Nel Macello di Pietro Babina di Katia Ippaso

Teorizzando il teatro della crudeltà, Antonin Artaud ha fatto irrompere sulla scena del lettore e dello spettatore squarci anomali di ciò che è “spaventevole” e “numinoso”: il punto di luce sulla ferita, la retata di polizia, la paura, lo sguardo allucinato, l’atto che non si può storicizzare né rammemorare. È crudele, e autentico, dunque, quel teatro che non si mette a pontificare stando in posizione seduta e autoritaria, quel teatro che non sta dalla parte del santo, ma che si insinua nella mente criminale. Il teatro che si incendia da solo, insomma. L’indubbio merito di un’azione poetica come quella di Pietro Babina – che al Teatro Rasi di Ravenna ha mostrato il suo studio su Macello di Ivano Ferrari, coadiuvato nella drammaturgia da Jonny Costantino, accompagnato dalle immagini punk di Giovanni Brunetto (anche lui in scena) – è quella di aver creato una scena crudele, toccando la cosa che non si dice né si ricorda, ma che può compiersi solo nel dono e nello spreco di sé. Come trattare il tema della macellazione delle carni? Con quale voce, con quale corpo, si osa entrare nell’inferno delle bestie uccise, smembrate, pulite, contro-pulite, timbrate? La questione non è indifferente e ha ragione Babina ad accostare questa materia ruvida, sanguinolenta, che non vorremmo mai vedere da vicino, all’innominabile punto zero della Storia, i campi di concentramento. Ma andiamo per gradi. Partiamo dall’autore di quei versi magnifici, e terribili. Aveva 24 anni, Ivano Ferrari, quando entrò nel macello di Mantova. Era un rito d’iniziazione obbligato per molti lavoratori comunali che aspiravano a un contratto a tempo indeterminato. Era il 1972. Ne uscirà a 30 anni. Sei anni di visitazione quotidiana dell’orrore, che Ferrari ha avuto la forza di usare come primo nutrimento della sua scrittura in versi. Pubblicato nel 2004, il poemetto Macello, che trattiene gli odori, i lampi, le grida, le violenze dell’uomo sull’animale, è stato rieditato da Einaudi. Un testo che Babina, come la maggior parte di noi, non conosceva, e che dall’esatto momento in cui è finito sulla sua scrivania è diventato un punto d’origine, una soglia da cui ripartire, per rifondare i propri gesti sulla scena di questo mondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

«La mia scelta iniziale di lavorare su questo materiale si iscrive in un percorso sulla memoria sui campi di sterminio nazisti e sull’eterna domanda di come degli uomini, a noi del tutto simili, abbiano potuto compiere una tale mostruosità» spiega il regista e performer. «Leggendo Macello, ho visto non solo un’analogia nella produzione meccanica di morte ma, ancora più inquietante, la sensazione che questi luoghi, nel cuore delle nostre città, siano luoghi in cui si mantiene ardente, come brace sotto le ceneri, un’attitudine allo sterminio, che siano luoghi in cui il concetto di sterminio persiste come possibile normalità e che le nostre società siano organismi al cui interno pulsa anche questo: uno sterminio continuo al momento rivolto verso il diverso in quanto animale (cosa a mio parere non meno grave), ma che potrebbe da un momento all’altro mutare il suo soggetto di riferimento. La crudeltà e la sofferenza riservata agli animali sono identiche a quelle riservate agli umani discriminati. Tutto passa attraverso un pregiudizio più o mano raffinato, ma fortemente radicato nella nostra specie. La presunzione di essere detentori di alcune caratteristiche metafisiche che ci consentono di prevalere anche crudelmente su altri esseri viventi classificati di specie diversa (inferiore)».

Non è impresa semplice trovare il giusto punto di fusione chimica a questa materia concreta. Come far sentire le ultime preghiere delle bestie, i suoni ossessivi che escono dall’intestino del toro? Come mostrare le forche, le pistole e i coltelli, le albe rosse, i musi ossuti e «lo sguardo del vitello stupito d’essere ancora vivo»? Chi lo fa apparire «il boia dalle orbite verdastri»? Con quale tono di voce apparecchiare sulla scena l’animale appeso, «il sacrificio della crocifissione», «la carne morta ricamata da quelle sinuose presenze che gli altri chiamano larve»? «Sventrate intere famiglie / oggi / lunedì di intensa macellazione. / Una vacca ha partorito un vitello / negli occhi la paura di nascere/ il foro in mezzo il nostro contributo a tranquillizzarlo». Questi versi come possono essere tradotti in un’altra lingua? La strada scelta da Pietro Babina e Giovanni Brunetto si nutre di una ricerca singolare. Brunetto monta le sue fotografie in un video che vira verso il rosso e il nero. Babina sceglie la tuta del macellatore per strapparsela di dosso, in cerca di una lacerazione. Il suo gesto è disperato, sincero il suo desiderio di aderire alla carne del testo. Ma la lingua della performance è difficile, spuria, inconscia. Così come lo è la poesia. Non esistono regole se non quelle dettate dall’esattezza emotiva. Nell’esibizione che di sé fa Babina ci è sembrato di percepire uno sforzo di troppo, un eccesso della volontà. Siamo dalle parti di quel teatro del gesto e dell’urlo che lascia poco spazio al silenzio terrifico della “cosa”. Quindi, se nobile ci è apparsa tutta la ricerca e la poetica che sta dietro a Macello, lo spettacolo non riesce a consumarsi in quel gelo conoscitivo che la lettura assicura e produce. Ma uno studio non finisce mai veramente, specialmente se si mette in campo un materiale così importante. E chissà che, nella ricerca di questa insopportabile verità, Pietro Babina non trovi una forma differente, una soglia ulteriore attraverso cui indagare questo crimine filogenetico, il peccato originale.

Macello

poesie di Ivano Ferrari
adattamento per la scena Pietro Babina e Jonny Costantino
regia Pietro Babina
visual Giovanni Brunetto
in scena Pietro Babina (voce e suono), Giovanni Brunetto (immagini)
produzione Mesmer, con il sostegno di Mismaonda-LabOratorio San Filippo Neri e Teatro Laura Betti di Casalecchio di Reno.

Visto in versione site specific nell’abside del Teatro Rasi di Ravenna il 25 gennaio 2020.