ESERCIZI DI MEMORIA > Crocevia a cura del gruppo di lavoro Esercizi di memoria

Gli attori del Sámi Teáhtera nello spettacolo “Julie & Romeo” del 1997. Foto di Harry Johansen

Crocevia è la terza tappa di Esercizi di memoria. Dopo Contagio e Apprendere i nostri artisti ripercorrono quei momenti in cui ci si trova ad un bivio, ad un crocicchio, e la strada intrapresa ti fa ricordare, dopo tanto tempo, non solo dove ti ha portato, ma cosa sarebbe successo se fossi andato nella direzione opposta.

Planetario romano

Marco Solari tra le corde dello spettacolo “La rivolta degli oggetti” al Beat 72 a Roma nel 1976.
Foto di Andrea Fiorentino

Durante le conversazioni con il nostro gruppo, nel maggio dell’anno scorso, chiedevamo ad ogni artista di portare con sé alcuni oggetti intorno a cui dipanare il loro racconto. Tra gli altri, Marco Solari ha portato un filo. Il filo rimanda alle corde usate ne La rivolta degli oggetti, lo spettacolo d’esordio del suo gruppo, La Gaia Scienza, ma anche alla trama con cui vita e arte si rincorrevano sui sanpietrini roventi della Roma degli anni Settanta.

Qualche tempo dopo la Biennale di Venezia del 1975 io e Alessandra Vanzi abbiamo rincontrato Giorgio Barberio Corsetti a Roma, reduce dalla contestazione della gestione dell’Accademia d’Arte Drammatica di cui era stato allievo. Stava iniziando a lavorare su Majakovskij con cui, in tono minore, avevamo già avuto a che fare pure noi. Propose di metterci alla prova con il testo La rivolta degli oggetti. Ci trovavamo perfettamente in sintonia non solo tra noi, ma anche con altri artisti con cui Giorgio era entrato in contatto e così iniziammo a improvvisare La rivolta degli oggetti nello studio a Trastevere degli artisti visivi Gianni Dessì, Domenico Bianchi e Gianni Ceccobelli. Un giorno venne a vedere una nostra prova Simone Carella (1). «È bellissimo»  – ci disse –  «dovete assolutamente presentarlo al Beat 72». Eravamo felici, il Beat era un buco, ma già prestigioso. Oltre a Simone, un’altra figura importante nel contesto romano è stato Fabio Sargentini che aveva ospitato nella sua galleria d’arte L’Attico e alla sala Borromini, la post modern dance e famosi musicisti americani come Terry Riley, La Monte Young e Charles Bernstein, personalità che hanno formato un’intera generazione di artisti e performer. Intanto il nostro gruppo insieme ad altri come Il Carrozzone, diventato poi Magazzini Criminali, Falso Movimento, cominciavano ad emergere e a ricevere riconoscimenti. Ma ne esistevano tanti! Singoli, coppie, gruppi casomai composti solo da tre persone, meteore che presto si sono spente o sono scomparse, ma il loro passaggio lasciava una scia incandescente. Mi ricordo Rossella Or, i suoi spettacoli sembravano fatti d’aria ma erano grande poesia. Insomma, c’erano tante costellazioni intorno ai nuclei, i più attivi e legati da una più intensa affinità artistica e umana. E non dobbiamo dimenticare che in quegli anni esisteva una grossa osmosi tra sperimentazione artistica e politica, una continua riflessione tra poesia e rivoluzione, tra il movimento e la contestazione dei modelli produttivi. Allora nel centro di Roma c’erano tanti appartamenti o palazzi occupati dove avevano trovato rifugio anche diversi artisti, noi ci andavamo a fare le prove, tra una manifestazione e l’altra. E poi magari arrivava il critico de “l’Unità” che si scandalizzava perché c’eravamo anche noi all’Università il giorno che avevano cacciato Lama. Ci disse: «Questo è un covo di terroristi!» e se ne andò. Tutto questo cambiò con il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro e con l’invasione dell’eroina in Italia e a Roma in particolare. Fu una strage.

Andrea Scappa

Il ritmo nel gesto

Un frammento di “Comune spazio problematico”, ideazione, testo e regia di Fiorenza Menni, drammaturgia di Fiorenza Menni e Andrea Mochi Sismondi.
Foto di Maura Corvace

La scrittura di Fiorenza Menni è volta alla creazione di una drammaturgia originale e di testi di riflessione estetica e filosofica. Si occupa della formazione dell’attore proponendo percorsi di lavoro che utilizzano i materiali del suo stesso percorso di ricerca. Il momento fondamentale che ha trasformato il suo modo di creare ha avuto inizio con i primi spettacoli di Teatrino Clandestino.

