Altri percorsi di danza Incontro con Monica Francia di Paolo Ruffini

Foto di Giampiero Corelli

Monica Francia danzatrice, autrice, performer, didatta ma anche operatrice culturale nel senso più ampio del termine, guardando oltre l’orizzonte della propria esperienza nel sostenere giovani generazioni di coreografi e/o danzatori. Le abbiamo chiesto di autopresentarsi:

Monica Francia:

Faccio l’Artista. Fin da giovanissima il mio autodefinirmi Artista è stato uno stratagemma che mi ha permesso di vivere la delicata fase della formazione e della scelta del percorso lavorativo, senza dover seguire percorsi già prestabiliti e tappe predeterminate. Sin da subito mi sono accorta che il mio corpo di artista/donna è anche un corpo “politico” che ha un compito preciso. L’indizio rilevante che mi ha fatto capire come svolgere questo compito è stata la scelta del corpo come strumento e della danza come linguaggio. Quindi la domanda è sempre stata: cos’è Danza? Mi presento: faccio l’Autore intendendo questa parola nel suo significato etimologico: aumentatore/accrescitore della realtà, che inventa cose nuove, che è l’artefice della creazione. Desidero qualcosa che non è tra le possibili scelte che vengono concesse, voglio di più, voglio trovare sempre nuovi modi di considerare la Danza e il prodotto coreografico. Creo usando una scrittura fisica molto personale; per esigenza sentita e non per esigenze di mercato. Fin dagli inizi del mio solitario percorso di ricerca/autoformazione, indagando ogni possibile conseguenza energetica del tocco, del contatto tra corpi e del vivere e guardare un evento performativo, ho ideato un linguaggio/un vocabolario/un metodo/una pratica corporea per comunicare con le persone che attiravo nel mio “mondo creativo”, nella società che volevo far esistere. Per praticare questa Danza ogni corpo è sempre adatto. CorpoGiochi è un metodo che negozia continuamente la poetica del mio percorso di ricerca, con l’esigenza di superare gli ostacoli culturali che impediscono alle persone, indipendentemente dall’età e dalle diverse abilità e conoscenze, di avvicinarsi ad esperienze nelle quali lo strumento principale della conoscenza di sé, dell’agire e dell’interagire con gli altri è il corpo.

Hai citato in questa autopresentazione “sentimentale” e “politica” l’esperienza di CorpoGiochi.
Di cosa stiamo parlando? E questa esperienza quanto della tua storia di coreografa e danzatrice trattiene? 

