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Visioni del mondo, incontri, idee di teatro - Parte seconda

di Antonio Attisani

 

Passo ora a un episodio recente nel quale sono venuti a galla alcuni di questi nodi e che dimostra l'attuale imprescindibile intreccio di problematiche comuni a differenti discipline.

In passato avevo esagerato nell'utilizzare il termine ‘evento' fino a porre in esergo a un mio libro ( L'invenzione del teatro , del 2003) una massima prelevata da Gilles Deleuze, questa: «Fare un evento, per quanto piccolo sia, è la cosa più delicata del mondo, il contrario di fare un dramma, o di fare una storia» (1). Ora vorrei chiarire cosa significasse per me allora quell'espressione e perché a un certo punto mi sia reso conto che il termine è fuorviante, seppure non in tutte le circostanze, come vedremo.

La necessità di questo chiarimento è dovuta al riferimento all'evento nell'accezione di Alain Badiou da parte di alcuni amici e colleghi che mi hanno coinvolto in un progetto di studio sull'arte come veicolo. In una prima bozza di presentazione del progetto il filosofo francese era indicato come «il nostro principale punto di riferimento» con la seguente spiegazione: «Intendiamo Evento soprattutto per la funzione che ha nella filosofia di Alain Badiou e in particolare nei suoi libri L'Être et l'Événement e Logiques des mondes. L'être et l'événement, 2 . Per Badiou, l'Evento non appartiene allo stato delle cose ma piuttosto all' essere come atto che dà inizio alla procedura veritativa emergente dall'Evento. Secondo Badiou, arte, amore, politica e scienza sono altrettanti contesti nei quali tale procedura è possibile e crea le condizioni per il perseguimento di una verità filosofica. Nella nostra visione l'Arte come veicolo conferma e illumina la tesi di Badiou».

Chiunque sia minimamente informato sul teatro contemporaneo sa che il termine ‘evento' era ed è utilizzato per distinguere il lavoro teatrale dallo spettacolo inteso come entertainement o parata di idee, vale a dire per indicare una vocazione originaria delle arti dinamiche in quanto lavoro su se stessi che trova il proprio compimento nell'incontro e nel confronto con le piccole comunità transitorie degli spettatori. Dunque siamo d'accordo sull'essenziale (e in questo senso apparentemente anche con Badiou), però vorrei motivare il mio radicale dissenso sull'impiego di questo termine per due motivi. Innanzitutto perché il deleuziano «fare un evento» opposto al «fare una storia» è qualcosa di molto diverso da come lo intende Badiou, secondo il quale la Storia (d'ora in poi le maiuscole sono sue) si dovrebbe fare attraverso una successione di eventi virtuosi che condurrebbero all'evento supremo: la rivoluzione comunista. Il filosofo francese cita in proposito una sequenza di fatti storici che vanno dalla rivolta di Spartaco alla Rivoluzione Culturale cinese e ritiene che il comunismo, malgrado i suoi esiti storici, definiti sbrigativamente «esperienze nefaste», costituisca una «ipotesi regolatrice» tuttora necessaria se si vuole che gli esseri umani riescano a orientarsi in un processo di emancipazione.

Separare l'Idea comunista dai suoi esiti storici è l'imperdonabile abbaglio di una filosofia incapace di riconoscere come significato e valore di un'idea consistano negli effetti che produce. Per questo la discussione sul termine non rimanda a una insignificante controversia terminologica. Il comunismo è per Badiou una « Idea vera sempre », nel senso specifico conferito a termini così impegnativi (2), mentre nella prospettiva qui delineata è soltanto un'idea sbagliata finché resta un argomento di conversazione nella confortevole casa della nostra ‘impropria democrazia' (3) e diventa una pura e semplice istanza criminale quando diviene azione e giunge al proprio compimento.

