ESERCIZI DI MEMORIA > Crocevia a cura di Marta Marinelli e Andrea Scappa

“Macunaíma”, scena finale del II Atto.

La metamorfosi di un giaguaro

Un anno dopo il provino con Murilo Alvarenga, ero il protagonista di Macunaíma, adattamento del romanzo di Mário de Andrade, con la regia di Antunes Filho. Uno spettacolo che ha cambiato la storia del teatro brasiliano. Con Antunes, fin dal primo incontro, si è instaurata una forte sintonia. È stato per me un amico e un maestro. Macunaíma era pieno di queste figure che si muovevano lentamente, come se fossero statue in cammino. Antunes mi portava nei musei, chiedeva ai suoi amici, che erano lì con noi, di spiegarmi la differenza di questo e di quello. Tante informazioni da ricordare a memoria. E poi, la mattina presto, mi passava a prendere per portarmi a nuotare, dalle otto fino alle dieci, poi facevo la prima colazione e dopo andavo già a teatro per uscire di lì alle sette di sera, tutti i giorni, per un anno e due mesi. Macunaíma debutta nel 1978. Dopo essere stato rappresentato in tutti i ventitré stati brasiliani, compreso Belém, dove tra gli spettatori c’erano i miei genitori, ha girato ovunque, anche in Europa, dal 1978 al 1981. L’hanno visto tutti, pure Jerry Lewis a New York. Recensioni positive, premi su premi. Ero sulla copertina di tutti i giornali. A me, ragazzo nato in Amazzonia, sembrava incredibile. Al festival di Nancy abbiamo fatto Macunaíma sotto il tendone di un circo, strapieno. Nonostante recitassimo in portoghese per quattro ore, gli spettatori avevano un’attenzione massima. Alla fine viene verso di me un signore giapponese. Esile, con i capelli lunghi, un po’ grigi. Mi abbraccia. Non lo conoscevo. Era Kazuo Ohno. Abbiamo iniziato un intenso dialogo, con un traduttore, per cinque giorni. Con Kazuo Ohno abbiamo avuto modo di ritrovarci tante altre volte, poi, in Brasile perché lui e Antunes erano diventati molto amici. Abbiamo fatto anche un film insieme diretto da Werner Schroeter, Dress Rehearsal, dedicato al festival di Nancy. La stessa cosa era avvenuta tra Antunes e Bob Wilson. Un rapporto di amicizia tale che, quando siamo stati con lo spettacolo a New York, Antunes ci portava a vedere le prove di Wilson. Ogni giorno, per più di un mese, durante l’intera nostra permanenza in città.
Sono andato avanti con Macunaíma, più di 500 repliche. Entravo in scena con miei compagni alle otto di sera e uscivo dal palco a mezzanotte. Viaggiavamo in tutto il mondo, facevamo sempre il tutto esaurito, ma la nostra paga restava minima. Ad un certo punto il mio rapporto con Antunes si incrina. Comincia a montare una specie di ribellione da parte mia, ma anche di quasi tutti i miei compagni: o si vedono i soldi o niente. Ho deciso di abbandonare lo spettacolo a Norimberga. Saltano tutte le repliche, salta tutto.

Cacá Carvalho nel IV Atto di “Macunaíma”, regia di Antunes Filho, con il Grupo Pau Brasil, 1978.

