TDV14: “la consapevolezza arriva in assenza” Intervista a Roberta Nicolai di Letizia Bernazza

Paola Bianchi. Foto di Margherita Masè

Abbiamo seguito con interesse negli anni le varie edizioni di Teatri di Vetro. Quest’anno non ci è stato possibile, date le circostanze legate all’emergenza sanitaria, partecipare al festival in presenza.  Lo abbiamo fatto, tuttavia, attraverso le numerose e stimolanti iniziative promosse con “cura” in streaming.
Ci è sembrato importante e urgente, però, incontrare la Direttrice artistica – Roberta Nicolai – per intavolare con lei domande e stimolare riflessioni sul “processo di pratiche” pensate e agite al fine di colmare un’“assenza” che si nutre di un respiro indispensabile tra interno ed esterno, tra gli artisti e gli spettatori. È così, d’altronde, che il “vuoto” si riempie di vitalità, di comunione, di un “sentire” condiviso, sebbene ci sia un «interno affamato di esterno, un interno bucato, riempito a colpi di ore e costantemente di nuovo deserto».

Che cosa ha voluto dire per te e per tutto il gruppo di lavoro di Teatri di Vetro organizzare e realizzare il festival, giunto alla sua quattordicesima edizione nel 2020, in piena pandemia? 

Come ho detto e scritto in diverse occasioni, Teatri di Vetro è un sistema complesso che presenta contemporaneamente elementi di rigore e di permeabilità. Un’ossatura che si configura come uno schema provvisorio, una serie di ambienti definiti ma predisposti ad essere abitati dai singoli progetti artistici. Un’idea che consente il manifestarsi dei fenomeni (1).
Per realizzare un’edizione serve tempo. Un’articolazione del tempo, fatta di fasi di lavoro, di vuoti e di nuovo di fasi di lavoro. Di scritture e riscritture.
C’è la definizione che Benjamin dà del trattato, cioè dell’esposizione filosofica come una rinuncia al percorso lineare e senza interruzioni (2) da cui scaturisce un andamento del pensiero, un riprendere sempre daccapo, un respiro, un prender fiato. La rinuncia a qualsiasi linearità e il radicamento dentro un tempo storico che ha una ritmica intermittente e rende intermittente l’azione e il pensiero umano, facendolo territorio di continue cesure, di continue pause.
È nel dialogo con il pensiero micrologico di Benjamin che ho coltivato l’indagine del dettaglio, del frammento. In quella piega che respira su di sé, che prende fiato e si retroflette per un istante, in quel movimento che nasce dall’assenza di un movimento teleologico, ma si ripiega e nella piega cattura non la visione d’insieme, non il fenomeno nella sua interezza, ma la parte, la tessera del mosaico, il particolare-particolare, ho percepito l’“odore” dell’intero, il sentimento di stare nella storia che ci è concessa, in questa “agonia raggelata” che è la modernità.
Tutto questo già c’era, prima che arrivasse la pandemia a rivoluzionare il nostro “fare”.
Con la pandemia tutto ciò che già c’era si è radicalizzato, si è imposto ulteriore violenza.
Così questa ritmica intermittente che ha sempre caratterizzato la costruzione delle edizioni del festival è emersa come l’unica tessitura del nostro procedere nel tentativo di “fare spazio” ad azioni artistiche.
Quell’aggiornamento quotidiano, quella decostruzione del dato, del noto e il rilancio della ricerca, quella documentazione e quell’apprendimento continuo e reciproco, hanno avuto come terreno lo specchio intermittente di stop and go continui e reiterati, dati da norme continuamente necessitanti di aggiornamenti, impattando non solo sulle progettazioni artistiche, ma sulle progettazioni di vita di ogni cittadino di questo mondo.

