, un dedalo di elementi di uno scavo nell’archeologia politica e sociale degli ultimi trent’anni e più della storia italiana.

Foto di Michelle Davis

Dallo zaino estrae la riproduzione di un piccolo schnauzer che diventa a sua volta un altro indizio e lo è anche il Rimmel di Francesco De Gregori,  così come dal taschino della camicia della performer la tessera di iscrizione al Partito Comunista Italiano di suo padre, brani ripresi da trasmissioni televisive entrano come una portaerei di suoni instaurando un ordine ancora una volta pronto a spostarsi nella percezione di uno spazio che si sta vivendo, “rammemorando”; e ancora incursioni da scene private e fragorose e festanti esplosioni, video con squarci di vita familiare (l’epopea del Grande Real, la serie televisiva Happy Days), Varese, gli spari, il giardino che cambierà di segno all’improvviso: i suoni quanto le immagini evocate creano un ambiente analogo a quello dello spettatore, siamo lì a ricordare o, per la prima volta, a conoscere fatti luttuosi riguardanti la famiglia della performer.

Foto di Michelle Davis

La struttura del lavoro, per questo, dove la parola parlata diventa segno ineludibile quanto la grafia dei passaggi coreografici, va a definire quella spazialità esistenziale già avanzata da Maurice Merleau-Ponty e chiosata nella definizione di spazio antropologico da de Certeau. Si serve delle singole parti certo, frammenti di una biografia, in particolare però ricompone i pezzi di quelle storie non come un romanzo ma come uno scavo a cielo aperto che nutre l’intelaiatura di un racconto fatto di racconti piuttosto, tanti suffissi che puntellano la tangibilità del corpo della Ciappina che si dimostra, come se ce ne fosse stato bisogno, una delle più straordinarie performer nel nostro Paese. Sembra confidarci: «Io in questo spettacolo avrei voluto solo cantare, gli arti inferiori e gli arti superiori si organizzano per raccogliere solo l’indispensabile», eppure le sovrapposizioni di piani linguistici non sbilanciano mai Gli Anni ma anzi ne fortificano la struttura, ch’è letteraria e percettiva al contempo, aperta, modulare e apparentemente fatta di oggetti raccolti e tenuti assieme con attenzione alla cesellatura, alla precisione scritturale. Fa sorridere pensare all’idea di “indispensabile” espressa in scena dalla performer, evidentemente (e felicemente) nel suo “archivio” di valori il discorso sociale dell’azione artistica si configura dentro una finzione che non lambisce la rappresentazione ma tiene conto, invece, di un tempo designato come imprevedibile. D’Agostin la “dirige”, muove un’orchestra di utensileria complessa, a suo modo, trasfondendo in scena quel sapere ch’è del suo corpo e conoscenze, imbastisce un lavoro “tra sé” e l’altro (in questo caso la Ciappina), perdendo frammenti e acquistandone altri, con grande capacità di mettersi in ascolto, in tensione, tra Marco e Marta: «Ogni termine resta indipendente dall’altro per conoscersi e non può ripiegarsi su quella che sarebbe la propria identità» (1). Alla fine, lei si presenta con quel «mi chiamo Marta Ciappina» , chiedendo al pubblico di dedicarle una canzone, e a quel punto parte una playlist che accompagna la fine, mentre alcune immagini la ritraggono bambina nella sua conta dei limoni. Spettacolo superbo.

Note
1) François Jullien, L’identità culturale non esiste, Einaudi, Torino, 2018, p. 33. 

Foto di Michelle Davis

 

Gli Anni

di Marco D’Agostin
con Marta Ciappina
suono LSKA
luci Paolo Tizianel
conversazioni Lisa Ferlazzo Natoli, Paolo Ruffini, Claudio Cirri
costume Lucia Gallone
costruzione elementi scenici Piccolo Teatro di Milano- Teatro d’Europa
promozione, cura Damien Modolo
organizzazione Eleonora Cavallo
amministrazione Federica Giuliano
produzione VAN
coproduzione Centro Nazionale di Produzione della Danza Virgilio Sieni e Fondazione CR Firenze, Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa, Emilia-Romagna Teatro ERT / Teatro Nazionale, Festival Aperto – Fondazione I Teatri, Tanzhaus nrw Düsseldorf, Snaporazverein,
sostegni L’arboreto – Teatro Dimora, La Corte Ospitale Centro di Residenza Emilia-Romagna, CSC/OperaEstate Festival Veneto con il supporto di Istituto Italiano di Cultura di Colonia/MiC-Direzione Generale Spettacolo e Tanzhaus nrw Düsseldorf, nell’ambito di NID international residencies programme.

Teatro Arena del Sole, Bologna, 14 e 15 ottobre 2022.

In tournée. Per le prossime date si veda il sito:  https://www.marcodagostin.it/works/gli-anni/