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Visioni del mondo, incontri, idee di teatro - Parte prima

di Antonio Attisani

 

Ricordo cosa da giovanissimo volevo essere: tutto ragione, razionalità, logica spietata. Naturalmente, volevo essere ciò che non ero, mi tormentava l'idea che la ragione non riusciva a spiegare tutto, anzi, e nemmeno dava risultati felici o almeno convincenti nel progettare ciò che andava fatto. Questa lotta e contraddizione continua avrebbero segnato – me ne rendessi conto o meno – tutta la mia vita, naturalmente dispiegandosi con una terminologia variabile. Penso che la forte attrazione per il teatro e l'idea di fare l'attore, manifestatesi persino prima di frequentare il teatro come spettatore, abbiano origine proprio in quella (insuperabile?) contraddizione. Per darsi al teatro occorre vincere la timidezza e il pudore, osservare gli altri e il mondo come rappresentazione, e infine osare lo stare in scena, dove emergono, oltre alle nostre intenzioni, i tratti di ciò che siamo realmente e stiamo diventando. Tutto per familiarizzare con l'esercizio della sincerità e conoscere meglio se stessi.

La disgrazia della ragione era vissuta senza padroneggiarla, trovavo però a ogni passo la conferma che il teatro fosse la strada giusta, il destino spigoloso a cui ero condannato. L'amor proprio, il narcisismo e la competizione che quasi sempre connotano questa professione, pur molesti e da evitare, erano sentimenti che comprendevo negli altri e che soffocavo in me fino a credere di esserne immune, rendendomi conto che nascono dalla paura di non essere accettati o di non piacere, e dalla sensazione di pienezza e di appagamento che invece dà il commercio di se stessi in scena, commercio che vede venditore e compratori ugualmente felici.

È una strada, quella del teatro, percorrendo la quale non ci si sente mai arrivati, poiché ogni conquista mette in uno stato d'ansia per la sua possibile messa in discussione o perdita. Si instaura così una dipendenza, si è posseduti da una logica di prestazione a cui le soddisfazioni per gli esiti raggiunti non mettono mai fine. Si può cambiare lavoro, magari per vivere più tranquillamente, ma se il teatro è la propria patosofia quello scomodo intreccio di sentimenti ce lo si porta dietro in qualsiasi professione.

Il punto di partenza cosciente del lavoro teatrale sta nelle intenzioni (etica), nelle idee (ideologia), persino nella volontà di comunicare e convincere (politica), ma c'è un ma decisivo: il processo/prodotto mostra sempre la vibrante differenza tra le intenzioni e ciò che effettivamente siamo nelle circostanze date. Ci si presenta come soggetti del teatro perché tale è la convenzione sociale, ma si è soggetti al teatro. È sempre così, con accentuazioni diverse a seconda che si tratti di farlo sulla scena, studiarlo, criticarlo, organizzarlo oppure farne un oggetto d'insegnamento, vale a dire riflettere sul senso che assume nelle sue diverse forme e declinazioni poetiche e istituzionali.

Sia come sia, anche per la vita in generale la ragione non è tutto, anzi a volte trasforma ciò che accade in un messaggio indecifrabile. E spesso si reagisce agli orrori che si manifestano in disprezzo di ogni ragione facendo ricorso all'utopia, ossia opponendo loro la fantasia di un perfetto bene comune. L'utopia è un'altra di quelle cose che nel corso del tempo ho imparato a commiserare e poi detestare, anche per averne visti i risultati in diverse circostanze.

Dopo aver calcato per alcuni anni la scena, poi affiancata come critico e direttore artistico (1) dal 1992 mi sono ritrovato all'università. Qui, dopo circa un decennio di insegnamento in cui mi occupavo di teatri e filosofie (2), all'insegna soprattutto del vitale spiazzamento procuratomi da un autore come Gilles Deleuze, è avvenuto l'incontro con Florinda Cambria, poi con gli scritti di Carlo Sini e quasi subito, per fortuna, anche con lui, fino a condividere un lavoro nel quale sono stati preziosi anche i partecipanti più giovani (3). Soltanto adesso, dopo anni di frequentazioni reciproche, comincio a capire cosa ciò abbia significato per me. Non mi riferisco a qualcosa di psicologico, anche se certi eventi psicologici, tanto minuscoli da passare quasi inosservati nel momento in cui accadono, poi si depositano in un fondo di memoria e cominciano ad agire come semi di nuovi pensieri e sentimenti.

