Balbettare con Emily: Ateliersi e Teatro Patalò di Enrico Piergiacomi

Foto di Dorin Mihai

L’udito è, di tutti i sensi, il più passionale
(Teofrasto, fr. 293, in Plutarco, Sull’ascolto, 38A1-2)

Così, perché tiepido sei e non freddo né caldo,
dalla mia bocca io ti vomiterò
(Apocalisse di Giovanni, 3.16)

 

Misurarsi con la poesia è forse una delle rare attività umane che hanno senso e distinguono la nostra specie dagli altri animali. Parlando in termini molto approssimativi, i poeti ci mettono in contatto con una bellezza assoluta che non si trova nella rassicurante realtà di ogni giorno, dove si è sempre storditi dal rumore e distratti dalla vista di qualcosa di orribile. Nello stesso tempo, però, la poesia non riesce a esaurire questo piano superiore e, dunque, finisce per essere un eloquente balbettìo. Praticare l’attività poetica insieme a uno o più poeti significa cercare di balbettare sull’abisso del bello.
Sarà di conseguenza un balbettìo a più voci quello che si cercherà di presentare con queste poche righe. Si ragiona, infatti, sui recenti lavori di due compagnie artistiche che si sono misurate con la poesia di Emily Dickinson e che, con la grazia e la timidezza caratteristica dei veri artisti, ne hanno isolato alcuni pensieri fondamentali.
Da un lato, abbiamo Emily. Il Giardino della Mente di Teatro Patalò (Isadora Angelini, Luca Serrani), ispirato agli Envelope Poems della Dickinson, ossia le 52 poesie che scrisse su buste da lettere senza destinatario, i cui contenuti si rivolgono dunque a tutti e a nessuno (ora pubblicate in Buste di poesia, a cura di Nadia Fusini, Archinto, Milano, 2017). L’attrice Angelini recita davanti a un leggìo illuminato dalla fioca luce di un abat-jour alcuni frammenti dai versi / dalle lettere della poetessa che periodicamente appende tra le maglie di una rete a proscenio che la separa dal pubblico. Viene così ritagliato il luogo della poesia e separato dal mondo della prosa, che la Dickinson cercò sempre di evitare consacrandosi fino alla morte alla sua attività poetica, guardando il mondo esterno da una finestra e quasi col telescopio. A causa dell’ambientazione semi-oscura, inoltre, noi sentiamo e vediamo a fatica l’attrice che evoca pensieri stupendi sulla morte, su un Dio indifferente ai casi umani, sull’avvicinarsi della fine o dell’Apocalisse, sull’amore che possono legare due anime distanti e che non hanno modo di toccarsi. Lo spazio teatrale di Emily. Il Giardino della Mente è insomma un simbolo vivente – una serra dove si dice “no” a tutto ciò che è banale e prosaico, facendo fermentare dei pensieri nel buio atroce della scena. Se infatti la mente è un giardino, come recitano molte poesie della Dickinson, ma soprattutto Within My Garden, rides a Bird (n. 500 della raccolta di Johnson), essa deve essere messa nelle condizioni di germogliare dentro una luce soffusa, affinché possa attirare al suo interno i versi/uccelli della bellezza. Ma Emily. Il Giardino della Mente è anche una riflessione sulla solitudine dell’artista. Del resto, la stessa rete che consente di ritagliare la serra della poesia è anche ciò che isola l’attrice dal pubblico o in generale dagli esseri umani. Le massime gioie estetiche si ottengono, così, a prezzo di un triste abbandono della società corrente.