Vengo bocciata all’Antoniano. Cercavo una ragione. Forse perché mi mettevo sempre in discussione, mi lamentavo mentre le mie compagne sgomitavano, cercavo di esprimere pulizia nella recitazione, non sopportavo la retorica, preferivo andare in sottrazione. Nonostante questa notizia, insieme a Pietro e a Manuel (2) decidiamo di fare un cortometraggio in cui dovevo interpretare una donna in difficoltà. A un certo punto, questa piccola figura doveva fare un gesto, mettersi dei grandi occhiali da sole e qui andiamo al primo oggetto che vi ho portato, perché mi hanno chiesto di portare degli oggetti. Mi ricordo che in quel momento capii cosa significa il ritmo di un gesto. Mi si aprì un mondo, dissi: «Mai più senza la concezione del ritmo nel gesto». Dopo due giorni mi telefonano dalla scuola e mi chiedono di ripetere l’anno senza pagarlo. Sono tornata e le cose erano cambiate, avevo acquisito una sorta di “coraggio ritmico”. Stiamo parlando della fine degli anni Ottanta, dove il teatro di riferimento per me era ancora la prosa, ma c’era ormai un altro teatro. Fu il mio insegnante di regia il primo a parlarmene, mi disse: «Tu ragioni come ragionano i gruppi». E io gli chiesi: «Cosa sono i gruppi?». Mi fece l’elenco e così, finita la scuola, decidemmo di conoscere questi gruppi e andammo a vedere il Festival di Santarcangelo. C’era il Teatro delle Albe, Laurent Dupont, Ermanna Montanari, lì conoscemmo anche Enrico Casagrande e Daniela Nicolò, i Motus, con i quali abbiamo sempre avuto un legame speciale e discussioni anche molto accese sulle questioni etiche, formali. È in questo momento che decidiamo d’iniziare un percorso di creazione comune, così è nato il Teatrino Clandestino. Si chiama così perché è nato all’interno di un’occupazione a Bologna, un’occupazione tesissima, veramente estrema, eravamo clandestini anche all’interno dell’occupazione stessa. Ci fu dato uno spazio molto piccolo. All’inizio avevamo dei ruoli molto chiari, ruoli che aveva stabilito Pietro, regista, attrice, attore… abbiamo fatto cose bellissime insieme. I nostri spettacoli sono stati il frutto di momenti difficilissimi, si creava attraverso il contrasto e nel conflitto mi dicevo: «Non si deve continuare a lavorare in maniera conflittuale, non è solo attraverso il conflitto che si riesce a creare». Cominciavo a pensare in maniera diversa il ruolo del regista, per alcuni anni Pietro mi fece da maestro, perché era più ferrato di me. Il rapporto con la forma è un grandissimo lusso, direi fondamentale. Chiedersi continuamente «come posso trasformare le forme per continuare a portare avanti dei contenuti», è un lusso immenso e difficilissimo.

Elisa Callia D’Iddio e Massimo Giardino

Quel venerdì 17 settembre

Sovracoperta de “La scrittura scenica”, il libro di Giuseppe Bartolucci, pubblicato dalla Casa Editrice Lerici nel 1968.
Realizzazione di Magdalo Mussio

Agli inizi degli anni Ottanta esisteva ancora un mondo teatrale, dove luoghi accoglienti e persone profondamente partecipi dei mutamenti in corso nelle arti performative permettevano agli artisti alle prime armi di trovare uno spazio e relazioni nutrienti. Critici, studiosi, operatori, organizzatori, figure audaci e lungimiranti diventano, per alcuni, interlocutori irrinunciabili e sostegno. Per Enzo Cosimi, che rifiutava la divisione convenzionale tra teatro e danza, questa figura è incarnata da Giuseppe Bartolucci, critico e amico mai dimenticato.

Tornato da New York volevo mettermi alla prova. Non sapevo nulla, non avevo soldi: con me solo l’impeto, il fulgore e la passione. Avevo la voglia e la necessità di creare, volevo farlo con i miei amici, questa era la sfida, poi vinta: stava nascendo Calore (1982). Renato Nicolini, lo straordinario assessore alla Cultura del Comune di Roma, aveva proposto un progetto importante e singolare: il censimento del teatro. Naturalmente ci andai. All’appello potevano presentarsi tutti gli artisti, anche quelli completamente sconosciuti. Veniva offerto spazio, tecnica ed un piccolo rimborso. Ad accogliermi trovai uno dei curatori e programmatori della manifestazione: si trattava di Leo de Berardinis. Io, intimidito, chiesi la disponibilità di uno spazio. Lui rispose, in un napoletano che non saprei imitare: «C’è questo 17 settembre, di venerdì, che non lo vuole nessuno»… «Tu, lo vuoi?!»… «Assolutamente sì!» dissi. La data fu mia. Devo molto a quel venerdì 17 settembre. Dopo un inizio straordinario, le repliche si susseguirono. Mi avevano proposto uno scantinato all’interno di Villa Borghese, gelido a fine dicembre e rigorosamente senza riscaldamento. Ricordo ancora la consistenza del fiato mentre danzavamo in canottiera e mutande. All’inizio gli spettatori erano pochi, poi vennero Nico Garrone, padre di Matteo Garrone e critico de “la Repubblica”, Franco Cordelli che scriveva di teatro su “Paese sera” e Giuseppe Bartolucci. Uscirono due recensioni importanti sui rispettivi giornali e negli ultimi due giorni la sala si riempì: devo a loro la mia affermazione all’interno del panorama del teatro di ricerca. “Beppe” Bartolucci è stata una figura determinante per me. Era una specie di segugio: è lui che ha scoperto, tra gli altri, i Magazzini Criminali e Romeo Castellucci. In quegli anni, come consulente di teatro ragazzi, aveva un piccolo ufficio al Teatro Argentina, lì ci vedevamo ogni settimana, parlavamo di arte, creavamo immagini, viaggiavamo con la fantasia e ci ritrovavamo a ricordare quella New York che spesso ci ha visti uno accanto all’altro.