CorpoGiochi è un esperimento strutturato di trasmissione della Danza che parte da una concezione politica del corpo e del suo potere di trasformazione e cambiamento. Il mondo della scuola dell’obbligo mi è sembrato il luogo più adatto dove mettere alla prova la mia ricerca autoriale e testare il mio ambizioso progetto di incidere in modo pratico nel tessuto sociale dove questa viene applicata. È il luogo più semplice dove “attirare” persone, che si trovano obbligate a partecipare ad un percorso educativo strutturato che non prevede, in nessuna delle sue fasi, l’esperienza corporea creativa. Naturalmente il termine “danza” nel contesto scolastico è un ostacolo, visto il timore delle persone di non essere adeguate ad una pratica il cui fuoco centrale è l’utilizzo del corpo in quanto espressivo e non competitivo. Quindi per realizzarlo viene presentato come CorpoGiochi, un progetto di educazione al movimento, fondamentale non solo per gestire meglio i gruppi, ma anche per creare la grammatica del rispetto reciproco, per costruire relazioni tra persone che vivono insieme in uno spazio chiuso, per cinque/otto ore, tutti i giorni. Sono le persone – che fanno le/gli insegnanti – che richiedono l’attivazione dell’esperienza CorpoGiochi e lo “offrono” ai loro allievi e alle loro allieve (persone in crescita a loro affidati) durante un momento della giornata scolastica che lo valorizza come materia obbligatoria, come strumento complementare a quelli che la scuola già propone utilizzandolo come una trama sulla quale intrecciare tutte le attività previste per l’intero anno scolastico. Ho selezionato due frasi che considero significative, tratte dalle moltissime restituzioni dei protagonisti che negli ultimi diciannove anni hanno vissuto l’esperienza da me ideata. Una ragazza: «(..) CorpoGiochi è una società che insegna ad avere più coraggio in sé stessi». Una maestra: «(…) CorpoGiochi rappresenta sicuramente una delle attività più originali e potenti che sono state “rappresentate” nel mondo della scuola. L’idea di unire corpo, mente e affettività e poterli raccordare in un percorso didattico con molteplici agganci disciplinari è il cuore del progetto e il suo punto di forza». Nello scorso anno scolastico abbiamo vissuto un momento di grande trasformazione personale e collettiva che ha portato un cambiamento impensabile di prassi e comportamenti ormai consolidati. Alla luce di protocolli basati sulla distanza e sulla mancanza di contatto, ci è voluto molto coraggio anche solo per immaginare di continuare a realizzare, in presenza, le attività proposte dal metodo originale, provando a capirne nuovamente il valore e la funzione, salvando gli obiettivi finali, senza interrompere lo sviluppo di un progetto la cui efficacia è comprovata da anni. Ho accettato l’opportunità offerta dall’isolamento e mi sono immersa completamente nella trasformazione alchemica del metodo per inserirlo, con flessibilità e creatività, nel contesto regolamentato delle classi scolastiche. Questa esperienza è una parte importante della mia storia di artista/coreografa/danzautrice, che è costituita da diversi elementi interconnessi e interagenti tra loro e con l’ambiente esterno, ma si evolve (si sviluppa) come un tutto strettamente coordinato. Intendo ogni incontro di laboratorio, ogni evento finale, come “un’opera d’autore” che ha lo scopo di creare insieme ai partecipanti un’esperienza unica e irripetibile. Un momento in cui ogni individuo vive un’avventura performativa con un gruppo eterogeneo, rimanendo centrato nel proprio spazio personale, lavorando in collaborazione con tutti gli altri, facendosi trasportare in uno spazio protetto e sicuro, dove l’incontro con le pratiche della danza di ricerca non è vissuto come un ostacolo. CorpoGiochi viene rappresentato/replicato/distribuito da quasi vent’anni. Non sento nessuna differenza tra questa e altre azioni che ho ideato dall’inizio del mio percorso artistico, tutte hanno lo stesso valore ed impegno. Semplicemente interventi come questo non sono considerati al pari della produzione di Opere coreografiche che entrano nel mercato di serie A della cosiddetta “azienda danza”. Ma questa è una valutazione che viene fatta dalle istituzioni, dai critici, da chi decide il valore delle proposte e non mi trova d’accordo. Il mio corpo è ancora esigente e ribelle e lo uso come uno strumento per indagare la realtà e le dinamiche relazionali, per praticare quotidianamente una “resistenza” nel difendere e diffondere una concezione del mondo altra, continuando a cercare uno spazio di indagine sulle strategie per definire, comprendere e valorizzare la danza come strumento non solo di ricerca artistica, politica e sociale ma anche personale. Continuo a definirmi una persona ribelle in crescita. «Non è facile essere ribelli sempre, ogni momento, in ogni atto della nostra vita. La ribellione consiste nel far aderire le tue idee ad ogni minimo gesto della tua vita. Non solo nel cervello, ma nelle braccia, nel corpo, nel modo di spostare una sedia, nel modo di parlare a chi ti guarda. Se le tue convinzioni e idee non diventano il tuo passo, il tuo tono di voce, il tuo sangue e la tua carne, sei un traditore pericoloso più dei conformisti o dei reazionari (Goliarda Sapienza)».