Il secondo motivo nasce da un'attribuzione di significato più convincente. In questo senso il riferimento è di nuovo Sini, il quale argomenta che «un evento accade attraverso continue modificazioni preventive che non sono in potere dei miei discorsi; essi piuttosto ne dipendono. Inoltre non posso usare le categorie nate all'interno di questa pratica per descrivere questa pratica medesima e così discorrerne e comprenderla nella sua verità evenemenziale [enfasi mia, ndr ]. Non posso dire che l'ovicultura è l'effetto dell'azione di una grande gallina primordiale, immortale ed eterna, o di un grande e mitico ovicultore. O meglio: posso benissimo dirlo; anzi, questo modo di discorrere e immaginare lo frequentiamo tutti, ritengo, molto spesso. Ma è proprio così che scopriamo che tutti i significati e il loro senso complessivo, risultando veri solo all'interno dell'evento di quell'intreccio di pratiche che dà loro vita, sono nel contempo in errore fuori dalla loro figura di verità, cioè fuori dal loro metamorfico senso. Sono veri nella loro specifica ‘atmosfera', nella loro ‘aura' oviculturale. Ma non possono, per così dire, decidere in assoluto della loro verità; cioè, non possono evitare che essa muti, sia per il mutare degli intrecci di pratiche che vi sono sottesi, sia per le conseguenze che nascono dall'esercizio stesso delle loro verità» (4). Possiamo chiederci allora se l'esempio dell'ovicultura e della gallina potrebbe essere sostituito da altri, magari da quello del teatro e dell'attore.

In passato il sottoscritto, sempre tallonando Deleuze, spostava l'accento dall'opera all'evento, ossia al performare, citando tra gli altri Paul Valéry: «C'est l'exécution du poème qui est le poème», ovvero: il teatro è la performance del teatro. Il poeta stesso rimanda tutto alla performance, forza passeggera e decisiva in quanto espressione che sollecita biopoieticamente lo spettatore. Se dunque «l'oeuvre de l'esprit n'existe qu'en acte», anche qui non c'è alcun evento poiché «un poème est un discours», discorso che sviluppa il proprio ‘oltre' per mezzo di un corpo e di una voce, è una composizione «qui exige et qui entraine une liaison continue entre la voix qui est et la voix qui vient et qui doit venir». La voce, ovvero il performer cantato dal canto, agito dall'atto, sempre autore della scelta tra le molte possibilità espressive offerte in potenza dall'enunciato poetico.

Aggiungo una non secondaria parentesi: tutto ciò si accompagna alla consapevolezza che comunque l'opera poetica può essere apprezzata soltanto sulla base di convenzioni condivise (contesto relazionale), poiché la conoscenza autentica (e lo stesso potere del discorso), come precisava già Aristotele, scaturisce da una «conoscenza precedente» dello spettatore, basata sull'esperienza di vita (il suo discorso-pregetto, potremmo dire) (5). Tale conoscenza non è un evento assimilabile alla memorizzazione di una lezione. Il fatto che ogni interpretazione sia di fatto una reinterpretazione e che per interpretare bisogna aver già interpretato, è nella filosofia moderna ribadito da autori di riferimento quali Nietzsche, Peirce e Heidegger. Badiou fa spesso ricorso a Heidegger, ma non a proposito del discorso, se non sbaglio, e certo non nell'accezione che per noi è alternativa a evento.

 

Un passaggio decisivo dall'opera come predicazione delle idee all'evento come azione consapevole e composta era da me segnalato come prodottosi a partire da Francesco d'Assisi (il quale sosteneva che si può anche predicare, ma ciò che conta è fare, ad esempio la giustizia), figura che segna un punto di svolta e un grandioso fallimento nella cultura dell'Occidente. Ma, insisto, il termine era sbagliato perché il performare è una espressione e pur rimandando a intenzioni e significati da storicizzare si manifesta nel corpo vivente, cioè – come s'è detto – si mostra nella differenza tra il proprio movente consapevole e il proprio essere lì, in azione davanti a qualcuno. Essendo l'esprimere e il mostrare forme del discorso, dovremmo abbandonare l'idea corrente di riferirci con qualunque tipo di discorso a ‘cose' o a eventi ‘reali'. Ne consegue che «se l'esercizio del discorso, in tutti i meandri delle sue credenze, dei suoi desideri, bisogni, pretese, timori e così via, è la premessa e il terreno di coltura di ogni ulteriore sapere, l'analisi del discorso è il campo di lavoro della filosofia » (6). Se questa è la funzione peculiare della filosofia si devono trarre due conseguenze: «1) qualunque sapere e pratica non può fare a meno di interrogarsi ‘filosoficamente' sul proprio discorso, eventualmente ma non necessariamente in dialogo con i filosofi; 2) ogni altro sapere, disciplina e pratica […] deve definire la propria funzione contestualmente al discorso che la articola» (7).