Alessandra Cristiani. Foto di Margherita Masè

Via via la presa di coscienza di dove ci trovavamo ha generato il desiderio di reagire allo choc, di recuperare fiducia, per me e per gli altri, (3) da opporre alla sfiducia, di provare a confrontarsi creativamente con il tempo dato, nella concretezza della sua ferocia e ha esercitato su di me un’attrazione: la possibilità di muoversi su un terreno veramente “oscillante”, davvero fuori dalle zone note, dover e imparare a ripensare in tempo reale, dover cercare veramente fuori da sé. Toccare con mano la possibilità di fallire.
Un rifacimento continuo della facciata, delle pareti interne, di ogni singolo mobilio. Come vivere in una casa in perenne ristrutturazione.
Nelle pratiche, dopo un tempo di sospensione attonita data dalla clausura ho ripreso il dialogo con gli artisti. È stato evidente da subito che tutto ciò che avevamo immaginato a settembre 2019 non sarebbe stato possibile realizzarlo, che i mesi persi erano davvero persi.
Così ci siamo messi a correre. Residenze, tutoraggi seguiti da remoto attraverso piattaforme, incontri da remoto, quando possibile in presenza. Molte riprogettazioni e riscritture.
Poi abbiamo respirato un istante.
Trasmissioni a settembre è stata un’edizione significativa. Il valore umano di ritorno alla prossimità, di possibilità di condivisione di spazi di lavoro e processi di creazione e l’alto livello del dialogo tra noi “interni” e gli “esterni” che ci hanno raggiunto a Tuscania negli ultimi due giorni ha amplificato il carattere del progetto, il suo essere tempo di studio, di osservazione interna e esterna, di negoziazione tra teorie e pratiche, di soglia tra riflessione e gesto. E quest’anno tutto ciò si è imposto in modo tale da generare il nostro primo piccolo progetto editoriale, il n.0 della fanzine Oscillazioni.
È sembrato un attimo. Poi il respiro si è di nuovo interrotto.
Dopo la chiusura dei teatri a novembre penso di essere stata senza fiato un paio di giorni. In apnea, istante dopo istante, alimentavo un desiderio dai tratti offuscati. Raccoglievo la forza di cercare una via per continuare a “fare”.
Ho sentito che dovevamo radicarci. Non potevamo sottrarci. Dovevamo accettare di esserci e che solo da lì, dall’interno, saremmo stati a contatto con la nostra realtà.
Tutte le decisioni prese sono nate da qui. Da questo radicamento (4). 

Piccola Compagnia Dammacco. Foto di Margherita Masè

Come avete coniugato il concetto di “isolamento” per sé stessi e per gli altri, nell’ottica evidente e responsabile di una protezione reciproca, con la “pratica” teatrale” per sua natura fondata sulla relazione e, dunque, su di una sostanziale corrispondenza tra l’io e il noi, tra una dimensione individuale e un territorio comunitario in cui, più che in altre arti, si fondono etica ed estetica? 

Co-presenza di corpi.
Personalmente, a partire dalla riapertura di maggio, ho fatto molte rinunce per assicurare che la mia presenza durante il lavoro fosse il meno possibile rischiosa per gli altri. Per salvaguardare gli incontri necessari con artisti e collaboratori ho eliminato tutto ciò che non fosse strettamente necessario, fino al limite dell’autoisolamento, per poi avere la possibilità di relazionarmi “dal vivo” durante laboratori, nelle occasioni di lavoro in presenza e infine nel rush finale a Ostia Lido e poi a India, con una certa tranquillità e un’accoglienza degna della qualità del nostro incontro.
Credo che molti si siano comportati così.
Nella pratica, siamo arrivati al lavoro “in presenza”, facendo tutti il tampone e mantenendo mascherine e distanze. Ma senza paranoie.
Un teatrante – sia un curatore che un attore – ha coscienza del proprio corpo e della necessità di preservarlo dal momento che dalla presenza fisica dipende la possibilità stessa di lavorare, mia e degli altri. Io mi sono fidata degli altri, come gli altri si sono fidati di me, immagino. È una condizione implicita al nostro lavoro. Lavoriamo con il nostro corpo, abbiamo necessità della relazione – la natura stessa del teatro – e proprio da questo credo derivi una tutela reciproca. È stato un comportamento naturalmente etico.
Nella dinamica io-noi, durante la fase di costruzione, abbiamo anche forzatamente imparato a selezionare cosa richiede davvero presenza e cosa può essere elaborato a distanza. Abbiamo sperimentato un’autonomia individuale che a tratti è stata molto più faticosa ma che non andrebbe persa del tutto, non è tutta da buttare. E abbiamo alimentato un desiderio di incontro. Questo davvero tangibile e importante. Così come il desiderio di “materia” ha depositato tracce. Forse è il valore più evidente e più fertile rispetto alla costruzione di un futuro purtroppo ora sempre incerto. 

“I sipari”, così come ti chiedevi a marzo scorso, non si sono mai “rialzati”, tranne che per un tempo brevissimo. Il teatro, in particolare, annega nell’”assenza”: cos’è per te in questo momento storico l’“assenza”? È “indifferenza” come affermava Antoine Roquentin, il protagonista de La nausea di Sartre? O piuttosto è paura nei confronti della nostra stessa esistenza? O ancora è l’incapacità di riconoscere, da parte degli organi preposti, un valore autentico al teatro?

