Il tempo saturo della Storia nella scena del Sotterraneo di Paolo Ruffini

Foto di Giulia Di Vitantonio

È ancora uno spazio scenico in divenire, sembra farsi nel mentre accade, mentre prendono parola i performer, anzi la orchestrano (la danzano), uno spazio “esposto” quello de L’Angelo della Storia dei fiorentini Sotterraneo, lavoro giunto al Teatro India di Roma con una lunga tournée dietro l’angolo. Spazio apparentemente neutro, di primo acchito, che va definendosi nelle repentine “inquadrature” e azioni, decisamente dinamiche e coreografiche, lì a organizzare e a disfare gli elementi di cui si servono in una cornice, nella tradizione d’autore che li contraddistingue, di una messa in esposizione di sé e del loro portato teorico che si fa drammaturgia. Il testo detto, allora, quella parola protesa verso lo spettatore è portatrice di segni che si assommano frantumandosi subito dopo in un puzzle di immagini evocate come in una tessitura alla Aby Warburg; parola mai imbonitrice in quel loro modo tra prossimità e nocumento, tra docufiction e rappresentazione, una parola pronta a imbastire la complessa e stratificata dissezione di argomenti per riportarci all’attenzione di un nostro tempo prossimo in scadenza, più volte rievocato, più volte rivelato, un tempo definitivo di cui La fine della storia messianicamente paventata da Francis Fukuyama nel 1989 prometteva un ripensamento dello sviluppo storico nella forma della democrazia liberale, quale unico sfiatatoio nelle organizzazioni sociali del capitalismo. Peccato, però, che la centratura eurocentrica e profondamente occidentale di cui si fece portatore Fukuyama non aveva previsto le impennate della Storia stessa, le sue improvvise riprese nella costante archiviazione di macerie che produce. E di cui siamo spettatori attoniti di nuovo.

Foto di Giulia Di Vitantonio

Sul fondale in alto un grande display manda a ciclo continuo una serie di date, simbolicamente tarate sugli avvenimenti presi in considerazione quali detonatori di un fraintendimento di senso che fissa una geografia possibile e dove il non detto e la verità relativamente alla Storia “organizzano” una linea di demarcazione opaca e personale del suo racconto, quel racconto fatto di biografie e scossoni epocali e che il pensiero estetico di Walter Benjamin ha delegato a suo tempo all’opera d’arte: è solo un’apparenza mistificante? La sua totalità di significato, d’altronde, si realizza nella frammentarietà dell’esercizio artistico, ragion per cui polverizzato dal tempo. E in questa accelerazione e ripensamento del tempo storico, frammentario e mappato come un “atlante” percettivo (nell’intuizione di Warburg, appunto), nel lavoro di Sotterraneo L’Angelo della Storia si avvicendano gli albori dei sapiens nella versione ricordata da Yuval Noah Harari, la spasmodica attesa della nascita di re Edward II d’Inghilterra (emblema non secondario nella cultura novecentesca, vedasi la versione teatrale di Christopher Marlowe più volte adattata nell’ambito della “ricerca” e quella cinematografica di Derek Jarman), il gatto erede di un patrimonio e il combattente giapponese Shōichi Yokoi rimasto nella giungla per ventotto anni, senza sapere che la guerra fosse finita, a presidiare una postazione inutile. Opzioni, dettagli della Storia, come lo sono le riunioni clandestine dei partigiani nell’appartamento di Carla Capponi nascoste dal suono del pianoforte e lo swing come refrain di un ultimo festoso e paradossale fotogramma prima dell’abisso di ghiaccio del Titanic che cola a picco (un immaginario più cinematografico che reale, ovviamente), oppure quanto l’auto-rappresentazione degli umani sulle pareti delle caverne o la decisione di non schiacciare quel bottone del soldato sovietico Petrov, salvando così l’umanità da una catastrofe atomica. Sono soltanto opzioni, si diceva, nell’opacità della Storia, informazioni temporanee che il gruppo “rilascia” allo spettatore in un crash della memoria, soggettiva e collettiva. Poco dopo l’inizio dello spettacolo ci viene chiesto di impostare il timer del nostro cellulare a cinquantatré minuti precisi, ovvero poco prima della fine; segniamo così una ulteriore nostra, personale narrazione di un tempo istantaneo, fermandone la durata, l’ossimoro, molto benjaminiano, del tratteggiare i dettagli e destreggiarsi in essi che definiscono la Storia quale ricognizione del passato nel leggere il presente. Scrive Benjamin: «C’è un quadro di Klee che s’intitola Angelus Novus. Vi si trova un angelo che sembra in atto di allontanarsi da qualcosa su cui fissa lo sguardo. Ha gli occhi spalancati, la bocca aperta, le ali distese.

Foto di Giulia Di Vitantonio

L’angelo della storia deve avere questo aspetto. Ha il viso rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui al cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta» (1). L’angelo effimero di Paul Klee ha una rimembranza degli angeli della tradizione talmudica, quella trasparenza profondamente ebraica che Benjamin coltivava con l’amico Gershom Scholem, in una definizione apertamente dialettica con la propria identità, con alle spalle e sulle spalle una memoria ineludibile, che marca un modo di stare al mondo, e lo sguardo proteso, uno sguardo verso l’altrove e dov’è importante fermare l’istante che si sta attraversando. L’Angelo della Storia è Benjamin, il suo suicidio al confine tra Francia e Spagna nella fuga dai nazisti, ancora un frammento di cui si è a conoscenza, un documento segnalato dal display. Rimane una grande balena spiaggiata sul fondo, un pachiderma gonfiabile lì come un qualsiasi detrito di questo tempo dilapidato, un residuo abbandonato in scena o forse quel Titanic che non può affondare (Francesco De Gregori docet) o lo stesso Benjamin, corpo ingombrante, sproporzionatamente ingombrante. La scrittura è splendidamente convulsa, seziona con fulminea agilità andate e ritorni temporali facendo collimare tutto e i performer hanno una grande capacità di tenere la barra nell’architettura a scomparti che fa vivere microfoni, un ventilatore come oggetto “trascendente” e uno spostamento nel “ballo” e movimenti non dichiarati ma esperiti in quanto altri felici dispositivi scenici.

Nota
1) Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino, 1961, p. 80.            

L’Angelo della Storia

concept e regia Sotterraneo
scrittura Daniele Villa
in scena Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Lorenza Guerrini, Daniele Pennati, Giulio Santolini
luci Marco Santambrogio
costumi Ettore Lombardi
sound designer Simone Arganini
responsabile produzione Eleonora Cavallo
responsabile amministrative Federica Giuliano
promozione internazionale Laura Artoni.

Produzione Sotterraneo
coproduzione Marche Teatro, Associazione Teatrale Pistoiese, CSS Teatro stabile di innovazione del FVG, Teatro Nacional D. Maria II
contributo Centrale Fies, La Corte Ospitale, Armunia
col supporto di Mic, Regione Toscana, Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze
residenze artistiche Centrale Fies_art work space, La Corte Ospitale, Dialoghi – Residenze delle arti performative a Villa Manin, Armunia, Elsinor/Teatro Cantiere Florida, Associazione Teatrale Pistoiese.

Teatro India, Roma, dal 3 al 6 novembre 2022.
In tournée.