Per un chiarimento risolutore sulla centralità del discorso possiamo citare lo Zarathustra , uno dei testi più influenti per gli artisti teatrali del secolo scorso: «Da molti giorni Zarathustra stava in silenzio. Silenzio! Parla la mia verità. [ Still! Meine Wahrheit redet ] La verità del discorso, nel discorso. La verità è il discorso . Zarathustra entrò in scena, davanti alla folla, con il proprio corpo. Parlò sulla scena. Dalla scena Zarathustra parlò. Parola. Suono. Suono di parola. Danza-Parola-Suono . Per molti giorni Zarathustra era stato in silenzio, ma quando il silenzio fu pieno di parole, Zarathustra parlò, e parlò il discorso del tamburo…» […] «Al termine del discorso di Zarathustra, in un silenzio carico di presagi, si levò un invito da un uomo nella folla: “E ora, o sapiente, tu, conoscitore di te stesso! Danza per noi!” E Zarathustra ai suoi uditori: “O uomini, che incerti poggiate i vostri piedi sugli incerti sassi di questo fiume, non vi è ancora chiaro che il mio discorso, già parola e musica, è per questo e proprio per questo danza?”».

Il teatro conferma dunque che il discorso è da intendersi come espressione d'esistenza che comprende, motiva e articola l'esperienza, e le parole di cui è composto sono cose. Il discorso è una messa in forma ‘performata' con il fine di persuadere e colui che è persuaso si trasforma; è una tessitura di ‘parole', una interpretazione alla quale rimanda ogni dato di fatto; è l'azione strumentale del corpo vivente. E non può essere trattato come qualcosa che sta tra noi e il mondo perché noi siamo il mondo, pertanto ogni modo del discorso è un attore, un organismo vivente nel quale realtà e verità si corrispondono in via transitoria.

Se davvero ciò che ‘noi' chiamavamo «evento teatrale» è un discorso contagioso che si sviluppa nella possibilità, nella libertà e nella responsabilità del contagiato, possiamo ripensare serenamente all'(ab)uso del termine per indicare l'artistico (il poietico) distinguendolo dalla comunicazione e riconoscere che si potrebbero utilizzare di volta in volta termini come ‘fatto', ‘accadimento', ‘cosa', ‘atto', ‘spettacolo', ‘rappresentazione' e, perché no?, come fa lo stesso Sini, persino ‘evento'! Lo stesso può avvenire per il termine ‘discorso', liberandolo dall'inflazione di significato di cui è oggetto, quando si riferisce strettamente all'espressione verbale oppure a una disposizione concettuale anziché all'espressione gnosico-patica. Inoltre, nel rivolgere l'attenzione all'evento performativo, sarà importante distinguere tra processualità mimetica, poiesis , e ricezione mimetica (gustazione) (8).

Non intendo affrontare qui il tema, assai meno appassionante, della concezione del teatro come evento secondo Badiou (9) e mi limito a concludere che mentre il filosofo francese assegna al teatro un valore veritativo (10), Sini opera in senso diametralmente opposto, qualificando come teatrale la modalità di ogni sapere, incluso quello filosofico. Per Sini qualsiasi forma di conoscenza risulta da pratiche di rappresentazione che (con)figurando il mondo lo dotano di senso e consentono di abitarlo in accordo al ritmo vivente dettato da queste pratiche, invitando a danzarlo nella reiterazione delle stesse.

Per quanto riguarda il presente, ovvero la comprensione da attivare, è di grande utilità meditare sull' ‘origine' del teatro come composizione delle arti dinamiche, il cui esercizio rituale, progressivamente de-generato nelle istituzioni teatrali, ha prodotto le comunità dei primi uomini consapevoli di essere mortali, fondandone il diritto, scandendone il tempo e indirizzandone il destino (11). Le origini però, nel momento in cui sono ‘riscoperte', vanno anche consapevolmente superate. Per esempio la distinzione aristotelica tra virtù dianoetiche, riferite alla ragione discorsiva o conoscitiva, e virtù etiche, riguardanti l'attività pratica nel progetto politico, è annullata dalla coincidenza di etica ed estetica nel discorso (performativo). Mentre la proposta di Badiou rimane ancorata alla metafisica e pertanto è accecata (anche politicamente) dall'inganno oggettivante dell' Idea , il «pensiero delle pratiche» proposto da Sini orienta l'attenzione sul performer e la sua scena ‘discorsiva'. La filosofia, in quest'accezione, non è il tempio della verità da realizzare, ma un «imparare a stare nei saperi , facendone il punto e il luogo essenziale della formazione generale e ‘radicale”' di tutti i sapienti» (12).