In quel momento decisi di smetterla con il teatro. Non è stato facile, ma era una scelta per me necessaria. Insieme a Márcio Medina, aiuto scenografo di Macunaíma, cominciammo a fare collanine e andare per mercati. Un pomeriggio si avvicinò alla nostra amata bancarella un famoso attore, Juca de Oliveira. Quando mi riconobbe, sorpreso di trovarmi lì, mi propose di recitare nell’Otello, una grande produzione di teatro commerciale, che stava preparando in quel periodo. Non potevo crederci. Con l’Otello abbiamo girato il Brasile nel 1984. Accanto a de Oliveira, truccato con il carbone, io interpretavo Rodrigo. Era bello, la scenografia era curata da Flávio Império, ed anche Márcio lavorava alle luci, ma io, guardandomi, con quel costume addosso, mi sentivo un animale nel posto sbagliato. Ci fu una notevole affluenza e la stampa veniva a chiedermi dove fossi finito. Così, pian piano, mi sono convinto a tornare in teatro.
Finita la tournée, un giorno, bussai alla porta del Teatro Paiol, di proprietà di Paulo Goulart e Nicette Bruno, due grossi attori di teatro e televisione. Avevo bisogno di un lavoro. Mi risposero: «Ma non stiamo preparando nessuno spettacolo…». E io, prontamente: «Non voglio lavorare sul palco, fatemi fare anche le pulizie». Così ho cominciato e in due anni lì ho fatto di tutto: il cameriere per la signora Nicette Bruno, lavoravo al botteghino, anche come ufficio stampa. Ero felice, avrei fatto qualsiasi cosa pur di restare. Mi hanno fatto recitare anche nello spettacolo Divina Increnca. Un altro uomo di teatro, Antônio Abujamra, che è stato per me fondamentale, lo incontrai di lì a poco. Devo a lui la scoperta di un racconto di Guimarães Rosa. Volevamo metterlo in scena. Cominciammo le prove, durate le quali Antônio mi ha fatto conoscere Walter George Durst, famoso autore di telenovelas. Dopo una settimana ci siamo dovuti interrompere perché Antônio aveva accettato un’improvvisa e allettante proposta di lavoro a New York. Mi ritrovai solo, rimasto incantato da quel testo di Rosa. Così supplicai la signora Bruno e Goulart di concedermi uno spazio del loro teatro per lavorarci, a qualsiasi orario, glielo avrei ripagato con il mio lavoro. Diedero subito la loro disponibilità. Roberto Lage, con cui avevo fatto Divina Increnca e che era stato mio insegnante, accettò di dirigermi e poco dopo abbiamo debuttato con lo spettacolo chiamato Meu Tio, o Iauaretê. Era la storia di un cacciatore che nella foresta incontra un giaguaro femmina di cui si innamora perdutamente e, volendo lasciare la specie umana, si trasforma in giaguaro. Per costruire il personaggio sono ingrassato venti chili e ho smesso di tagliarmi i capelli, la barba e le unghie. La vita era diventata complicata, non riuscivo nemmeno più a scrivere. Ancora una volta un successo enorme.
All’improvviso, alla fine di una replica a Rio de Janeiro, entra una ragazza con degli occhi belli che mi guarda come se fossi una creatura strana. Era Celina Sodré, lavorava in Italia e mi chiese se volessi fare due repliche in una piccola sala in un festival a Pontedera. Era una proposta assurda, a Rio avevamo tutto prenotato per due mesi. Mi disse: «Facciamo così. Parti lunedì, arrivi il giorno dopo, fai lo spettacolo mercoledì e giovedì, e sabato torni di nuovo in scena a Rio». Riuscimmo a trattare per cancellare solo una settimana di spettacoli. Non conoscevo Pontedera e tutti pensavano che fossi pazzo ad accettare la proposta. Però qualcosa mi diceva che dovevo andare. Mi ritrovo al centro di Pontedera, in una palestra, con una pessima acustica. Ero furioso: tutto il lavoro sulla partitura vocale, che avevo preparato con Theophil Mayer, andava disperso, a causa degli echi e della pioggia. Primo giorno di spettacolo: quattro persone. Poco prima ero a Rio de Janeiro con davanti un mese di repliche completamente sold out. A Pontedera l’ultimo giorno c’erano appena dodici spettatori. Notai che un uomo era venuto a vedere lo spettacolo ogni sera. Quello spettatore si chiamava Jerzy Grotowski.

Cacá Carvalho e Paulo Gorgulho in “Meu Tio, o Iauaretê”, diretti da Roberto Lage, 1986.

Ho saputo chi fosse solo qualche tempo dopo, quando tornai in Italia. Nel 1989 partecipai al festival di Volterra con uno spettacolo costruito insieme a François Kahn, regista e attore che avevo conosciuto a Pontedera. Si chiamava Venticinque uomini, un monologo tratto dal testo di Plínio Marcos, un autore brasiliano, allora del tutto sconosciuto, che io conobbi mentre cercava di vendere i suoi libri in un ristorante frequentato da attori. In occasione del festival di Volterra ho conosciuto il Gruppo Internazionale L’avventura, Carte Blanche e il teatro nel carcere di Volterra, che a me sembrava un castello. Un’altra figura che ho avuto la fortuna di incontrare lungo il mio percorso artistico è stato Roberto Bacci. Durante le mie prove a Pontedera lui era una presenza costante. Se non c’era, diventavo inquieto, mi stranivo, continuavo a farmi domande sul perché non fosse venuto. Pur restando in silenzio, sentivo che mi guardava in modo diverso. Mi guardava davvero. È stato lui che mi ha condotto in tante riflessioni e mi ha fatto incontrare Stefano Geraci, Luisa e Silvia Pasello. Era come se tutto quello che avevo immaginato a Belém, quando ero giovane, fosse diventato possibile.
Poi Roberto Bacci mi spronò a fondare a San Paolo una casa-laboratorio. È rimasta in vita per dieci anni. Dall’Italia sono arrivati tantissimi ospiti. In quegli anni, lavorando con giovani attori, ho imparato tanto. Grazie alla casa-laboratorio ho avuto l’occasione di sperimentare il teatro da altri punti di vista. Ad un certo punto sono tornato a recitare nelle telenovelas, chiedendo compensi che consentissero la mia sopravvivenza e quella della casa-laboratorio. Volevo che molte più persone potessero conoscere in Brasile un altro modo di creare e lavorare.