Foto di Alessandra Dragoni

Incontro il tuo percorso più o meno nel 1994, con lo spettacolo Fragole e Sangue, fortunato momento che vincerà il concorso bolognese Iceberg che subito dopo lo catapulterà alla Biennale Giovani Artisti (GAI) di Lisbona. A seguire sarai cooptata come danzatrice nello spettacolo Ferita di Andrea Adriatico, fino ad arrivare all’estate del 1996 in cui la tua definizione artistica passa anche attraverso la produzione del video Elogio del lento presente che coinvolge diversi giovani artisti ravennati. È la volta poi, l’anno successivo, del progetto Ritratti, assoli di danza di straordinaria efficacia percettiva che vince il premio Danza & Danza. La tua storia aveva già un corpus di memorie non indifferenti, ma questi anni, queste collaborazioni, queste intuizioni creative, a mio avviso, disegnano con evidenza il tuo pensiero nella e per la danza, marcano un territorio d’elezione. Appunto, danza come relazione, danza come espressione ribelle rispetto ai canoni dati di un’idea preconcetta della danza.

In questo momento di grande trasformazione personale e collettiva ho esaminato un archivio di documenti, lettere, testimonianze e scritti personali. Ho rivisto la mia storia accorgendomi che ho sempre seguito le mie urgenze all’interno di un percorso complicato ed è ricollegando questi frammenti di archivio che posso comprenderlo “raddrizzando le pieghe”, ossia “spiegandolo”… «esplorazioni. Il sapere avviene per esplorazioni, significa valicare continuamente i limiti conosciuti. Solo così mi è possibile l’approccio. La rigidità di un metodo, mi spaventa e non mi interessa. Non mi dà la possibilità di intervenire, ma solo di assimilare, di ripetere. Questo non significa che non ho niente da imparare, al contrario, ma che intendo manomettere ciò che mi viene trasmesso». Questa è l’inscrizione della mia poetica tratta dal pieghevole che presenta Linea Maginot, la prima compagnia che ho fondato nel 1981 insieme a Ermanna Montanari, Marcella Nonni, Marco Martinelli, Gigio Dadina, Maria Martinelli, Danilo Conti, citando solo alcuni dei ravennati che tutt’ora sono importanti tasselli della scena artistica italiana. Ho ritrovato queste parole di persone che hanno vissuto con il proprio corpo il mio lavoro, che hanno iniziato a usare il corpo con le pratiche da me proposte. Sono testimonianze in ordine sparso, restituzioni richieste come recensioni interne dell’esperienza scenica. Sono parole informate da una vicinanza, da un’intima corrispondenza con le partiture. Non sono sguardi esterni, ma sensazioni precise, di conoscenza concreta e puntuale, sguardi specifici che costituiscono una mappatura viva, disomogenea, operativa, per raccontare la storia della mia trasmissione di pratiche. E così: «Penso che tu abbia un genio creativo indiscutibile e che i tuoi spettacoli siano parte di un luogo prima o dopo del presente…». «Uno slancio vitale verso una costruzione paziente e progressiva di un qualcosa, del suo mondo nel mondo, un senso del reale e del pratico che per nature differenti spiazza e affascina e che sicuramente comunica nelle sue opere…». «Cerco con fatica di trattenere il desiderio di avere conferme, di aspettarmi da lei qualcosa che deve venire da me…». «Una grande sorgente di scoperte e ispirazione, inquietudine ed eccitazione, apprezzando l’assoluta continuità di pensiero che lega la sua esistenza privata a quella