“L’Inizio del buio”: fare luce sul racconto della sofferenza umana di Simona Bisconti

Foto di Karen Righi, Samuele Ercolanelli

Il Todi Festival  è un’immensa fucina a cielo aperto, un melting pot in cui è possibile vedere grandi nomi e giovani esordienti, debutti sperimentali e spettacoli consolidati, concerti, opere d’arte e contaminazioni, grazie alla doppia anima di Todi Festival, diretto da Eugenio Guarducci, e di Todi Off, diretto da Roberto Biselli. E Todi accoglie tutti, nella sua intimità di cittadina medievale in cima alla collina, pennellata da un sole dorato già settembrino, con una «malinconica serenità» direbbe Cesare Brandi. Il pubblico si raggruppa in capannelli ai bar della centrale Piazza del Popolo, in cui troneggia l’opera di Arnaldo Pomodoro, al quale è stato affidato quest’anno il compito di creare l’immagine dell’evento e al quale la città ha dedicato l’omaggio di una mostra temporanea. Ci si perde tra le stradine in salita e discesa dove si affacciano i portoni aperti per il Todi open doors, che mette in mostra opere d’arte contemporanea. “Si inciampa” nei progetti artistici più sperimentali e innovativi del Todi Off. Si ascoltano concerti e i più appassionati partecipano all’incontro con l’autore, ai laboratori di teatro e al laboratorio di critica. La prima sera del Festival, lo spettacolo inaugurale è L’Inizio del buio, che debutta con la regia di Peppino Mazzotta. Il testo è l’adattamento teatrale del libro di Walter Veltroni, che mette insieme due storie tragiche e intense della memoria collettiva italiana, aggiungendo ricordi della sua autobiografia «come in un montaggio alternato».

Foto di Karen Righi, Samuele Ercolanelli

Lo spettacolo è centrato interamente sul testo: due attori (Sara Valerio e Giancarlo Fares) vestiti in camicia e pantaloni neutri, si dividono (letteralmente a metà) il palcoscenico vuoto: lei sul lato sinistro, lui sul lato destro, spostandosi dall’up stage al down stage nella narrazione di due storie italiane: lei quella di Alfredino Rampi, caduto in un pozzo di campagna dal quale nonostante i numerosi tentativi non fu possibile riuscire a trarlo in salvo; lui quella di Roberto Peci, fratello del brigatista pentito e per questo rapito e ucciso dalle Brigate Rosse. L’intreccio si fonda sulla costruzione di frasi che vengono interrotte e riprese da una storia all’altra senza soluzione di continuità tra le parole, come se fosse un unico racconto, sebbene le due vicende siano diverse per circostanze, contesto e protagonisti. Gli attori si incontrano al centro, per appuntamenti precisi in cui interpretano insieme la voce di una coppia romana, che parla con forte accento e guarda le notizie alla tv, rappresentanza di quei ventuno milioni di italiani (trenta nei momenti drammatici) che seguirono la diretta. Due microfoni in fondo alla scena permettono di alterare la voce per dare vita alle testimonianze di alcuni dei personaggi delle storie. Gli interventi di regia sulla messa in scena sono minimalisti: un soffitto di lampadari vintage che fa da suggestione luminosa in contrapposizione al buio del titolo e un televisore arancione anni Ottanta che troneggia al centro del proscenio, davanti al quale inizia e finisce la storia: dichiarazione di intenti precisa sull’argomento trattato nello spettacolo. Le due storie apparentemente lontane condividono fatalmente la stessa data: il 10 giugno 1981. Nel sottotitolo del libro viene esplicitata la chiave di lettura della narrazione: Alfredino Rampi e Roberto Peci soli sotto l’occhio della tv. L’incidente di Alfredino fu il primo “evento televisivo” in cui le telecamere cercarono insistentemente di testimoniare il dolore per portalo nelle case degli italiani, con sessanta ore di diretta e tre canali Rai unificati, creando un vero e proprio spartiacque nella storia. Prima di allora gli eventi drammatici privati non erano mai stati mostrati in modo così esplicito e invadente e a quell’evento si collega l’inizio di una progressiva “perdita dell’innocenza” della televisione italiana. Inoltre l’impreparazione dei soccorsi italiani dell’epoca permise anche l’accesso sul luogo dell’incidente a più di diecimila persone, che sbirciarono, proposero, intralciarono, manifestando un’inquietante voglia di protagonismo sotto le telecamere che diventerà nel tempo parte integrante di queste storie di morte, su cui la televisione ha imparato a narrare senza delicatezza né decenza.

