Prima de Il signor Diavolo: il ventennio del giallo all’italiana di Carlo Alberto Biazzi

Avevo dodici anni, un sacco di idee e voti bassissimi a scuola.
Non posso farci nulla. Adesso, col senno di poi, ammetto che studiare non mi piaceva per niente.
Però, ecco, le idee c’erano. Ed erano davvero molte.
Ho sempre avuto, poi, una particolare propensione per i misteri. Già da piccino, mi inventavo giochi che riguardavano mondi inesplorati e segreti. Mi incuriosivano le case abbandonate. Avevo una paura fottuta, ma niente… io dovevo, ad ogni costo, andare a indagare l’impossibile. E povera mia madre, che tra un Fish & Crock da cucinare – tra l’altro, mica erano croccanti – e la pazienza di farmi fare i compiti, cercava di capire il perché non fossi interessato a cose normali: per esempio il Lego, o, che ne so, fare le bolle con il Crystal ball.
Questa mia “inclinazione” verso il mistero, portò mia madre, forse estenuata dalle mie fantasie, a raccontarmi di un film che le era piaciuto molto. Presa da una particolare esaltazione, iniziò a mimarmi una delle scene clou della pellicola. Che posso dire? Rimasi talmente colpito che, non appena mi svelò il titolo, mi recai in videoteca.
Nei vecchi negozi di videocassette, il genere “da adulti” era solitamente collocato nel retro, giusto perché la maggior parte dei film erano vietati ai minori di 18 anni.
La proprietaria del negozio, amica di mia madre, nonostante un primo accenno di titubanza, mi fece passare senza problemi. Eh, le conoscenze… è così che funziona in Italia!
La stanza era piccola, intere pareti di film, poca luce e un intenso odore di vecchio. Pochi ricorderanno il profumo di videocassetta e dei rivestimenti in plastica delle custodie.
Ecco quel film! Ce lo avevo tra le mani. Me la facevo sotto per le immagini presentate in copertina, ma mica potevo abbandonare la partita… a dodici anni volevo già essere coraggioso.
Timbrai la tessera del noleggio e, con la videocassetta sotto al braccio, salii in macchina.

Mia madre mi guardava incerta. «Avrai paura…» mi disse.

Non replicai, dovevo fare il duro.

Cavolo se aveva ragione! Mentre le inquietanti immagini di Profondo rosso scorrevano sorrette da una colonna sonora da brivido, io seguitavo a chiudere gli occhi.
Ma c’era qualcosa in quel film. La sceneggiatura, le luci, gli attori, le trovate geniali. Qualcosa che non poteva essere casuale.
Così mi misi a cercare, la mia passione per il cinema era già molto forte, e con gli anni mi feci una bella cultura di quello che è considerato il Giallo all’italiana. Un filone forte, durato un ventennio, all’interno del quale sono passati registi più o meno noti, che hanno creato delle perle rare, studiate, invidiate e fonte di ispirazione in tutto il modo, Tarantino compreso.
Il genere nasce ufficialmente nel 1964 con il film Sei donne per l’assassino. La regia è di Mario Bava, un genio assoluto, inventore dell’horror gotico, sempre all’italiana.
Ma che cos’è esattamente il Giallo all’italiana? Detto anche thrilling in campo internazionale, è stato un  filone cinematografico nato in Italia negli anni Sessanta e sviluppatosi poi negli anni Settanta, con caratteristiche diverse rispetto al filone classico cinematografico: il genere, infatti, mescola atmosfere thriller e temi tipici del cinema dell’orrore e non preclude derive slasher tipiche dell’exploitation.
Infatti, Sei donne per l’assassino è stato ispiratore assoluto dei primi film di Dario Argento. L’assassino vestito di scuro, senza un volto, con guanti neri, sarà uno dei topoi classici del genere. Altri elementi innovativi sono: l’introduzione del body count, cioè la lunga sequela di omicidi, il sadismo dei delitti e le diverse modalità con cui vengono svolti. 

 Il fascino del male, raccontato nei film di Bava, è spesso supportato da un intenso studio dei trucchi cinematografici, talvolta curati dal maestro truccatore Francesco Freda. Da ragazzino, leggevo il suo nome nei titoli di testa e provavo a spiegarmi come venissero realizzati. Mi sembravano una magia, nonostante l’epoca. Vorrei ricordare l’invecchiamento in diretta di Gianna Maria Canale nel film I vampiri, realizzato da Freda, una vera e propria innovazione per il periodo, e stiamo parlando del 1957.