Mi chiedevo “su cosa” si sarebbe riaperto il sipario.
Continuo a chiedermi dove ci porta questa esperienza eccezionale quanto a dolore e violenza.
In questo momento temo che la chiusura dei teatri “ri-guardi” solo noi e pochi altri.
E forse dovremmo partire da questa presa di coscienza. Non possiamo affidare ad altri la responsabilità della nostra esistenza né cercare nei loro occhi la nostra verità. Abbiamo bisogno di riaprire domande e di farlo non su un fronte restaurativo. Così random: pensiamo davvero che si possa aver paura del teatro? Pensiamo davvero che la questione possa essere posta affermando il valore intrinseco al teatro? E di quale teatro parliamo? Cosa intendiamo con la parola teatro? La usiamo indifferentemente per ogni cosa che si svolge in quel luogo che chiamiamo teatro? È il luogo? L’istituzione? Il rito che ha oltre duemila anni? Dov’è la sua ragion d’essere? Dov’è la nostra ragion d’essere? Nell’origine del V secolo a.C. o nel tessuto reale della sua stessa esistenza che è necessariamente “qui e ora”?
Chiaramente non parlo di teatro come settore produttivo del paese. Non è questo il tema della discussione anche perché questo tema non è in discussione.
Credo che l’idea “teatro” sia oggi un campo problematico. Che dovremmo affrontarla così, pensando al teatro come il luogo della manifestazione dei fenomeni.
Non si tratta di abbandonarsi ad un’oziosa attività intellettualistica. È comprendere e fondare l’origine delle nostre azioni da cui mettere in conto che possa scaturire tanto l’estinzione quanto la rinascita. Ogni istante. Intendo questo quando parlo di possibilità di fallimento. (Certo non intendo meno like sui social!) La mia progettualità assume questa prospettiva e tenta di mettere in campo “cose” e “modalità delle cose” che affermano la loro fragilità e caducità, uno sbriciolamento interno, un gran mucchio di macerie, ma bellissime, in mezzo alle quali uomini e donne possono prendere pezzi, costruire piccoli mucchi di macerie ordinati o rimuoverle. Giocare fino in fondo. Altrimenti che senso ha?
Ma non è una risposta. È e resta una domanda.
C’è una bellezza della catastrofe, c’è un affondare che è risalire, un distruggere che è costruire, un sezionare che è sentire l’intero. E questo il teatro lo può fare e “un certo” teatro lo fa. È da lì che io penso che dobbiamo muoverci. Non per ripartire ma semplicemente per essere. Lì in quella piega, in quel respiro che si arresta per un istante, si apre la bellezza del nostro tempo e il suo orrore. 

Chiara Frigo. Foto di Margherita Masè

Che cosa ha voluto dire, conciliare l’“assenza” con la distanza e la telecamera? Credi possa esistere un teatro in streaming in grado di sostituire un’“esperienza partecipata” con un’“esperienza mediata”?

Non parlerei di sostituzione. Ma di alterità.
Il teatro è co-presenza di presenze, quella dell’attore e quella dello spettatore. È evidente che nulla possa sostituire l’esperienza della scena e del pubblico insieme nell’atto di costruire lo spettacolo. Ho immaginato – e scritto molto in realtà – questa assenza di spazio, questo “vuoto apparente” dato dagli schermi. L’intera presentazione del festival (5), così come i cinque appuntamenti di Porta un pensiero sono stati costruiti proprio come riflessione in merito alla condizione nostra e degli spettatori, separati dalla mediazione che finiva per essere una sottrazione gli uni degli altri. E una vaporizzazione dello spazio del teatro.
Ma appunto il vuoto era “apparente”. E la settimana di riprese me lo ha confermato.
L’esperienza vissuta ci ha invitati a guardare da un altro punto di osservazione, da un’altra prospettiva.
Credo si possa essere “partecipanti” a diversi livelli e in molti modi. In genere non intendo fornire agli spettatori di TDV un compito facile o facilitato. Il rispetto che ho per gli artisti è lo stesso che ho per gli spettatori. E non intendo neanche sostituirmi a loro nel dire cosa abbiamo visto o provato o avrebbero dovuto vedere e provare. Sicuramente hanno vissuto anche solitudine e sconcerto, ma non solo. Per noi, dall’altra parte dello schermo, oltre al dato numerico – gli strumenti che abbiamo utilizzato ci dicono quanti spettatori, per quanto tempo, da dove, e ci direbbero anche molto altro che non credo analizzeremo – ha avuto valore ogni gesto che ogni singolo spettatore ha voluto consegnare dopo la visione. Anche il silenzio.
I numeri sono stati alti. Ma sono numeri di una visione virtuale. Forse rapita, forse distratta. Senza calore, senza applausi, senza un bicchiere in mano per due chiacchiere. Qualcosa di asettico, di raggelato. Esattamente la nostra realtà che ora è scritta sul corpo. Quando torneremo ad incontrarci ne saremo commossi forse, disgustati forse. Ma certo non indifferenti.