Apparentemente ciò che ci univa avveniva alla luce della ragione, mentre – almeno per quanto mi riguarda – ciò che mi attirava era il fatto che soprattutto con alcune parole e poi anche con i suoi scritti, Sini mi procurava alcuni piccoli soprassalti che si insinuavano nella mia mente e cominciavano a lavorare dietro le quinte. Era come ricevere una spinta, una pacca sulla spalla amichevole che però ti fa perdere l'equilibrio e non sai se ti fa restare in piedi o cadere. Qualcosa di semplice, in apparenza. Ognuno di questi soprassalti mi procurava uno stupore rivelatore, ovvero mi permetteva di intravedere per un attimo qualcosa di essenziale, salvo ritrovarmi poi dinanzi a un sipario chiuso e dover ricominciare da me il cammino, mai lineare, per arrivare a quella scena. Quella scena? Non a rifarla, perché era svanita, e poi non era una scena compiuta, era un'azione; dunque a eseguirne una nuova che sviluppava quel seme.

Per non complicare eccessivamente le cose sarà bene fare qualche esempio.

Un giorno, finalmente, ci siamo riuniti per iniziare il primo lavoro di gruppo. Era un'occasione importante, quasi solenne, direi. Tutti pensavamo che la decisione da prendere riguardasse l'argomento da affrontare, ma lui si mostrava sostanzialmente indifferente. Sconcerto, non soltanto da parte mia, credo. Questa indifferenza per il tema, come s'è chiarito nel corso del tempo, derivava dal fatto che per lui il lavoro comune doveva vertere sul come della conoscenza. E in effetti questo è stato il risultato più importante raggiunto da quel gruppo in un paio d'anni di Gesamt(kunst?)werk (qualche decina di giornate insieme).

Un altro soprassalto c'è stato mentre si stava lavorando, come s'era deliberato, sulla figura di Francesco d'Assisi. Sini ha detto, in un sibilo: «Siamo tutti con Francesco, ma ci comportiamo come suo padre». Un pensiero insopportabile, che ho dovuto mettere da parte, facendo finta di niente. Era un'idea che non poteva entrare nel lavoro senza conseguenze rilevanti, infatti il gruppo è andato avanti accantonandola. Eppure ancora oggi quella inaggirabile della contraddizione tra ciò che ‘ci piace', ovvero scegliamo idealmente, e ciò che concretamente facciamo, è diventata un criterio al quale sottoporre anche molte altre questioni.

Un altro esempio (la serie è corposa ma non infinita, dato che il suo insegnamento è fatto delle idee che tali gesti rendono possibili): spesso, nel parlare, quando Sini mette all'inizio di un ragionamento una locuzione del tipo «Fanno cose meravigliose» a ciò segue un'accurata decostruzione del soggetto in questione, o di alcune sue azioni. Ho sospettato a volte che fosse una manifestazione di paraculaggine retorica, mentre invece si tratta di un giusto bilanciamento che serve a illuminare la cosa osservata per sottoporla a una critica interessata . Per farsi un'idea di questo procedimento nella scrittura filosofica, il lettore può leggere la prefazione che Sini dedica a La voce e il fenomeno di Michel Foucault, laddove le riserve pur sostanziali sul famoso saggio che ogni attore dovrebbe compulsare sono intrecciate a una lettura accurata (compassionevole, direi, se non temessi d'essere frainteso), così che la decostruzione fa compiere un passo in avanti a quelle idee.

Con ciò non voglio cicalare di una improbabile perfezione sovrumana. A volte la sua incursione nel pensiero degli altri l'ho percepita come davvero fuori luogo. Penso a quando ha detto di un artista che tutti ammiriamo: «Fa cose meravigliose, ma che stia zitto». Certamente ci può essere, come in chiunque, una disarmonia tra il dire e il fare, ma un autore interessante merita di essere preso in considerazione totalmente, anche le sue eventuali asimmetrie hanno un senso che merita di essere preso in considerazione. O quando – e qui è stato un altro sussulto per cui l'ho mandato mentalmente a quel paese – ha avanzato una distinzione tra coloro che «hanno letto Kant e Hegel» e il resto del mondo come premessa all'affermazione che tra le due specie non vi può essere un utile dialogo (filosofico?). Su questi incidenti varrebbe la pena di meditare attentamente. Altro esempio di alto rango: un segno importante di questa effettiva difficoltà di dialogo tra un filosofo e un grande artista, e nondimeno della possibilità che possa instaurarsi, la si trova in una stringente comunicazione di Sergio Fava, finora inedita, sul rapporto tra Carlo Sini e l'ultimo Carmelo Bene (4). Può essere che esponendo tutto ciò il sottoscritto dimostri soltanto la propria debolezza intellettuale, è il rischio in ogni vero esercizio. E poi, la sincerità non può darsi che in un tentativo maldestro, ma aiuta comunque a delineare questioni essenziali, o almeno l'intenzione di farlo. Sia come sia, gli episodi citati sono segnali dell'emersione di un modo del pensare che sta diventando cosciente, modo che attribuisco a Sini: lui non può farci niente e io nemmeno.

