Con il Teatro delle Bambole si ritrova la magia dell’ascolto Intervista a Andrea Cramarossa di Patrizia Vitrugno

Andrea Cramarossa. Foto di Carlo Salvatori.

Andrea Cramarossa oltre a essere attore e regista è il fondatore e ideatore del Teatro delle Bambole che nasce a Bari nel 2003 “con la provocazione (in) formale di dare spazio alle voci dell’Arte attraverso lo studio e lo sviluppo di un Nuovo Metodo di Approccio all’Arte Drammatica”. Un metodo teorizzato e praticato da Cramarossa che, confessa, «mi ha cambiato la vita». Tra le varie iniziative messe in campo in questo tempo di chiusura dei teatri e in attesa di tornare a incontrare gli spettatori dal vivo, il suo gruppo di ricerca propone anche i Racconti di Canterbury Radio Tales ovvero un viaggio nel XIV secolo tra le parole narrate dai pellegrini di Geoffrey Chaucer.

Da dove nasce l’idea?

Si tratta di una iniziativa che ha preso forma in questo momento di chiusura dei teatri ma che arriva da lontano. Di solito come Teatro delle Bambole organizziamo incontri che si basano sulla lettura ad alta voce e in cui gli spettatori vengono invitati a lasciarsi andare all’ascolto chiudendo gli occhi. In questo caso il lavoro diventa più “radiofonico” ma la finalità è la medesima: tornare all’ascolto di una voce narrante e, più in generale, riabituarsi ad ascoltare se stessi e imparare a entrare in risonanza con ciò che bussa dentro di noi che è la cosa più difficile. Oggi, in un’epoca in cui siamo bombardati da tantissime immagini, non sentiamo più lo stimolo a immaginare cioè a creare dentro di noi qualcosa che arriva dal profondo e che solo l’arte del narrare riesce a creare.

La definisci «un’occasione preziosa per stare con la bellezza delle parole»: le azioni sono importanti ma alle volte abbiamo anche bisogno di parole come balsamo per l’anima, sei d’accordo?

Certo. Si è persa la voglia o forse anche il desiderio di stare insieme. Credo che già prima del diffondersi della pandemia fosse diventato tutto piuttosto automatico: ritrovarsi perché si deve e farlo solo nei luoghi deputati a questo tipo di attività. Si tratta secondo me di una forma di conformismo che ha cancellato invece la magia perché il momento dell’incontro è magico, che sia in famiglia o fuori con gli amici o anche da soli in mezzo alla natura, è comunque un incontro magico che purtroppo però viene un po’ sprecato.

Quali sono stati i feedback da parte di coloro che hanno ascoltato questi racconti radiofonici?

Siamo molto contenti sia per il numero di persone che ci hanno seguito sia per gli apprezzamenti ricevuti sulla qualità dei racconti. I Canterbury Tales oltre a essere molto belli e importanti dal punto di vista letterario sono anche uno spaccato di un’epoca, il 1300, un periodo di peste e quindi difficile. E poi sono dei racconti che ci dicono tanto dell’umanità. Chaucer aveva attinto molto dal Decamerone del Boccaccio ma anche dal Petrarca e ci sono molte somiglianze con questi due autori. Ma nonostante siano racconti abbastanza dimenticati e relegati spesso solo a una fruizione scolastica, il viaggio che abbiamo proposto ai nostri ascoltatori ha avuto grande successo.

Come te lo spieghi?

Perché sono dei racconti che creano comunità, hanno un effetto calamita, attraggono e coinvolgono chi li ascolta riuscendo a riunire le persone intorno a un fuoco. Del resto sono nati con questa intenzione e in questo Chaucer, il loro autore, è abilissimo.

Tornare quindi all’antica pratica dell’ascolto è quasi una missione: quanto è importante saper ascoltare? E perché non siamo più abituati a farlo?