Dal lavoro che avete svolto nell’ultima edizione di Teatri di Vetro, in che modo avete ”ri-dato vita” al corpo degli attori, allo spazio scenico e all’immaginazione degli spettatori?

Come dicevamo nulla sostituisce la co-presenza fisica di attori e spettatori.
Però se non pensi di dover riprendere soltanto lo spettacolo per crearne il suo fantasma digitale ma ti poni nell’ottica di dover – seppure con il poco tempo a disposizione e con un investimento economico per noi ingente ma di fatto irrisorio per il cinema – di dover andare nella direzione di fare il “film di teatro”, tutto cambia. In questa prospettiva sai che la ripresa può tentare di prendere in prestito dal teatro stesso il principio di incontro che lo fonda, tentare di trasferire il rapporto o i rapporti scena/sala nel dialogo teatro/cinema, tentare di interrogarsi non sull’oggetto morto ma su quello vivo della percezione. Lì stai mettendo in campo un nuovo terreno di confronto tra due autori, due équipe, due arti. Può nascere una nuova cosa. Certo non è facile gestire questo confronto. Ma se si mettono in campo strategie precise per ogni singolo oggetto, per ogni cosa teatrale che deve diventare elaborato digitale, allora si apre la possibilità di un’altra opera.
Darci l’obiettivo di filmare il teatro ha richiesto per ogni singolo spettacolo di trovare un apparato visuale che permettesse di dare spazio allo sguardo dello spettatore e di far giocare lo spettatore non solo con le possibilità del suo sguardo ma anche con le impossibilità.
Avendo più tempo avremmo potuto ripensare ogni pièce per il cinema e operare una traduzione totale di un linguaggio con i suoi codici, le sue leggi ad un altro con i suoi codici e le sue leggi modificando l’oggetto da riprendere e non solo le modalità con cui riprenderlo. Questo avrebbe reso ogni singolo pezzo realmente accessibile a diversi livelli.
Di fatto abbiamo ragionato principalmente per ogni spettacolo sulle modalità di ripresa per restituire il più possibile la percezione dal vivo e affidando al montaggio la costruzione temporale di tale percezione. Per me è stato un campo di sperimentazione e un’esperienza straordinaria che ha aperto un orizzonte di nuova bellezza. Anche di questo ho detto molto a caldo in un testo/podcast/video intitolato Lo spazio luminoso del backstage (6).
Volevo raccontare come sin dal primo incontro con Michele Cinque (7) avevo ribadito la necessità di essere specifici per ogni singolo lavoro per provare a ricostruire e tradurre la mappa di visioni che è Oscillazioni e Teatri di Vetro.  Da subito è stata presa la decisione di costruire un set diverso per ogni spettacolo. Avevo detto a Michele di dover tenere il “qui e ora” del teatro e abbiamo preso la decisione di girare e montare live, nello stesso istante con pochissimi ritocchi in una post-produzione volante. 

Barbara Carulli. Foto di Margherita Masè

Abbiamo lavorato in maniera metodica, seguendo alla lettera un vero e proprio piano di lavorazione. Avevamo 14 spettacoli da riprendere e per ognuno il nostro lavoro iniziava con una riunione. A Michele avevo già raccontato ogni pezzo, riportando note osservazioni e timing in un dossier. Ma ogni volta abbiamo ricominciato da capo, con ogni singolo artista per discutere delle logiche sottese, degli intenti percettivi, della pianta scenica, a volte compressa a volte esplosa, dei punti di osservazione se rigidi o mobili, dell’atmosfera. Nessuno spazio per le sovrastrutture. Un tempo denso come materia, che scorreva via veloce verso il coprifuoco. La sensazione fisica di dover essere rapidi. Di avere a che fare con la creazione in tempo reale.
Sporzionamento dei corpi. Oscillazione dello sguardo. Percezione inedita dell’amplificazione dei tratti compositivi delle piante sceniche e degli intenti percettivi degli artisti. Ogni pezzo ha fornito l’occasione di essere di nuovo analizzato, sezionato per rifluire poi, come intero, all’interno della regia video. Nella stessa giornata abbiamo sperimentato il massimo della compressione e il massimo della dilazione della scena. Un ampliamento dei sensi.
In parallelo ho seguito l’elaborazione degli elaborati performativi digitali esterni, quei pezzi che proprio perché embrionali rispetto alla restituzione live, hanno preso la forma di diari di creazione, di anatomie di progetto, di autobiografie artistiche.
In questi giorni mi chiedo come ricavare tempo e energie per rielaborare tutto ciò. Per far sostare di nuovo lo sguardo all’interno del progetto.
Di una piccola cosa sono certa. A 14 anni Teatri di Vetro è stato un festival adolescente (8), arrogante e spericolato, noncurante dei rischi e affamato di conoscenza. In questi anni della sua adolescenza è passato dall’amore per l’esperienza del teatro all’amore per l’arte del teatro. 