Ma il vero promotore del Giallo all’italiana è senza dubbio Dario Argento, che codifica definitivamente gli stereotipi del genere a partire dall’inizio degli anni Settanta.
È con la Trilogia degli animali che il pubblico italiano si avvicina a questo genere, iniziando a considerarlo come cinema di qualità. Argento, con i suoi L’uccello dalle piume di cristallo, Il gatto a nove code e 4 mosche di velluto grigio, rimoderna la tecnica e lo stile di Bava, riscuotendo un grandissimo successo negli Stati Uniti e favorendo in patria un prolifico fenomeno di imitazione.
Il thrilling assume una connotazione sempre più violenta. L’intenzione è quella di far partecipare in qualche modo lo spettatore al delitto, tramite gli occhi stessi dell’omicida, utilizzando a tal fine una tecnica cinematografica abbastanza innovativa per l’epoca, detta soggettiva, in cui la posizione della macchina da presa coincide con la stessa visuale di chi compie i delitti.
Alcuni titoli degni di menzione sono: La tarantola dal ventre nero, Cosa avete fatto a Solange?, La corta notte delle bambole di vetro, Chi l’ha vista morire?, Una farfalla con le ali insanguinate, Il gatto dagli occhi di giada, solo per citarne alcuni.

                                              

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Nei primi anni Settanta, si ha un vero e proprio boom del thrilling: solo tra il 1971 e il 1972 vengono girati e distribuiti nelle sale oltre trenta film appartenenti al filone, diretti da tutti i maggiori registi italiani del cinema di genere.
Nel 1975, sempre Argento, realizza Profondo rosso, che ottiene a livello internazionale un enorme successo, ed è considerato, da critici e fan, il risultato più riuscito del thriller all’italiana.
Nello stesso decennio, Lucio Fulci, futuro maestro del gore italiano, gira contributi di indubbio valore come Una lucertola con la pelle di donna, Non si sevizia un paperino e Sette note in nero.
E poi Pupi Avati, a mio avviso grande maestro del cinema, nel 1976 dirige un film di enorme successo: La casa dalle finestre che ridono, un film rurale, ambientato nella provincia emiliana, con alcuni nuovi e terrificanti cliché.
Dopo il capolavoro di Avati il genere subisce un cambiamento. Quelle atmosfere tanto care al genere iniziano a sfociare nell’horror, in fiabe nere che parlano di occulto, di streghe, di demoni. Sul finire degli anni Settanta c’è un grande cambiamento. Si definiscono addirittura sottogeneri denominati cannibalici ed esotici.
Il film di punta del periodo, consacrato a livello internazionale, e motivo, ancora oggi, di grande studio è sicuramente Suspiria. Argento fa ancora centro e confeziona un capolavoro che, in qualche modo, richiama il genere gotico inventato dal suo grande maestro Bava. Luci colorate, musiche soverchianti, ombre, recitazione cupa, rendono il film una delle icone internazionali, al pari di altri grandi film che hanno consacrato la settima arte. Fondamentale l’apporto di Luciano Tovoli, grande direttore della fotografia mondiale. Grazie ad alcune sue intuizioni, le immagini di questa pellicola senza tempo sono ancora ricordate e apprezzate. A me colpirono talmente tanto che ogni volta che leggevo nei titoli di altri film il nome di Tovoli mi saliva un brivido.
Figuratevi, poco tempo fa ho avuto l’onore di lavorare sia con lui che con Freda per un mio cortometraggio. Un’emozione grandissima.

Con l’arrivo degli anni Ottanta e la nascita negli Stati Uniti di un nuovo modo di fare cinema thriller, il genere ha quasi smesso di esistere. A parte i film di Argento, sono poche le incursioni nel genere degne di essere menzionate. In Italia, come accennavo prima, partì un sottogenere, definito gore, molto spesso girato con pochi mezzi e di scarsa influenza mediatica. Diciamo che questo nuovo filone cinematografico fu più apprezzato all’estero che in Italia. Se Argento ha proseguito la sua carriera di Master of horror, con prodotti scarsi dalla seconda metà degli anni Novanta e Fulci ha seguito la scia dello splatter, l’incursione di Avati nel genere è stata molto centellinata nel corso della sua lunga carriera. Pochi prodotti, ma di estrema, e sottolineo estrema, qualità.
Il suo primo esperimento fu, appunto, La casa dalle finestre che ridono. Un film angosciante, con un colpo di scena finale magistrale. L’idea vincente di Avati fu quella di trasformare la bassa padana, tranquilla e con “diversi scheletri” nell’armadio, in un teatro ideale per l’ambientazione di un mystery. E la paura scaturisce proprio da qui. Se nei film di Argento, o di chi ne ha seguito la scia, le ambientazioni, seppur attendibili, sono camuffate da un impianto scenico ben costruito, nei film di Avati i personaggi si muovono in un ambiente in cui lo spettatore si immedesima, proprio perché si parla del quotidiano. Dialetti compresi.