Non si può in alcun modo solidarizzare con una ideologia che si presenta come festosa, raffinata e popolare, e invece è naïf e criminogena. Eppure è questo che avviene, nella filosofia alla moda. Ne discuto soltanto perché essa è molto ben articolata in molteplici istanze di palingenesi e perché oggi è utilizzata come un salvagente da coloro che, invocando la giustizia sociale, la ritengono impossibile in democrazia e concepibile soltanto nell'ambito di una resurrezione comunista. Ciò detto, dobbiamo riconoscere anche come essa funzioni in quanto animata chiacchiera che smuove un terreno di coltura, alimentando una domanda che merita risposte più consistenti.

Un ultimo esempio di pensiero in divenire applicato a temi ‘precedenti': è capitato di recente che si tenesse un incontro dedicato al pensiero di Karl Marx, a partire da un preciso testo, tra Mechrì e il gruppo guidato da Mario Biagini. Senza la pretesa di restituire il pensiero degli altri, la prospettiva filofisica qui tratteggiata mi ha permesso di considerare tali questioni in un modo diverso dalla supponente ‘terza persona' che dominava in passato.

Tutti sappiamo che la teoria marxista deve essere ripensata alla luce delle nuove forme di produzione e di assetto sociale, nonché di nuovi strumenti interpretativi come la biopolitica, l'antropologia, la psicanalisi, il femminismo e l'ambientalismo, ma finora non mi era parso così chiaro come la logica implacabile di quel grande narratore che è Karl Marx fosse non solo ‘sovrastrutturale' rispetto alle condizioni materiali dell'Ottocento, ma risulti straniata e superata da un esame dei suoi devastanti riscontri storici. Le cose dette finora rendono più leggibile la nuvola di possibilità che sta tra il marxismo e il comunismo realizzato.

Nel corso del suddetto incontro mi ripetevo che la critica rivolta da Marx al capitalismo e al dominio borghese è logicamente e diabolicamente persuasiva. Presa alla lettera, condurrebbe a un'impotenza lamentosa, se non alla morte civile, degli altri o propria, ovvero non potrebbe che avere un esito nichilista. In effetti Marx rifiuta di tirare le implacabili conclusioni implicite nella parte critica e completa la propria visione con alcune fantasie politiche, profetizzando che la società capitalistico-borghese si distruggerà da sé oppure conoscerà una Redenzione per opera del proletariato, o meglio di coloro che lo evocano e lo dispongono in una dottrina, come facevano allora lui ed Engels e come avrebbero fatto i loro più accreditati successori, da Lenin e Stalin a Mao a Pol Pot e oltre. Marx se la cava – a me sembra – con una utopia piuttosto confusa e oscura, fattrice degli esiti che conosciamo, tant'è che Carlo Cafiero, pur esegeta e divulgatore del Capitale , definì il progetto di mondo marxista, anzitutto in quanto incentrato su uno Stato onniproprietario e dunque onnipotente, «una autentica assurdità reazionaria». Cafiero, il primo comunista-anticomunista, finì con il tramutare questo paradosso in un disagio mentale che lo avrebbe condotto a una triste fine personale.

Noi potremmo ripartire dalla considerazione che capitalismo e alienazione non sono un male in sé, lo diventano allorché l'alienazione – il produrre oggetti esterni a sé, l'oggettivazione, in sostanza ciò che fa di un uomo un uomo – diventa estraniazione, cioè riduce il lavoratore a strumento. Infatti il linguaggio, il più caratteristico strumento umano, non può che essere alienato. La stessa cultura è una sorta di alienazione volontaria, decisa, guidata. Soltanto una educazione transdisciplinare può consentire a ognuno di concepire (o almeno desiderare) il proprio lavoro-gioco e articolare una conseguente strategia per affermarlo come ‘teatro' offerto al mondo.