Foto di Karen Righi, Samuele Ercolanelli

La storia di Roberto Peci è un po’ diversa in rapporto alla documentazione mediatica: la telecamera che cercava insistentemente di riprendere il dolore era quella degli stessi Brigatisti, che inscenarono un processo e sollecitarono il loro ostaggio a fingere un’estrema commozione per avere maggiore risonanza e promettendo in cambio la salvezza. Ancora una volta la telecamera è un occhio freddo e cinico che ubbidisce al desiderio di protagonismo e di mercificazione. Si parla quindi di tv e nello spettacolo viene affermato più volte che l’operazione televisiva di cronaca di quel  1981 fu in realtà uno sciacallaggio emotivo, un voyeurismo cannibalesco. Non che non ci fosse una reale commozione di fronte agli eventi, ma aver posto l’oggetto sotto l’attenzione (spropositata) mediatica ha trasformato l’interesse per l’altro in un invasivo abuso legittimato dalla copertura dell’interesse. Questo viene anche dichiarato esplicitamente nel testo. Ma poi ascoltando bene la narrazione di queste due storie, ci si accorge che si tratta, ancora una volta, di una narrazione di fatti molto specifici, molto dettagliati. Sono tante le informazioni che vengono date al pubblico, alcune già conosciute dai più e reperibili on line. Non c’è metafora, tutto è detto, tutto è dichiarato. L’aspetto cronachistico del testo sembra volere in qualche modo fare eco alle modalità del TG dell’epoca. Il racconto è sostenuto a voce alta, è una cavalcata continua, con brevi fermate di pausa, per percorrere in un’ora e mezza la lunghezza di due storie piene di informazioni, scenari, personaggi. La performance attoriale sembra ricalcare quanto è stato detto per il testo di Veltroni: «La costruzione del coinvolgimento emotivo da parte del lettore si tenta di realizzarla a partire da un tono enfatico sempre in salire: un continuo innalzamento del carico di senso delle parole fino a farle andare in overload. » (Christian Raimo). Il risultato di questo “treno” narrativo è da un lato l’inevitabile investimento emotivo – le storie di per sé non possono non attivare fino all’ultima fibra di sensibilità– dall’altro la produzione di un cortocircuito che ci fa riflettere sul fatto che se l’intento è accusare il meccanismo televisivo di mercificazione e fruizione delle informazioni, lo spettacolo teatrale ripropone una replica di quelle stesse informazioni in maniera altrettanto diretta, tutta d’un fiato, indugiando proprio su quei dettagli.

Foto di Karen Righi, Samuele Ercolanelli

Nel finale, gli attori sul palcoscenico hanno ripreso la coppia romana, per tutta la durata dello spettacolo ha rappresentato quegli italiani che accendevano la tv per saperne di più, creando quella domanda di mercato sul dolore a cui la tv ha risposto. La coppia alla fine auspica, con forte accento romano, una televisione con più «pudore» e anzi la rifiuta, fino a concludere con un laconico “Spegnemo”, a cui poi, a luci accese, segue uno stornello romano. Le storie di Alfredino e di Roberto smuovono vecchie ferite, che si ricollegano a precisi passaggi storico-politici del nostro Paese e marcano una testimonianza netta dei costumi sociali italiani. Lo spettacolo ha il potenziale per sviluppare una riflessione più approfondita, una messa in luce più evidente, una vibrazione più permanente di quella ricevuta dalla notizia del telegiornale, che passa dallo sciacallaggio alla consapevolezza. Quella televisione arancione al centro del proscenio, guardata amorevolmente “come un figlio che non fa dormire la notte”, dice il dolore, spolpa le storie fino all’osso vivo. Non lascia quel margine di trasformazione estetica, che il teatro invece può fare, restituendo così bellezza, valore e consolazione all’esperienza umana.  

L’Inizio del buio

di Walter Veltroni
adattamento teatrale Sara Valerio
regia Peppino Mazzotta
con Giancarlo Fares, Sara Valerio
light designer Francesco Barbera
musiche inedite e sonorizzazioni Massimo Cordovani
aiuto regia Alessandro Greco
foto di Karen Righi e Samuele Ercolanelli
produzione Teatro E Società, Todi Festival.

Todi Festival Todi, 28 agosto 2021.