“La Tempesta” e “Ghiaccio”: nella mente del mago e del criminale di Katia Ippaso

Foto di Alessandro Serra

A Torino sono nati due spettacoli che, nonostante alcune debolezze interpretative, delimitano due precise tendenze estetiche nell’ambito della scena contemporanea. Parliamo de La Tempesta di Shakespeare firmata da Alessandro Serra e di Ghiaccio di Bryony Lavery con la regia di Filippo Dini, che recita accanto a Lucia Mascino e Mariangela Granelli. Prodotte dallo Stabile di Torino-Teatro Nazionale, le due opere sono state premiate fino a questo momento sia dalla critica che dal pubblico, rispondendo alle diverse e legittime esigenze di cui un teatro pubblico deve sempre dar conto: il classico e il contemporaneo, il gesto visionario e la drammaturgia che disvela ambiguità e devianze umane.
Alessandro Serra è un artigiano raffinato del teatro. La sua compagnia Teatropersona esiste dal 1999, ma è solo con Macbettu, nel 2017, che Serra acquista la notorietà. Dopo aver allestito Il giardino dei ciliegi di Čechov, osservato dal punto di vista della “stanza dei bambini”, il regista torna a Shakespeare. In modo temerario, sceglie La tempesta, l’opera-testamento del maggiore scrittore teatrale di lingua inglese. Serra afferma di essere stato sedotto dalla questione del potere che in quest’ultima opera si presenta come disegno fratricida. La lotta tribale tra fratelli attraversa tutta l’opera shakespeariana, ma non è l’elemento specifico de La tempesta. Infatti, non è questa la piega che prende lo spettacolo. Se conflitto c’è, è tra ciò che il testo dice, come lo si dice e quello che vediamo. Perché, cos’è che vediamo? Un’opera di magia. Fin dal primo quadro, Alessandro Serra riesce ad avvolgere attori e spettatori in una spirale fantastica che si avvale di elementi di scena sottratti al loro uso abituale e restituiti per la platea nelle loro allucinatorie deformità. È, essenzialmente, attorno ai confini senza bordo di un gigantesco sipario – di volta in volta, vela, isola, vestito, nascondiglio, terra, velario – che si muove la pièce, assecondando l’opera del mago Prospero (Marco Sgrosso).

Foto di Alessandro Serra

Nel suo sfrangiato perimetro vengono calamitati oggetti e corpi di questa scena materica che, come avviene sempre nelle opere di Teatropersona, colpisce per la sua forza sinfonica. Alessandro Serra è anche musicista e scenografo ed è difficile trovare così tanti talenti concentrati in un unico artista. Ma anche lui ha un tallone d’Achille: la direzione d’attore. Perché non basta mettere a disposizione i corpi dei suoi attori e soffiare addosso a loro una tempesta di suoni e disegni tellurici per portarli a un livello di interpretazione allineato con il resto. Ci spieghiamo meglio. Lo spettacolo respira di un livello metafisico che si nutre della materia povera. Ricordiamo che tra i primi spettacoli di Alessandro Serra come Teatropersona appare il Trattato dei manichini ispirato a Bruno Schulz, ed è difficile intrattenere una conversazione con il regista senza che, a un certo punto del discorso, non affiori il suo amato Kantor. A questo proposito, Editoria & Spettacolo ha da poco dato alle stampe un’opera splendida, la seconda parte degli Scritti di Tadeusz Kantor, che contiene, tra gli altri preziosi materiali, il copione de La classe morta (il suo spettacolo-culto) con le note di regie e i vari manifesti poetici del grande artista polacco. Già dalle prime pagine, si incontra il senso più autentico di quello che Kantor denominava «il vecchio rottame, l’oggetto povero, che suscita compassione».