L’esempio lampante lo si trova nel suo secondo tentativo, anche questo magicamente riuscito, del 1983: Zeder. Un horror formidabile, geniale, dove i terreni K possono riportare in vita i morti. E dove si trova il terreno descritto nel film? A Milano Marittina, dove la gente va in vacanza, dove d’estate i bagni si popolano di persone in cerca di relax. E poi la location principale, una vecchia colonia che si può ancora ammirare, vicino a Lido di Savio. Luoghi comuni, vicini a noi.

Dopo parecchi anni di assenza dal genere, Avati torna sul grande schermo nel 1996 con L’arcano incantatore, un horror ambientato nel 1700. Un film poco famoso, ma a mio avviso molto interessante. Anche in questo caso, il regista ripropone al pubblico i suoi famosi cliché, rielaborandoli in chiave d’epoca.
Ma il ritorno al thriller arriva soltanto undici anni dopo con Il nascondiglio. Un bel film, il solito terrore sottile, voci riecheggianti e sinistre, ma ambientazione diversa. Infatti, invece della sua amata provincia, Avanti opta per gli Stati Uniti.
Il 22 agosto 2019 è uscito il tanto atteso Il signor Diavolo, tratto dall’omonimo romanzo dell’artista bolognese. Già da giugno scorrevano in rete commenti di critici e fan che non vedevano l’ora di vedere il nuovo film. Già da mesi si poteva ammirare l’agghiacciante trailer del film. Si aspettava il grande ritorno, in grande stile. Un noir nero, che più nero non si può, a metà strada tra La casa dalle finestre che ridono e Zeder. Le incursioni di Avati nel genere, come dicevo prima, sono state rare. Poche ma buone. Sentite più che altro, mai a caso, sempre con una sceneggiatura spiazzante, un’idea di base maturata negli anni.
Le sue opere hanno cavalcato decenni differenti. Il primo, un giallo a tutti gli effetti, ha seguito l’onda degli anni Settanta. Il secondo, un horror zombesco, uscito nei primi anni Ottanta, ha accompagnato il cambiamento del genere. Il terzo è degli anni Novanta, periodo poco proficuo per gli horror d’autore, e infatti è il suo film meno conosciuto. Il quarto nel 2008, quando c’è stata una leggera ripresa del genere in America.
Il signor Diavolo delude? Sono sincero: mi sono approcciato a questo film tanto atteso, convinto di rivedere quell’Avati che mi aveva fatto tanto sognare, quell’Avati che aveva cambiato le regole e aveva creato un suo genere. Sono uscito dal cinema amareggiato. L’opera, però forse, delude chi ha aspettative, delude chi si approccia a questa pellicola, pensando di ritrovare i vecchi cliché tanto amati.
A mio avviso, questo non è un horror. È un film nero, uno spaccato di storia italiana infarcito di dettagli macabri. L’idea è simile a un suo altro film: Il papà di Giovanna. Qui, il regista aveva raccontato una atroce storia familiare, il delitto di una minorenne, un padre straziato dal dolore, una guerra. L’aveva descritta con una fotografia cupa, tanto scura da farla sembrare quasi un thriller.
In questo caso è la stessa cosa.
La storia si svolge nell’Italia democristiana del 1952, quando un inquietante caso di omicidio nel cattolicissimo Veneto scomoda il Ministero di Grazia e Giustizia. L’omicida è il quattordicenne Carlo Mongiorgi, la vittima è un altro adolescente, Emilio, deforme, figlio di una ricca signora: si dice abbia sbranato a morsi la sorellina appena nata. Carlo lo avrebbe ucciso scambiandolo per il demonio, perché «nella cultura contadina il diverso e il deforme vengono associati al demonio».
La fotografia di Cesare Bastelli spiazza. È qualcosa di straordinario, forse la parte più interessante. Richiama molto La casa dalle finestre che ridono con una perfetta descrizione delle campagne venete e una raffinata e oscura visione della storia.
Il signor Diavolo, nonostante non sia in linea con le vecchie regole dell’horror all’italiana, nasconde in sé particolari pregi. Non “fa paura”, questo si, ma racchiude in sé una dimensione storica non del tutto indifferente. Racconta la sacralità di quel tempo, le dicerie, le superstizioni, le paure inconsce che trasmetteva la chiesa, sempre messa al primo posto nella quotidianità delle persone.
È qui che vuole puntare Avati: sicuramente ricordarci la campagna de La casa dalle finestre che ridono, con le sue chiesette, i suoi preti, i suoi misteri, ma altresì riportarci a un periodo ben specifico che lui stesso ha vissuto in prima persona.
Distaccarsi dalla solita commedia che, ormai, invade i cinema italiani, e puntare su un ritorno in grande stile del film d’epoca, per ricordarci da dove tutti noi proveniamo.
E se a me stesso chiedo, appunto, se Il signor Diavolo delude, beh no!
Bisogna solo essere in grado di vedere l’orrore non solo attraverso le immagini, ma anche interrogandoci e scoprendo quella parte oscura che tanto tendiamo a nascondere.