Non potevo fare a meno di pensare, durante quella riunione e dopo, che confrontando capitalismo e comunismo alla luce dei rispettivi esiti storici, nonché dei cambiamenti del mondo e delle forme di coscienza, riconoscendo che parte integrante delle rispettive dynamis è una possibile legittimazione di logiche oppressive, estranianti appunto, dovremmo chiederci se è possibile il salto a una terza forma di organizzazione storico-sociale oppure se si debba tentare di correggere una delle due. A me, come a molti altri, credo, sembra ormai definitivamente dimostrato che sia impossibile umanizzare il comunismo inteso come sistema da imporre all'intera umanità, ovvero trasformare quella tragedia in una gaia scienza, e sia forse meno impossibile intervenire politicamente nel capitalismo e nella democrazia.

Mi è stato dato di conoscere socialismo e comunismo, sia in forma di regime che come modi di lavorare, e oltre agli aspetti condannabili senza appello, continuo a condividerne profondamente alcuni principi, avendo constatato che sono per me motivo di realizzazione e felice interazione con gli altri. Perciò – mi dico – l'opzione comunista dovrebbe avere comunque diritto di cittadinanza quando essa si specifichi in una forma di vita che sia il frutto della libera scelta di ogni singolo nel contesto di associazioni di individui (ad esempio i kibbutz o le vere cooperative) che non pretendano di essere un modello coercitivo per tutti. Tutto ciò senza dimenticare che ogni lavoro, specie se creativo, ha una propria specificità. Il lavoro teatrale, per esempio, non è né ‘democratico' né ‘comunista', come sa bene chiunque lo pratichi. Un ensemble artistico è una comunanza (non una comunità) professionale e creativa per definizione provvisoria. E laddove si invoca ed è operante una responsabilità creativa di tutti i propri aderenti non scompare il ruolo del leader-regista, tutt'altro, perché nel lavoro teatrale la gerarchia e i protocolli definiscono ogni volta una propria tipicità a partire dallo scopo comune di comporre qualcosa che ancora non si conosce.

I sistemi di pensiero, religioni comprese, si affermano per mezzo dell'azione di eserciti, ossia vincendo guerre. Certo, i guerrieri sono a loro volta danzatori (ce lo hanno spiegato in tanti, da Grotowski e Artaud indietro) e la qualità della danza dei vincitori determina le forme del ‘governo' che segue. C'è una storia che illustra questo principio meglio di altre, quella di Padmasambhava, il maestro che ha portato il buddhismo in Tibet. Un antico poema epico racconta come Padmasambhava avesse con sé un esercito composto di «attori di tutto il mondo» e con esso abbia sconfitto i mostri che governavano quella terra e assoggettavano le popolazioni indigene costringendole all'abiezione della lotta per la sopravvivenza. Ciò che chiamiamo performance, dunque, per designare una forma di espressione distinta dal teatro ‘che parla e non fa' limitandosi a dire il mondo sulla base di un giudizio aprioristico, è attivazione e dépense di tutte le risorse umane, è – con diverse esplicitazioni in ogni contesto – un ‘tantrismo' oppure, come s'è detto, un esperimento quantistico. Questa istanza tantrica continua, presente con tanti nomi nei più diversi tempi e spazi storici, istituisce la contraddizione principale tra gli ordinamenti sociali che la incorniciano e il proprio fuoco, senza il quale non c'è vita. Ecco perché possiamo rintracciarla in qualsiasi modo di guardare all'umano: nell'antropologia come nel teatro, nella poesia, nel canto, nella musica, ma anche, per esempio, nei codici civili e penali, nel diritto economico, nell'agricoltura e così via. Resta il fatto, però, che nel teatro come nella danza e nelle arti, soprattutto nelle arti dinamiche, la questione si presenta con maggiore evidenza e nella sua ineludibile, persino misteriosa, complessità. Essendo coincidente con il teatro stesso (e dunque presente anche in quel teatro che si crede un tribunale delle idee), con la danza stessa (e dunque anche nella più banale delle coreografie), con la musica, la poesia eccetera, è ovvio che il pensiero d'accompagnamento a queste arti sia fitto di riferimenti più o meno consapevoli. Al paradiso nel quale i più grandi artisti viventi vanno e vengono corrisponde una cospicua e consultabile biblioteca-monumento. Le figure di questa danza-canto-teatro non sono arrivate fin qui soltanto per farsi guardare, ma per invitare alla conoscenza attraverso l'azione, ciascuno a partire dalla propria anagrafe, ma partire davvero, senza fermarsi al mugugno ideologico o ai peana da anime belle. Quello delle arti dinamiche è un sapere supremo e al tempo stesso accessibile a tutti proprio perché si fa, in un certo senso, senza presupposti teorici. E si può danzare con tutto, anche attraverso la scrittura: la consapevolezza e la disposizione delle parole è un segno del tempo nuovo, che sollecita la rammemorazione contro il torpore (sapere di sapere e di non sapere – ciò che è già accaduto e continuamente accade) e il divertimento contro l'adattamento (gioco, parodia, esercizio, fuga). Torpore e adattamento sono necessità del mondo nella sua manifestazione ‘sociale', memoria e performance sono pratiche individuali senza le quali si sopravvive penosamente.