Una metodica (prima ancora che poetica) che Alessandro Serra ha fatto sua, mettendosi ogni volta alla ricerca di quel materiale povero, consumato, che meglio di altri può disporsi sul palcoscenico con il suo carico fantasmatico. Ma Kantor non ha mai messo in scena un testo di Shakespeare. Perché non l’ha fatto? Non certo perché non ne sarebbe stato capace. Ma perché si dichiarava contrario al dramma: «È un genere letterario obsoleto che impedisce la piena autonomia del teatro» scriveva nelle note di regia de La classe morta. Aveva i suoi drammaturghi preferiti (Maeterlinck, Wyspianski, Ibsen), ma per la sua compagnia del Cricot 2 aveva scelto un unico autore: Stanislaw Ignacy Witkiewicz. «Questo è il gran teatro dell’immaginazione. Non ha bisogno della messa in scena» concludeva Kantor. «È per questo che noi non recitiamo Witkiewicz, ma giochiamo con Witkiewicz».
Invece, Alessandro Serra ha cercato di fare recitare Shakespeare ai suoi attori. Se si fosse limitato a “giocare” con Shakespeare, il risultato recitativo sarebbe stato meno stridente. E se l’immagine del palcoscenico-giardino zen, fatto con tavole di legno volutamente «tarlate, mangiate, stagionate e consumate», riesce a parlare ai nostri sensi, non riusciamo ad abbracciare allo stesso modo il fatto che gli attori, per stessa ammissione del loro regista, «cigolino con grazia e anarchia». Quell’anarchia non si fa sempre portatrice di grazia. Il più delle volte è soltanto disorganica. Il discorso è semplice: come parlanti della stessa lingua (il testo è recitato in italiano), noi spettatori ci disponiamo a seguire il senso logico della parola. In più, in questo caso, abbiamo a che fare con un testo che è sedimentato nel nostro immaginario. Difficile che lo si ascolti per la prima volta. Diversa disposizione d’animo si avrebbe nei confronti di un testo straniero oppure di un’opera la cui forza sta nel suo valore fonetico (come era appunto, il caso di Macbettu, che usava la lingua sarda, quindi ai più sconosciuta). In quel caso, oggetti, tessuti, corpi, scenografie, fonemi, andavano a comporre tutti insieme una partitura plurisensoriale in grado di agire a livello inconscio, con una forza primigenia, arcaica. Che è poi l’intenzione pura di Alessandro Serra, un artista assolutamente sincero nel suo modo di approcciarsi al teatro e alle sue tavole.

Foto di Luigi De Palma

Il secondo spettacolo visto a Torino (al Teatro Gobetti), si muove in tutt’altro universo, attraverso un processo esistenziale che allaccia palcoscenico e platea. Scritto da una pluripremiata drammaturga inglese, messo in scena da Filippo Dini, uno dei maggiori talenti attoriali, Ghiaccio (Frozen in lingua originale) è indubbiamente uno spettacolo carico di tensione, un Kammerspiel stringente e insolito che si interroga sul male e sul perdono. Con The Spank, il suo precedente spettacolo (anch’esso prodotto dallo Stabile di Torino), Filippo Dini aveva dimostrato una compostezza nel disegno e un rigore nella partitura recitativa da riuscire a far passare ogni parola del bellissimo testo di Hanif Kureishi. Stavolta, il regista e attore genovese si trova alle prese con un testo architettonicamente più complesso, che più spesso disallinea, invece di associare, i tre protagonisti della pièce: il serial killer Ralph (interpretato dallo stesso Dini), Agnetha, la scienziata che studia il funzionamento della mente criminale (Lucia Mascino) e Nancy (Mariangela Granelli), la madre di Rhona, una delle bambine rapite e uccise dall’uomo. Come aveva già fatto con Misery, adattamento dal celebre thriller di Stephen King (che aveva interpretato con Arianna Scommegna), Dini ha immaginato un unico ambiente polisemico. In questo caso, ci troviamo nella mente dell’assassino. La scenografia, che sembra creare una ragnatela-capanno fatta di vetri rotti e materiali consunti, riesce a ad accogliere i vari movimenti dei personaggi e le diverse dislocazioni temporali. Per quel che riguarda il testo, Bryony Lavery ha scritto Frozen nel 1998 ispirandosi, come ci racconta la traduttrice Monica Capuani, ad alcuni fatti di cronaca nera avvenuti in Gran Bretagna negli anni Sessanta. L’opera ha avuto un successo immediato, sia in patria che negli Stati Uniti, tanto da farla entrare nella lista dei migliori 40 testi teatrali mai scritti (secondo il quotidiano “The Independent”).
Attori e spettatori camminano su una lastra di ghiaccio, là dove si muovono i pensieri, e i sentimenti, che non si possono dire. Lavery ha avuto il coraggio di situarsi in una zona impervia, scivolosa, lontana anni luce dal tono retorico, commiserevole o giustizialista con cui mediamente si affrontano i casi di pedofilia e omicidio dei minori.