pubblica/artistica…». «Monica considera il corpo non solo come uno strumento da piegare a un determinato codice, ma come una materia viva, pulsante, imprevedibile e spaventosa. E allo stesso modo non considera i suoi interpreti semplicemente come “segni” di un suo linguaggio coreografico, ma lascia che ciascuno dia vita al proprio immaginario e al proprio modo di capire la danza…». «È come se mi avesse ridato la “licenza” di essere come sono, in profondità, un diritto di esistenza primordiale…». «Un altro particolare che mi ha colpito è che questa danza non ha sesso, e chi danza con lei impara ad essere maschile e femminile, perché Monica non cerca di riprodurre, in chiave ballabile, gli schemi che contraddistinguono quotidianamente il rapporto uomo/donna, ma semmai mira alla creazione di un essere che partecipa di entrambi gli aspetti…». «La sua danza è fuori dal mondo ed insieme estremamente comunicativa…». «Questa libertà che ti impone all’interno di stretti limiti è tua e solo tua, ed è questo il momento del percorso proprio, è qui che se riesci ad ingoiare quello che razionalmente non comprendi allora puoi non fare…». «È il luogo dove tutte le emozioni possono nascere e morire, dove capire come siamo strutturati per trovare la nostra verità. Verità che si ottiene con la consapevolezza che, per essere nutrita, ha bisogno del quotidiano…». «Tutto il lavoro di Monica va riportato nella quotidianità, nella sua essenza». Considerazioni, sguardi, atti partecipativi. E oggi per capire dove sono è stato fondamentale rileggere la presentazione di Il Profumo del Respiro, produzione 1991 (vincitore del Concorso Europeo Les Pepinieres): «L’esperienza mi insegna che non devo cercare troppo in lontananza tutto quello che sento è già stato mio o presto lo sarà. Il tempo mi aiuterà a capire questi presagi. Niente di quello che ho fatto, voluto, pensato mi porterà ad una meta diversa. Le immagini che la mia mente ha visto, gli oggetti che il mio corpo ha sorretto, le percezioni che il mio corpo ha sentito, sono dettagli che anticipano l’evento di cui sarò protagonista». Ora è tutto chiaro. L’atto performativo è sempre stato per me un luogo di trasformazione che modifica il sentire dei corpi che stanno all’interno. Uso la scena come pretesto per costruire contenitori che permettono di vivere in altri mondi. Gli spettatori possono entrare ma il lavoro non è solo per loro. Le pratiche corporee utili per arrivare alla scena allenano un linguaggio che mette i corpi in un’intimità strutturata per essere un esperimento, un mettersi alla prova e attivare una nuova percezione. Scelgo persone per cui queste pratiche sono necessarie e che vogliono immergersi nella trasformazione…
«I gesti solitari sono vissuti con la sensazione di essere guidati da una presenza non ancora reale, sono gesti che non nascono dalla mente, il corpo sceglie di abbandonarsi ad una passività cosciente per poter scoprire di doversi fidare di questo partner futuro e per sentirsi parte di un’armonia ancora sconosciuta a cui non potrà sottrarsi. Sapere quali movimenti usciranno dal mio corpo solo nel momento in cui diverranno reali. Non posso rifiutare questo stato». In questo momento di grande trasformazione personale e collettiva ho attivato un recupero di queste mie pratiche dedicate a persone che hanno scelto di dedicarsi alle arti sceniche. Scopro che funzionano e che forse sono ancora necessarie.