Lavorando bene ti avvicini a ciò che vorresti essere, ma non così realizzi il fine di diventare ciò che sei, perché tu sei come sei, mentre ciò che vorresti essere si innesta nella condizione precedente: quindi, arrivato a diventare ciò che tu e la vita avete voluto/saputo/potuto fare, potrebbe cominciare un'altra fase del lavoro su te stesso: attraverso la conquistata capacità di vederti agire, ti potrai superare, potrai sfondare i confini del pregetto e del progetto, del karma e del destino. Allora raggiungerai la meta oltre l'origine.

Potresti chiederti, lettore, quale sia lo scopo di questo scritto barcollante tra vicenda personale e visione del mondo, anzi dell'universo. All'inizio pensavo di voler condividere un'esperienza che forse potrebbe essere utile a qualcuno che sentisse di avere problemi analoghi, ora mi accorgo però che una delle linee guida è il tentativo di mettere a fuoco alcuni concetti importanti, almeno per chi ha a che fare con la cultura teatrale e riflette sul ruolo delle arti dinamiche nella vita umana. Lo strato più profondo, però, è costituito dalla convinzione irremovibile che la pratica di queste arti potrebbe essere di beneficio a tutti se svolta in amicizia, con una consapevolezza nuova o almeno liberata dalle tristi o ridicole superstizioni che ancora nel mondo avviliscono il potenziale del ‘teatro'. Per fare ciò, da qualche anno, punto più sugli esempi positivi che su quelli negativi (a seguitare nel lavoro critico, una volta scartata l'utopia, non resterebbe che la performance francescanamente intesa). L'obiettivo finale, oltre gli esempi, riguarda alcuni snodi concettuali aggiornati che potrebbero informare i modi di agire, le composizioni artistiche. Aggiungo questo ultimo paragrafo dopo la lettura di un illuminante articolo di Manuela Monti e Carlo Alberto Redi sugli sviluppi della biologia (13). È un articolo che può accendere la speranza come la disperazione perché segnala gli enormi benefici che potrebbero venire all'umanità dalle scoperte in corso e al tempo stesso gli effetti devastanti che le medesime potrebbero avere nelle mani sbagliate. Nel nostro caso non è in gioco qualcosa di così decisivo per l'umanità; l'accostamento tra fisica, filosofia e arti sceniche non è proposto per attribuire a queste ultime l'importanza delle prime due. Un utilizzo malaccorto o perverso delle arti sceniche non avrebbe alcuna immediata conseguenza nefasta, ma è innegabile che lì sia in questione qualcosa che riguarda alcuni aspetti della coscienza individuale e collettiva, pur sempre un elemento non secondario nel codeterminare il divenire del mondo. Come ricordano i due scienziati – anch'essi non a caso soci di Mechrì – «la natura umana è artificiale da sempre», dunque anche le arti e il modo di pensarle appartengono alla storia naturale del mondo.