Foto di Luigi De Palma

Quello di cui si parla in scena è il tabù dei tabù. Ma cosa fa Lavery? Apre le maglie della scena (mentale, spaziale), offrendo allo spettatore la possibilità di entrare nelle tre stanze: la stanza dell’assassino, la stanza della madre, la stanza della criminologa che, con i suoi risultati scientifici, vorrebbe dimostrare la differenza tra chi fa il male sapendo di fare il male e chi invece lo compie perché dominato da una insufficienza neurologica e dagli esiti nefasti di abusi a sua volta subiti nell’infanzia. Non c’è, insomma, in Ghiaccio, né assoluzione né condanna. Si insinua tra le pieghe dei dialoghi e dei monologhi un tema cruciale, quello del perdono, che la drammaturga inglese sviluppa con realismo e anche con un pizzico di follia. Quindi tutto andrebbe magnificamente. Ma un orecchio allenato alle impercettibili variazioni di quella scienza esatta chiamata recitazione non può non notare certe forzature, che si manifestano soprattutto nella sfera di Nancy. Le scene di Mariangela Granelli nei panni della madre, che dovrebbero essere le più commoventi, risultano a tratti troppo recitate. Lucia Mascino dà credibilità al proprio personaggio. Quanto a Dini, la sua ricerca mimetica lo conduce ad assumere anche fisicamente un’andatura pietosa, disperata. Oggettivamente, era difficile per lui superare la prova altissima che aveva dato con il personaggio di Vargas in The Spank. Detto questo, ancora una volta, ha dimostrato serietà d’indagine e profonda empatia nei confronti delle sue creature. «La commistione di queste tre figure, la loro sofferenza, la loro analisi, la loro solitudine, ci permetteranno forse di rinascere alla vita adulta» scrive nelle note di regia. «Ci permetteranno di riconoscerci di nuovo tra esseri umani che tentano, costantemente, quotidianamente, di colmare, riconoscendosi come simili, il vuoto della nostra esistenza». 

La tempesta

di William Shakespeare
regia, scenografia e luci Alessandro Serra
con Fabio Barone, Andrea Castellano, Vincenzo Del Prete, Massimiliano Donato, Paolo Madonna, Jared McNeill, Chiara Michelini, Maria Irene Minelli, Valerio Pietrovita, Massimiliano Poli, Marco Sgrosso, Bruno Stori
collaborazione alle luci Stefano Bardelli
collaborazione ai suoni Alessandro Saviozzi
collaborazione ai costumi Francesca Novati
maschere realizzate da Tiziano Fario.
Coproduzione del Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale / Teatro di Roma – Teatro Nazionale / ERT – Teatro Nazionale / Sardegna Teatro / Festival d’Avignon / MA scène nationale – Pays de Montbéliard in collaborazione con Fondazione I Teatri Reggio Emilia / Compagnia Teatropersona.

Fonderie Limoni di Moncalieri, dal 15 marzo al 3 aprile 2022.
Prossima data: Teatro Argentina, Roma, dal 28 aprile al 15 maggio 2022.

Ghiaccio 

di Bryony Lavery
regia Filippo Dini
con Filippo Dini, Mariangela Granelli, Lucia Mascino.
Produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale.

Teatro Gobetti, Torino, dal 22 marzo al 10 aprile 2022.

Tadeusz Kantor, Scritti II (1975-1984), a cura di Silvia Parlagreco. Traduzione dal polacco di Luigi Marinelli e Francesco Groggia, Editoria & Spettacolo, Spoleto (PG), 2021, pp. 478, euro 30,00.