Una piccola storia 

Mia madre temeva per me. Diceva che ero spericolata. Ricordo bene quell’attrazione per tutto ciò che dava vertigine. Forse poteva essere disprezzo del pericolo; per me era solo il piacere di una sensazione corporea esaltante e adrenalinica che spiazzava la noia.
In uno dei tanti azzardi, avevo 14 anni, ho rischiato di annegare in un mare troppo grosso per la mia capacità di nuotatrice. Un angelo – forse solo un nuotatore meno incauto – mi ha teso la mano tra le onde e mi ha riportato a riva ai piedi di un bagnino ancora indeciso sulla necessità di intervenire e di mia madre gendarme pietrificato da una lava mista di terrore e di disapprovazione.
Dico che il teatro mi ha salvato la vita. Alla lettera.
Non so a quali azzardi mi sarei esposta se non avessi scoperto molto presto il migliore terreno d’avventura, di vertigine costante, dilaniante ed esaltante. Luogo di apprendimento continuo, misterioso e magico. Un luogo in cui prendere rischi è il solo modo per andare avanti.

Note

1) La “figura” è data dalle sue parti – Trasmissioni, Composizioni, Oscillazioni – contemporaneamente policentrica e finalistica, dal momento che Oscillazioni è la meta a cui tutto tende e in quanto tale “informa” tutto il resto.
Per creare Oscillazioni attivo e alimento il dialogo con gli artisti circa un anno e mezzo prima dell’apertura al pubblico. A partire dai loro progetti artistici viene aperta la possibilità di far deragliare la creazione, restituendola non più soltanto come opera ma anche in una costellazione di apparati scenici paralleli e difformi che evidenziano e fanno emergere i molteplici livelli della creazione. Immaginazione e azzardo. Trasferimenti di supporto. Tradimenti disciplinari. Trasformazione dello spazio. Invenzione di convenzioni. Ricerca della tattilità della scena. Sono modalità per far emergere il processo e cambiare la percezione delle “cose”. Il progetto non deve tirarsi fuori da questa indagine critica ma assimilarsi, quanto a natura, ai suoi oggetti. L’architettura progettuale deve muoversi nella direzione dettata dai suoi oggetti e – nella reciprocità – gli oggetti artistici devono muoversi nella direzione dell’architettura progettuale. Questa collaborazione consente di superare l’unicità della nozione di opera affiancando l’evidenza dell’operatività dell’artista e dell’operazione del fare scena.
2) In contrapposizione ad Hegel e in particolare alla Fenomenologia dello spirito.
3) Mai come quest’anno ho avuto certezza di quanto le decisioni che prende un direttore determinino una ricaduta. Mai come quest’anno ne ho sentito la responsabilità.
4) Un dato materiale ha avuto un peso e ha contribuito ad assumere fino in fondo la dimensione interna.
Se non avessi cercato di fare in qualche modo, anche in digitale, il festival non avrei potuto pagare i cachet agli artisti. Avrei coperto i costi di gestione e del personale del triangolo. Ma – per i regolamenti regionali e comunali – avrei perso parte dei contributi e di conseguenza gli artisti con i quali i processi di lavoro erano avviati sarebbero rimasti fuori. Niente di straordinario. Molte strutture hanno dovuto prendere decisioni in tal senso. Ma Teatri di Vetro no. La reciprocità, la relazione e la fiducia che mi lega agli artisti non mi hanno consentito di non tener conto di questo dato economico.
5) Vuoto apparente https://www.youtube.com/watch?v=d9kbAdD6R9s
6) Lo spazio luminoso del backstage https://www.facebook.com/watch/?v=181325960341699
7) Michele Cinque è regista cinematografico e direttore artistico di Lazy Film, la struttura con la quale abbiamo realizzato le riprese.
8) Come lo definirebbe Ariane Mnouchkine.