 

NOTE

 

1) Gilles Deleuze, Conversazioni , Ombre corte, Verona, 1988, p.71.
2) Cfr. Alain Badiou, Secondo manifesto per la filosofia , Cronopio, Napoli 2010, pp. 87 e 99. Inoltre: <<Tutto il teatro è teatro di Idee>>, in Id., Rapsodia per il teatro. Arte, politica, evento, a cura di Francesco Ceraolo, Pellegrini, Cosenza, 2015, p.96.
3) Così Alain Badiou nella propria Prefazione. Per un teatro delle idee , in AA.VV, Teorie dell'evento – Alain Badiou e il pensiero dello spettacolo , a cura di Francesco Ceraolo, postfazione di Roberto De Gaetano, p. 9. Citiamo ancora, per maggiore chiarezza su questo pensiero alla moda: <<Contro il parlamentarismo capitalista che, sotto il nome improprio di ‘democrazia', vuole assicurare in modo violento la sua egemonia planetaria, reinventiamo la politica comunista>>. Affermazione preceduta da questo passaggio: <<Contro il teatro senza teatro, contro l'apologia del corpo e della non separazione, prepariamo il futuro del teatro fedele al teatro. Contro la voluta ignoranza di tutto ciò che riguarda in modo astratto l'essere puro, contro l'essere senza qualità, l'apologia ingannevole del “concreto”, studiamo la matematica pura>>. E così continua: <<Infine, rifondiamo ancora una volta, come lo si è fatto da Platone a Sartre, il solo luogo che sia davvero aperto all'incontro degli altri tre: la metafisica, la vera filosofia e il modo in cui questa, autonomamente, è capace di cambiare la propria eternità. Se non parlo qui dell'amore, che è – dopo il teatro, la matematica e la politica – il quarto pensiero vivente che oggi occorre difendere contro i suoi nemici moderni, è perché ho già scritto Éloge de l'amour . Ho anche scritto e pubblicato un Éloge du théâtre , seguito da un Éloge des matématiques . La reinvenzione della politica comunista è, come ciascuno sa, una specialità di poco successo, che io pratico con una certa assiduità, e che finirà per produrre un Éloge de la politique >>.
4) Carlo Sini, Inizio , Jaca Book, Milano, 2016, pp. 62-63.
5) Sul fraintendimento della Poetica di Aristotele nel contesto del teatro moderno cfr. eventualmente, del sottoscritto, Attori del divenire. Aristotele e i nuovi profili della mimesi , in Id., L'arte e il sapere dell'attore. Idee e figure , Accademia UP, Torino, 2015, pp. 61-90.
6) Carlo Sini, Inizio , cit., pp. 190-194.
7) Ibidem.
8) <<Gustazione>> è il termine impiegato da Abhinavagupta per indicare l'effetto supremo dell'esperienza estetica. Di nuovo cfr. eventualmente il mio Guardare anche altrove , in L'arte e il sapere dell'attore , cit., pp. 167-192.
9) Per questo il lettore italiano può fare riferimento a Teorie dell'evento – Alain Badiou e il pensiero dello spettacolo cit. e a Il teatro: i concetti e la cosa – Una viva discussione tra Alain Badiou e Bruno Tackels , <<Mimesis Journal>>, MJ, 5, 2 (2016), pp. 5-26. Ma cfr. anche la equilibrata lettura di Martin Puchner, The Theatre of Alain Badiou , <<Theatre Research International>>, 34, 3, 2009, pp. 256-266.
10) Badiou: <<La filosofia si riserba, rispetto all'arte come rispetto a tutte le altre procedure di verità, il compito di indicarle in quanto tali. La filosofia è dunque l'intermediario tra incontri di verità, una sorta di tenutaria [ sic! ] del vero>> ( Inestetica , 2007, p. 31).
11) Sul complesso della tematica cfr. Carlo Sini, Figure dell'enciclopedia filosofica. <<Transito verità>>, Vol. 6. Le arti dinamiche. Filosofia e pedagogia , Jaca Book, Milano, 2005.
12) Carlo Sini, A pezzi e bocconi: in giro per il mondo, <<Nóema>>, 8, 1 (2017). Gli strumenti del lavoro filosofico: <noema.filosofia.unimi.it>.
13) Manuela Monti, Carlo Alberto Redi, Biologia: dalla descrizione alla sintesi del vivente , <<MicroMega>>, L'infinito. Dal grande al piccolo , 6, 2017, pp. 151-164.