Dal tuo osservatorio com’è cambiato il concetto di danza contemporanea in Italia? E aggiungerei: negli anni Novanta si parlava di “Romagna felix”, è ancora valida questa significazione?

Rispondere a questa domanda è stata un’occasione importante e faticosa, un’opportunità per riflettere prima di tutto sul percorso che mi ha portato alla persona che sono oggi e poi ad osservare la situazione che stiamo vivendo. All’inizio del mio percorso di operatrice culturale nel senso più ampio del termine, guardando oltre l’orizzonte della mia personale esperienza nel sostenere giovani generazioni di coreografi e/o danzautori, ho ideato una serie di azioni realizzate per avvicinare le persone ad una concezione di danza e danzatore che rivendichi la sensibilità dei corpi e che mantenga la possibilità visionaria di un corpo scenicamente presente e non di un corpo strumentalizzato. Un artista che viene riconosciuto dalla pratica e che deve avere la possibilità di partecipare ad un grande numero di momenti performativi per capire se ha la necessità di proporre la sua visione all’esterno usando il corpo come mezzo. Un artista che esce dal recinto in cui è tutelato ed è disponibile all’incontro ravvicinato con le persone comuni anche sperimentando in contesti extra-ordinari. Ho recuperato i miei scritti di presentazione di alcune delle azioni/interventi realizzati. Dalla presentazione del Festival Lavori in Pelle 1996 – Prima edizione della Vetrina della giovane danza d’autore: Lavori in Pelle, termine coniato per il film Blade Runner, sono i replicanti, simulacri umani con corpi dalle forme perfette e dalle grandi potenzialità acrobatiche, che vengono utilizzati per vari scopi, non ultimo l’intrattenimento. La loro estrema sensibilità è tutta concentrata sulle esperienze del corpo, provano emozioni fisiche estreme e personali, e conoscono la potenza del loro apparire, delle loro forme estetiche perfette e, soprattutto, della breve durata di queste loro potenzialità. Provocatoriamente questi Lavori in Pelle somigliano in modo sconvolgente ai danzatori e la danza può, senza difficoltà, essere considerata il replicante delle arti. Come il lavoro in pelle, la danza è trattata spesso con indifferenza e superiorità, a meno che non stupisca con le sue capacità acrobatiche, con la perfezione estetica dei corpi in movimento, e con le sue potenzialità di intrattenimento e di folgorazione dello sguardo. Queste sembrano le sole armi che la danza-replicante può usare per essere apprezzata o riconosciuta. Ma i lavori in pelle sanno di avere anche un’anima, delle emozioni, dei ricordi, una lunga vita a disposizione per crescere artisticamente. Se scelgono di ricercare un linguaggio del corpo libero da obblighi di esteriorità e di perfezione tecnica, se scelgono di smettere di stupire e di intrattenere, scoprono un immaginario personale che guida le loro creazioni e la danza si trasforma in un potente linguaggio teatrale, il più legato alla parte onirica e all’inconscio. E il tempo di mostrare modi diversi di intendere la danza, è tempo di dare visibilità a un’idea di danza d’autore e di ricerca che non si può riconoscere solo nell’esteriore e nell’astratto o nell’uso di linguaggi e tecniche appresi da oltreoceano, ma che si pone il problema di scavare nel profondo per interpretare e reinventare la realtà, usando linguaggi diversi, contaminati dalla vita stessa. Dalla presentazione dell’azione Incursioni di danza d’autore – Festival Ammutinamenti 1999: spingere la danza d’autore all’incontro con il pubblico, ci ha costretti a misurarci con spazi urbani e situazioni inedite, adattandosi a essi e modificandosi in base ai limiti e ai vincoli architettonici per seguire le esigenze di coinvolgimento del pubblico fino ad accompagnarlo nei percorsi quotidiani.