Non siamo più abituati ad ascoltare essenzialmente per una questione di tempo perché questa è l’epoca dell’apparire, in cui ognuno pensa solo a se stesso. E, chiaramente, se tutti quanti parlano nessuno ascolta. Non siamo più abituati perché ci hanno dotato di strumenti che erano – e lo sono ancora – eccezionali ma che, secondo me, non eravamo pronti a utilizzare con sapienza. In pratica è come se ognuno di noi parlasse davanti a uno specchio e questo accade perché si sono persi il piacere e l’abitudine all’ascolto. Il tempo che noi dedichiamo all’ascolto e all’ascoltare gli altri è nullo rispetto a quello dedicato a esternare ciò che ci riguarda. La genesi di tutto questo credo sia nelle famiglie che sono profondamente cambiate. Io non so quanti bambini oggi siano abituati a sentirsi raccontare delle storie perché nella realtà sono sostituite da quelle fruite sui tablet. In questo modo cambia la percezione dell’ascolto perché cambiano anche i sensi che vengono sviluppati: un conto è sentire la voce della mamma, del papà o del fratello più grande che racconta una storia, e un’altra è sentire una voce metallica proveniente da uno smartphone che diviene un derivato, un sostitutivo del genitore o del familiare.

“Se Cadere Imprigionare Amo” regia di Andrea Cramarossa. Foto di Massimo Demelas.

Sei il fondatore e ideatore del Teatro delle Bambole: in due parole, perché Teatro delle Bambole?

Il nome “Teatro Delle Bambole” conserva in sé un mistero. E quindi siccome la nostra ricerca si fonda proprio sui misteri non spiego mai perché ho scelto di chiamarlo in questo modo perché è come se questa magia svanisse nel momento in cui viene svelata. La nostra ricerca nasce nel 2003 dal desiderio di osservare, sondare quei legami misteriosi che ci sono tra il suono umano, che non è la voce, e il corpo umano mettendoli in relazione con gli oggetti e il mondo circostante. È solo dal 2008 che abbiamo iniziato ad aprirci al pubblico perché i primi cinque anni sono stati di ricerca pura. Non abbiamo realizzato spettacoli se non qualche piccolissima apertura per pochi intimi. Poi gradualmente la ricerca si è aperta a quella relazione bellissima e straordinaria che avviene solamente quando c’è uno spettatore in platea (che per noi è sempre parte dello spettacolo) e un attore sul palco. La condivisione dello stesso luogo fa nascere una relazione molto bella ma anche molto fragile oltre che limitata nel tempo perché di un’ora poco o più. C’è quindi bisogno di una forte intesa e spesso gli spettacoli che proponiamo sono anche abbastanza difficili e chiediamo allo spettatore di fare uno sforzo e di avere costanza e fiducia perché poi non esistono forme di teatro più facili di altre. Per me l’arte è per chiunque e sempre perché si basa sulle emozioni, sulle sensazioni, e quindi su un qualcosa di umano: un quadro di Caravaggio così come uno di Fontana sono assolutamente per chiunque. L’arte non si può e non si deve capire perché l’arte non è descrittiva. Il racconto che fa un’opera d’arte va oltre, è una extra narrazione cioè è un oltre-testo e un oltre-corpo ma che allo stesso tempo ci parla in maniera molto diretta, parla a noi che vediamo, a noi che assistiamo. È una forma di apertura e di stimolo all’apertura, alla crescita e alla conoscenza.

Sei anche teorizzatore di un approccio all’arte drammatica mediante l’uso e la conoscenza del suono e questo “Nuovo Metodo di Approccio all’Arte Drammatica è in continua evoluzione ed è aperto a contaminazioni e agli incontri che la vita di per sé regala”. Alla luce di tutto questo cos’è per te il suono?

È qualcosa che esiste, che è potenzialmente presente sempre. Per me è interessante il suono dell’essere umano legato all’universo cioè come respiro della natura. La nostra voce è condizionata da emozioni, carattere, personalità. Il suono invece è neutro ma nello stesso tempo dinamico perché ha un suo movimento, almeno dal mio punto di vista. Ed è formidabile per l’atto creativo. Il suono è un luogo di estrema sincerità che avvicina a qualcosa di vero. E l’attore attraverso questo metodo, maturato in tantissimi anni di studio, è in grado di stare sul palcoscenico in maniera assolutamente sincera. Non è un metodo facilmente applicabile perché siamo tutti individui strutturati, abbiamo una corazza e il nostro ego non aiuta ma sono tutti elementi di noi che dobbiamo imparare dolcemente ad abbandonare perché stare nell’arte significa stare in un territorio fondamentalmente neutro. È un lavoro pedagogico che può però anche diventare una scelta di vita, come nel mio caso. Io mi sono accorto che il 90% delle cose che facevano parte di me erano inutili, superflue e questa nuova consapevolezza mi ha cambiato completamente la vita.