Foto di Dorin Mihai

Il secondo lavoro che si ispira alla Dickinson è la lettura-concerto Non restare ferma nel vento di Ateliersi (con Fiorenza Menni e Giulia Formica). In realtà, la poesia dickinsoniana è qui letta insieme ai versi di altre quattro poetesse (Rupi Kaur, Alejandra Pizarnik, Claudia Rankine, Anne Sexton) in un contesto scenico molto diverso. Il pubblico si trova al centro tra l’attrice Menni che recita davanti a un leggìo e la percussionista Formica, che cerca di dare una traduzione musicale alle parole che echeggiano nello spazio. I versi delle quattro poetesse sono letti per invitare gli spettatori a pensare altrimenti, o a riflettere e agire fuori dagli schemi collaudati, lasciandosi attraversare dal messaggio di ribellione civile che essi veicolano. Gli spettatori sono poi invitati ad attraversare l’esperienza nel modo che preferiscono. Possono guardare Menni o Formica o entrambe, concentrarsi sulle parole o sulla melodia, distendersi a occhi chiusi per lasciarsi trasportare in forma semi-cosciente dai versi o concentrare lo sguardo sulla lettura a leggìo, e via dicendo. La Dickinson costituisce, tuttavia, una sorta di “nume tutelare” della rappresentazione. L’attrice  Menni interagisce di continuo, infatti, durante la lettura, con una pupatta realizzata da Francesca Ghermandi e che ha le fattezze della poetessa. Dickinson è perciò sempre presente sulla scena quale ispiratrice di ogni donna che intende ribellarsi. Le sue sono poesie da cui discendono altre poesie.
Si potrebbe certo insistere sulle differenze che separano i due lavori. A livello spaziale, ad esempio, Emily. Il Giardino della Mente raggiunge, attraverso la separazione dello spazio mediante la rete, una relazione più riflessiva tra attrice e spettatore, invitando il secondo ad abbandonare la prosa e a cercare la poesia che fermenta nel buio. Non restare ferma nel vento crea invece un’esperienza di tipo “immersivo”. Più che meditata, la poesia deve poter echeggiare come la musica della percussionista e rompere gli equilibri. O ancora, se il primo lavoro attua una contemplazione del farsi della parola poetica sulla scena, il secondo vi ricorre come un principio di rivoluzione civile. Continuare oltre significherebbe, tuttavia, fare un mero elenco di dettagli e aggettivi, in larga parte privo di significato. Ogni artista è infatti speciale, è un universo a sé che non può essere del tutto confrontato con un altro, perché differenti sono le intenzioni che lo fanno vivere.

Foto di Giovanni Brunetto
Foto di Giovanni Brunetto

 

 

 

 

 

 

 

Più interessante è, dunque, concentrarsi su ciò che questi due lavori hanno in comune, anzi sull’elemento più decisivo. Entrambi hanno l’ambizione di trasformare lo spettatore in puro udito: in un ricettacolo che possa accogliere la poesia della Dickinson con ogni fibra del corpo e ogni atomo della mente, in modo che possa nascere un’umanità più gentile e bella dell’attuale. In questo senso, i due lavori partono da un assunto pessimistico comune, che è però rovesciato in senso positivo. L’umanità è brutta perché sorda alla bellezza, manca della passione verso l’assoluto e la civiltà che la Dickinson ha saputo cantare con la sua “gola privilegiata”. D’altro canto, la bruttezza umana non dipende da un difetto intrinseco. Per ragioni storiche e metafisiche che varrebbe la pena indagare, l’umanità ha solo sospeso la sua capacità di ascoltare la musica del bello, che i versi di poetesse come la Dickinson sanno far riemergere dalla nostra intimità.
La poesia è per certi aspetti allora inumana ed esigente, come la divinità dell’Apocalisse di Giovanni – testo che sottende molti versi della Dickinson recitati sia da Ateliersi sia da Teatro Patalò. Essa respinge o “vomita” i tiepidi, ossia coloro che non hanno né la forza di seguire il bello e il suo alone dolce-amaro né la volontà di respingerlo e di abbracciare con passione il brutto o il male. In altre parole, la poesia respinge l’umanità semi-addormentata e tonta che conosciamo. Il teatro di Ateliersi / Teatro Patalò che mette in scena la poesia della Dickinson è di conseguenza altrettanto apocalittico, esige un rinnovamento spirituale che passa attraverso la musica e la parola poetica, tanto intensa da rasentare il silenzio. Se del resto un giorno dovesse giungere l’Apocalisse della bellezza, non sarà accompagnata da boati, scoppi e lamenti, bensì da sussurri e canti strozzati dallo sgomento.