Emanuela Bauco e Tiziano Di Muzio

Incroci e cancelli

Copertina del numero 3/4 della rivista “Scena” (anno 1977) in cui appaiono Perla Peragallo ed un approfondimento sul Teatro di Marigliano.

Gli anni Sessanta furono il palcoscenico di una grande euforia delle arti, che si tradusse in rivoluzioni, scoperte, nuovi inizi. Eppure la definizione di questa nuova geografia portava in grembo la sua stessa fine. Questa è la testimonianza di Gianni Manzella.

Il duo composto da Leo de Berardinis e Perla Peragallo era anomalo non soltanto rispetto ai teatri ufficiali, che tutto sommato non andavo nemmeno a vedere, ma anche rispetto a quella che era la sperimentazione di quegli anni lì: entrarono a far parte di quella che si chiamava Scuola Romana, ma credo fossero altrettanto detestati anche in quell’ambiente. Quelli che poi abbiamo raggruppato sotto la definizione di “cantine romane” furono appunto i luoghi dove a un certo punto si decise di fare teatro. Qualcuno durò di più, qualcuno di meno, alcuni si affermarono, altri no. Come per una coincidenza, probabilmente, si ritrovarono lì a far parte di quello che solo dopo verrà chiamato il Nuovo Teatro Italiano. C’è una data di nascita? Direi di no. Io ne La bellezza amara ho scelto come data simbolica il 1959, perché è l’anno in cui debuttano a teatro Carmelo Bene, Carlo Quartucci e, se si vuole allargare lo sguardo, è anche l’anno in cui, in un lontano paese, debutta Grotowski. Sono gli anni del cosiddetto boom economico, in cui un paese agricolo uscito da una guerra disastrosa comincia a ricostruirsi. Ci sono grandi migrazioni interne che portano da sud a nord gli operai. Nei fatti, comincia la piena motorizzazione di massa. Nel 1960 sono previste a Roma le Olimpiadi, che sono in qualche modo un punto di arrivo della ricostruzione del paese. Si respira anche un clima di svago, testimoniato da tanto cinema. Nel 1966 esce sulla rivista “Sipario” un manifesto che prende atto del fatto che è successo qualcosa, che c’è qualcuno che sta facendo qualcosa di diverso dal teatro ufficiale, e decidono di incontrarsi tutti al Convegno di Ivrea del 1967. C’è Quartucci; ci sono Leo e Perla; c’è un italiano che è andato a lavorare con attori norvegesi in Danimarca, tale Eugenio Barba. Ma non nasce niente, semplicemente si incontrano. Ciascuno poi andrà avanti per la sua strada. Unica eccezione, si incontrano Leo e Carmelo Bene, e da quell’incontro nasce la scelta di fare uno spettacolo insieme, felicemente fallito. Così arriviamo al 1968, e la stessa spinta politica ed etica che si riversava sul teatro, in quel momento travolge ogni cosa. Smettono tutti di fare teatro. Smette Carmelo Bene. Si scioglie il Living Theatre, che pure era stato sulle barricate a Parigi: si spacca internamente e Julian e Judith se ne vanno in Brasile a lavorare sulle realtà delle favelas. Addirittura, se ne va Strehler dal Piccolo Teatro di Milano. E smettono anche Leo e Perla: definiscono il teatro fatto finora un errore, e lo sostituiscono con un film, A Charlie Parker. Dopodiché, in una sorta di migrazione al contrario, se ne vanno a Marigliano (Napoli), dove affittano una masseria appena fuori il paese. Qualche anno fa il redattore di una rivista mi propose di andare a vedere che fine avessero fatto le “cantine romane”. Il risultato sono fotografie di portoni. Quello che colpisce è il fatto che sono tornati tutti a quello che erano prima, laddove nessuno di questi spazi nasceva come spazio teatrale. Tornati a semplici cantine, ora sono solo cancelli.

Marta Marinelli

 

1) Simone Carella nel contesto teatrale romano è stato al tempo stesso un rabdomante e un alchimista. Ha scovato e preso per mano artisti, ha riconfigurato tempi e spazi per il nuovo, anche per le sue opere, ha sperimentato inedite modalità di creazione e di partecipazione, partendo dal Beat 72 fino alla piattaforma online e-theatre.
2) Manuel Marcuccio che insieme a Fiorenza Menni e a Pietro Babina ha fondato a Bologna nel 1989 il Teatrino Clandestino.