Gender Bender. Festival di immaginari di Paolo Ruffini

La nota preliminare di questa diciassettesima edizione del Festival bolognese ci introduce a una complessiva idea di civiltà che si vorrà avere nel futuro prossimo, un affresco di sollecitazioni attraverso il quale monitorare possibili immaginari vicini, anzi decisamente propri ai temi del “genere” di cui si è fatto portatore; Gender Bender non da oggi, difatti, ma oggi con maggior forza, sembra voler ribadire che occuparsi di resistenze e di diritti significhi anche osservare il sistema pianeta e le sue fragilità, rivendicando la libertà di una soggettività mutevole, affermando una appartenenza, una scelta di campo in questo momento di rigurgiti neonazi e antisemiti o di sopraffazioni populiste e incivili manifestazioni di intolleranza. “Radical choc” è il titolo di quest’anno, una garbata provocazione che smonta preconcetti e abitudini di chi pensa al genere come esclusivamente a un universo della sessualità e non delle affettività. È un grimaldello, invece, per sovvertire le abitudini dello sguardo e del lessico e dei posizionamenti neocoloniali nei comportamenti (come nelle aspettative o nelle espressioni artistiche), radicale e “scioccante” – pertanto – per chi insegue la comodità delle tradizioni e le certezze dei ruoli, cooptati questi dai codici del Capitale e dalle sue derive autoritarie. Dentro l’alveo della tradizione, per esempio, si compie sistematicamente la violenza sulle donne: e questa violenza è uno dei sintomi o l’effetto della friabilità del terreno sul quale poggia l’ottemperanza alla tradizione? Una presenza emblematica al Festival è stata quella di Yasmeen Godder, coreografa-performer israeliana tra le più illuminate nel panorama internazionale, sicuramente una spigolosa creatrice di paradossi scenici di straordinaria bellezza che compendiano estremo rigore formale e un anarchico straniamento dei segni che vanno a configurarsi. Sempre con una attenzione estroflessa e al limite dell’analisi sociologica in quelle partiture coreografiche “liberate”, mai ombelicali, ogni suo lavoro sposta l’asticella del pensiero che una creazione d’arte dovrebbe attuare rispetto al tempo che viviamo, alle sue urgenze linguistiche e politiche. Due i lavori presentati, entrambi non nuovissimi ma poco frequentati dai palcoscenici italiani, entrambi innervati da una costruzione “dialettica” con gli spettatori, un tessuto cerimoniale che rende testimone e partecipe persino il corpo degli astanti.

Common Emotions andato in scena al Mercato Sonato (spazio ricavato da un ex mercato coperto) ha apparentemente una struttura frontale con la canonica divisione tra platea e palco (in questo caso allo stesso livello); sul fondo viene montato in diretta una sorta di sipario coloratissimo fatto di panni e pezzi di tessuto tenuti assieme da un incastro di strisce di stoffa, stesso territorio, due estremi dello stesso mondo, il nostro, qui non in conflitto tra un sud e un nord (o un est e un ovest) ma anzi uno rivelatore e l’altro più intimo, preparatorio, di un comune partecipare in continuo “ travaso” tra la certezza di un tempo al limite di futuro e l’incertezza di una giustizia. Come scrive Jonathan Safran Foer in Possiamo salvare il mondo prima di cena: «Non abbiamo il lusso di vivere nel nostro tempo. Non possiamo vivere la nostra vita come fosse solo nostra. Per i nostri antenati non era così, ma le vite che noi viviamo creeranno un futuro che non potrà essere annullato»; ed è l’attenzione, allora, a quella possibilità ulteriore che come individui dovremmo darci, tentare nuovi incontri, altre occasioni per guardare negli occhi l’”altro” e scoprire in loro noi. Siamo chiamati a partecipare, guardare, toccarci, più volte gruppi di spettatori superano il “divisorio” della platea unendosi ai danzatori i quali accudiscono l’improvvisazione e la meraviglia di un inaspettato protagonismo nella calibrata architettura di movimenti ordita dalla Godder. E se Common Emotions travalica lo spazio spettacolo nel diaframma di una forma che non è più soltanto spettacolo (bellissimo e rigoroso “aggregato” artistico), accompagnato da un modulare Stabat Mater che reitera la commozione di composizioni figurali al limite di un espressionismo visivo, quasi l’altra faccia di un’altra opera della stessa Godder Strawberry Cream and Gunpowder, dove l’innesco della violenza “ritagliata” dalla drammatica cronaca quotidiana sublimava deposizioni o lacerazioni di guerra, il secondo progetto presentato a Gender Bender dall’ensemble israeliano (presso il Teatro Laura Betti di Casalecchio sul Reno) ha l’afflato didattico di un incontro-decodifica della prassi e della composizione. Stereotypes Game vede Shuli Enosh e Ofir Yudilevitch smontare e rimontare alcuni passaggi di un “oggetto scenico” che ha come matrice il precedente spettacolo Two Playful Pink, dove due danzatrici enunciavano le deformazioni dell’esasperazione estetica incipiente (anche della bella forma nella danza nel primo decennio degli anni 2000) e mostrava una capacità rara di “avvertire” il dato politico di un discorso al femminile che, invece, qui serve per raccontare quali meccanismi stereotipati entrano nella rappresentazione e nel discorso sui corpi e come decostruirne l’efficacia. Col pubblico assiepato in semicerchio sul palcoscenico, a ridosso dei due danzatori-didatti, in Stereotypes Game ogni passaggio è rivelato proponendo un’altra prospettiva nelle divagazioni sull’interpretazione, accompagnando lo sguardo dello spettatore sui momenti della coreografia, sulle espressioni corporee e facciali che non sono mai fino in fondo ciò che sembrano. Anche il lavoro di Giuseppe Vincent Giampino rovescia la disamina di un codice che tanto usa le geometrie di un altro archetipo, ovvero il protagonismo di Nijisky in L’après-midi d’un faune. La parabola rovesciata moltiplica le figure, le neutralizza “sessualmente”, le libera come macchie di colore di uno stesso bianco “assordante” dello spazio attraversato e usato come posizionamento esplorativo; lo stesso nell’identico che il coreografo usa citando Malevich. Extended Symmetry è un altro bellissimo scandaglio coreografico, in questo caso simbolico ed “esacerbato” da una forma che cerca identità facendo i conti con un carico di memorie tutta novecentesca e non solo. Ugualmente in questo lavoro il disegno coreografico è sostenuto da una grande capacità di esposizione di danzatori capaci di coglierne il senso spaziante.

Gender Bender Festival, Radical Choc, 17° Edizione, Bologna, dal 23 ottobre al 3 novembre 2019.