Ci sono stati attori o artisti ai quali hai cambiato la vita con questo metodo?

Sì, è successo ma solo per due di loro. La verità è che non è facile anche se credo sia comunque stimolante perché si torna in relazione con l’ego che per l’attore, si sa, è comunque sempre un argomento ingombrante. Poi se si vuole fare del proprio lavoro un’arte è chiaro che bisogna imparare a fare spazio dentro di sé perché se tutto il proprio spazio è occupato da se stessi, non ce n’è per nient’altro. Questo però non significa perdersi, significa piuttosto ritrovarsi in qualcosa che è cambiato. Noi mutiamo in continuazione, non è possibile essere sempre se stessi perché tutto cambia in noi e intorno a noi. Chi lavora anche momentaneamente con il Teatro delle Bambole sa che sta entrando in un luogo in cui ci sono una serie di possibilità: l’attore si può mettere in discussione e può trovare una strada anche bella per poter creare però nello stesso tempo emotivamente è anche un territorio forte.

“Il fiore del mio Genet” regia di Andrea Cramarossa. Foto di Massimo Demelas .

Il 27 marzo si è celebrata la Giornata mondiale del teatro che avrebbe dovuto segnare la riapertura dei teatri. Così non è stato. Qual è il tuo pensiero in merito?

Purtroppo che ci sia una pandemia è un dato di fatto. Credo che questa situazione ci debba servire per ripensare tutto, a cominciare dalla relazione con la natura, con l’ambiente che ci circonda, compresi i teatri. Credo che debba essere capovolta nel senso che, sebbene non mi piaccia usare il verbo produrre però credo che qualsiasi cosa venga prodotta debba essere compensata da un progetto sostenibile, anche nella creazione di uno spettacolo. Quando penso alla crisi che stiamo vivendo e quindi alla chiusura dei teatri o dei cinema e di tutti i luoghi di cultura, mi viene in mente la caduta di Atene che iniziò il suo declino come polis proprio perché non ci fu più la possibilità di mettere in scena le tragedie nella città. Credo sia importante riflettere su questo, soprattutto oggi, perché penso che la nostra civiltà, così come qualsiasi altra civiltà del passato, non è detto che duri in eterno e il fatto che i teatri siano chiusi ne è un sintomo chiaro, evidente al di là della pandemia perché anche prima non godevano di grande salute. C’è stato un voler vedere il teatro, il cinema ma poi addirittura l’arte figurativa o scultorea e tutto ciò che l’uomo può realizzare, come un qualcosa di assimilabile a un prodotto da consumare nel breve tempo per poi passare al successivo. Quello a cui stiamo assistendo oggi non è che un riflesso di qualcosa che era già stato messo in atto e se ci pensiamo bene il lavoro dell’attore per esempio, che per me è sacrosanto e di estrema bellezza, è un lavoro che è stato messo in discussione già da tantissimo tempo. È stato profanato in maniera direi anche disgustosa. È come voler entrare in un sistema di meccanica di equilibri, che hanno a che fare con la meraviglia e con il sogno, in maniera violenta distruggendo tutto anche con un certo disprezzo, con una certa volgarità. Si tratta dell’ennesima profanazione che segue a quella che non considera più i boschi o le foreste come dei luoghi sacri. Oggi ci servono solo per fare jogging o per raccogliere i funghi ma è sbagliato. È chiaro allora che, se si perde questo tipo di relazione, nel momento in cui una foresta brucia non importa a nessuno o importa relativamente. Lo stesso vale per i teatri: è un disastro per l’intera comunità, sia se brucia una foresta che se chiudono i teatri. È l’intera nostra civiltà a essere irrimediabilmente compromessa.

Cosa ti auguri allora per il dopo pandemia?

Mi auguro con tutto il cuore che ogni cosa venga rivista alla luce di questa relazione uomo-natura che voglio proprio definire sacra nel senso di qualcosa da proteggere, preservare e che possa poi di conseguenza preservare anche l’uomo. Noi non siamo al di là di questa relazione ma ne facciamo parte: è questo che non si capisce. Credo che saremo in grado di comprendere l’importanza di questa relazione solo se non ci lasceremo di nuovo abbindolare dal denaro, dal possesso, dall’accumulo di cose e di potere. Solo allora forse riusciremo veramente a vivere bene.