Foto di Giampiero Corelli

La danza è stata così interpretata in modo innovativo e fondamentale e ciò anche allo scopo di spingere la danza stessa a riflettere sul proprio modo di essere e di esprimersi, ma soprattutto a ripensarsi e a ripensare la propria relazione con il pubblico e il territorio. L’obiettivo è di spogliarla di ritualità superate e inutili, per avvicinarla in modo efficace all’ignaro fruitore. incuriosendolo e coinvolgendolo in una relazione fatta di attrazione fisica, prima e poi di amore. L’intento è di instaurare una nuova relazione tra danza e città, una danza d’autore, ai limiti della performance, una danza vista poco che si offre gratuitamente, che ammicca per essere riconosciuta ed apprezzata, che si prostituisce anche per sopravvivere. I corpi in strada, sul cemento, negli uffici, nelle vetrine, nelle zone di lavoro del porto, nelle sale della stazione, saltando le barriere rituali tipiche del teatro, durano appena il tempo della loro apparizione, giusto per sperimentare i limiti di questo antico linguaggio e scoprirne la contemporaneità con l’effetto ravvicinato in pieno sole. Dalla presentazione di Danza in Vetrina – Festival Ammutinamenti 2001: «l’evento consiste in performance tra teatro e danza, dietro e fuori le vetrine dei negozi, per un pubblico che voglia assaggiare un nuovo ambiente, inconsueto e anche per chi viene coinvolto sul momento e sorpreso». Gli artisti propongono brevi performance danzate o agite teatralmente lontane dal perimetro classico della scena, dall’importanza degli allestimenti scenografici preziosi, piccole e furtive immagini in mezzo alle vetrine, dentro l’uso quotidiano per aprire a un’esperienza nuova, di teatro urbano, di riflessione sull’evento spettacolare, di un vedere dal vetro che deforma e allontana, quello che accade intorno a noi, come in certe occasioni si guarda incuriositi un abito o un oggetto sorprendentemente bello o brutto e che forse compreremo, ci porteremo a casa e che resterà con noi per un po’. La performance sarà rivolta all’esterno, al passante che si soffermerà incuriosito dai corpi, dai movimenti e dalla vitalità acquisite dal luogo attraverso le coreografie, ritrovandosi inaspettatamente ad essere pubblico rapito. L’idea centrale è quella di mettere in “vendita” la danza e agire lo spazio commerciale ri-costruendo, re-inventando e ri-creando la sua funzionalità quotidiana. Dalla presentazione di Assaggi di Danza d’autore a Scuola – 2005: si cerca di far entrare in classe l’arte coreutica contemporanea e coloro che l’hanno scelta come professione. La proposta è quella di presentare una performance dal vivo, realizzata da una compagnia professionale, all’interno del calendario di un festival o di una serie di eventi di danza. Nel caso di Ravenna, gli Assaggi di Danza d’Autore nascono in seno al festival Ammutinamenti, sono della durata di 10/15 minuti e vengono proposti in orario scolastico, nella palestra della scuola, con tutti gli allievi del plesso che assistono in qualità di pubblico. Al termine, è previsto un momento di incontro e di conversazione, al fine di favorire ed incoraggiare lo scambio di osservazioni e le domande con la compagnia. Parlando principalmente delle persone che sono nel settore, nel cerchio sacro (come dice Alessandro Pontremoli) degli addetti ai lavori come critici, artisti e spettatori professionisti (come io chiamo gli operatori dell’azienda danza che si occupano di valutare l’opera del coreografo-danzautore), mi sento di poter dire che, dopo anni di progettazione di interventi mirati e di messa in rete di questi interventi, il concetto di danza in Italia si è avvicinato alle esigenze artistiche contemporanee ed è sicuramente più a contatto con la reale portata dell’arte. Un cambiamento molto interessante su cui riflettere è inoltre il percorso pratico per un giovane artista per essere riconosciuto coreografo-danzautore. Quando ho iniziato la mia ricerca coreografica, in Italia era una professione non regolamentata e permetteva di ideare strategie originali per mostrare le proprie opere e incontrare i programmatori. Ora è una qualifica professionale, come in ogni altro campo non artistico, che ti viene concessa iscrivendoti a corsi che ti forniscono periodi di studio con l’obbligo di confrontarti con docenti, critici e tutor di accompagnamento nel percorso formativo scelti dall’ente che è riconosciuto per rilasciare il diploma/attestato. Ora per i giovani artisti è più facile entrare in contatto con i “compratori” ma ciò richiede la disponibilità di attivare una tecnica da venditore e il prodotto artistico risente della mancanza di competenza di molti programmatori. Nel periodo della mia vita in cui mi sono impegnata nel trasformare la politica della danza in Italia non mi sono mai sentita parte del sistema ed ho mantenuto uno sguardo distaccato (ho lasciato i miei occhi dentro al corpo) e questo mi ha permesso di analizzare le modalità di valutazione delle opere dei giovani artisti. Cioè le caratteristiche di una struttura di potere basata sullo sguardo e ben distinta tra chi guarda e ha il potere di comprare e chi fa. Penso che si possa capire qual è oggi il concetto di danza contemporanea in Italia, da quali e da come vengono scelti i nuovi prodotti artistici da accompagnare, tutorare, a cui offrire periodi di residenza, oppure da distribuire e da portare alla visione del pubblico. Ho scritto “penso si possa capire” perché in questo momento io ho solo molte domande, forse un poco provocatorie. Che sguardo mette in campo chi decide, come distingue un prodotto valido da uno non valido? Come partecipa con il proprio corpo alla visione? Sceglie corpi che ammiccano, sceglie sull’apparenza e lascia ancora fuori i corpi che non sono dentro i canoni previsti per danzare? I corpi femminili vengono valutati allo stesso modo di quelli maschili? Una proposta con corpi di donne con cellulite viene valutata? Un corpo sovrappeso viene accettato solo se ironizza sulla sua presenza ingombrante e fuori luogo in ambito coreografico? Chi è dentro ai contesti di osservazione delle nuove proposte autoriali dove i corpi vengono esposti allo sguardo si accorge di essere osservato, di aver attivato una connessione? In momenti così destabilizzanti come quelli che stiamo vivendo, siamo ancora interessate a vedere qualcosa che sta dentro a progettualità ormai consolidate negli anni? Ai giovani artisti viene consigliato di farsi la domanda “qual è la forma di vita che vogliamo realizzare”? E “perché lo stiamo facendo”? Viene chiesto loro di interrogarsi sulla relazione con lo sguardo del pubblico, di accorgersi che mentre si espongono a questo sguardo, possono mantenersi saldi sulle proposte necessarie per questo comune terreno instabile, senza farsi influenzare da quello che chi guarda si aspetta di vedere, è abituato a vedere. Penso che siano domande fondanti anche per curatori e programmatori di danza in Italia. Credo che, in questo momento storico, chi si occupa della pratica fatta di corpi, relazioni e spazi abbia la responsabilità di ri/creare una comunità accogliente e respons/abile con modalità d’azione collaborative, per affrontare e trasformare la totale noncuranza del ruolo centrale della corporeità che viviamo quotidianamente. Rispetto alla “Romagna felix” degli anni Novanta, non credo di essere la persona adatta a cui chiedere se è ancora valida questa significazione. In quel periodo l’etichetta coniata da Antonio Calbi riguardava il teatro di ricerca e la posizione centrale che il corpo dell’attore aveva assunto all’interno della ricerca delle compagnie romagnole. Nessuna compagnia romagnola che si riconosceva nella definizione di danza di ricerca è stata fatta entrare dentro a questa etichetta. Posso però condividere con te alcune delle mie riflessioni di quel periodo che sono tuttora valide. Che tipo di corpo serviva per fare ciò? Ho fatto un po’ di ricerca tra articoli e testi. «A queste compagnie importa sempre meno la provenienza o la preparazione accademica dell’attore, di cui invece si ricerca la qualità̀ individuale, la singolarità̀, di portare il reale sulla scena…». Questi corpi, capaci di mostrare la propria personalissima materia, di improvvisare evidenziando la loro qualità̀ individuale, la loro singolarità̀, come si sono allenati? Per far emergere queste capacità ci vogliono delle pratiche corporee. Quali pratiche non ortodosse, non normate e fino a quel momento sconosciute hanno incontrato che li ha resi pronti ad offrire ai registi dei gruppi romagnoli queste grandi capacità corporee? Queste compagnie “Romagna felix”, si sono accorte che i corpi dei performer che hanno scelto per abitare i loro spettacoli si sono nutriti di pratiche da artisti e artiste della danza di ricerca a cui si sono avvicinati per la loro formazione personale? Mi piacerebbe avviare una ricerca e un dialogo futuro su questi argomenti. Come sono formati i corpi per le sperimentazioni sceniche? Come può esserci una visibilità maggiore del lavoro del performer e della rete affettiva che lo rende pronto alla scena?

Foto di Christian Contin

Per concludere, ancora oggi che le definizioni e le esperienze intorno al concetto di danza si sono espanse assistiamo, comunque, a tentativi di arroccamenti reazionari nella direzione tutta novecentesca di un pensiero retroattivo. Una tua considerazione in questo senso? 

Penso che non sia più possibile parlare di presente futuro e passato. Ora che i tempi si sono mescolati, siamo alla fine e all’inizio di tutto. Ogni sperimentazione più sorprendente è stata fatta e chiunque ricerchi ora   non   potrà   mai   fare   nulla   di   considerato   nuovo.   Uno   strumento   che   penso   e   ripenso   è   quello   della fantascienza. Immaginare futuri possibili mi trasporta nella creazione di ulteriori presenti possibili. Perché la domanda per me non è: «Cosa si può fare ora, come si può rinnovare?». Ma: «Di cosa c’è bisogno adesso?». È’ il momento di slanci utopici. «Si può dire che davvero qualunque cosa può succedere (nel futuro) senza paura di essere contraddetta da chi ci nascerà. Il futuro è un laboratorio sicuro, sterile per sperimentare le idee, un mezzo per riflettere sulla realtà, un metodo (Ursula K. Le Guin)».