 

La premessa autobiografica era (forse) inevitabile, non tanto per arrivare alle affermazioni che seguono quanto per presentarle come il risultato di una piccola vicenda umana calata in una miriade di storie, ovvero per evidenziare il carattere di un progresso formativo che consiste unicamente in un ‘passaggio'. In questo caso il passaggio è connotato dalla consapevolezza che la sua offerta filosofica rappresenta una novità sostanziale, anche se è vero che nessuno inventa niente, che l'origine non esiste e dunque non esiste neppure l'originale, il primo, il vero esemplare di ogni specie vivente o di pensiero. Sini è preceduto almeno da Nietzsche e Husserl e i due da altri autori, tutti inventori, tutti primi, benché ognuno fosse rinchiuso tra i confini della propria storia. Anche se lui non li ha rispettati, quei confini, ovvero non è uno storico della filosofia. Comunque sia, prima di tutti coloro che qui non è il caso di elencare, in un mondo cui evidentemente non bastavano l'economia, la filosofia e la scienza, è nato il teatro. Prima del teatro (istituzione) c'erano le arti dinamiche, fuse in un tutt'uno e poi separate. E prima delle arti dinamiche c'era – e c'è – il corpo. Inteso che ‘prima' indica in misura minore una dislocazione temporale, essendo innanzitutto un contenuto e uno strumento. Eppure quella segnata da Sini è una svolta che realizza un superamento del pensiero occidentale basato essenzialmente sul modello della meccanica classica.

Se ho ben compreso, per Sini tutte le cose, compresi i pensieri e le parole, sono da considerare non come realtà a sé stanti ma come i ‘significati' che esse assumono nell'interazione con le altre cose, e la filosofia diventa una scienza dell'interrogazione, anche di se stessa, utilizzabile da ogni pratica, una interrogazione che fonde la prospettiva ‘occidentale' della terza persona con quella ‘orientale' della prima persona. A me stesso dico sottovoce che la sua è una ‘filosofia quantistica', applicando e sviluppando la quale si può stare meglio e più consapevolmente in un mondo percepito non come un solido che sta nello spazio e si evolve nel tempo, bensì come un insieme di campi (quantistici) le cui interazioni interne e reciproche generano ciò che chiamiamo spazio, tempo, particelle, onde e luce. Mi sembra che con lui si liberi il materialismo critico dai vincoli della dialettica e dello storicismo, nei quali è impastoiata ad esempio la disciplina teatrale più avanzata, senza ignorarli, però utilizzando quelle istanze in un contesto assai più vasto che potremmo definire, sempre facendo ricorso ai concetti della fisica quantistica, indeterminismo e relazionalismo , laddove l'indeterminismo nasce dalla constatazione che il futuro non è determinato univocamente dal passato, ovvero è sostanzialmente imprevedibile, o meglio soggetto a una miriade di variabili anche casuali, per cui il sapere può arrivare soltanto a cogliere alcune regolarità e probabilità di manifestazione dei fenomeni. Ciò rimanda a una riflessione assai più articolata di quella meccanica (storico-dialettica), a un'etica della decisione continua in un contesto-mondo che vibra e fluttua, il cui ritmo e canto si ricavano dalle ‘nuvole di possibilità'. E il concetto di relazionalismo nasce dalla constatazione che la realtà è relazione: ogni velocità è relativa a un'altra, ogni ritmo è relativo a un altro, tutte le caratteristiche di una cosa sussistono soltanto rispetto a quelle di altre cose, perciò lo stato delle cose definito dal discorso dell'artista o del filosofo corrisponde a ciò che Sini definisce «transito verità». In un mondo fatto di eventi-discorsi tutto ciò che si manifesta in un sistema si riscontra in relazione a un altro sistema. E quando si riferisce di un evento, si fa un discorso, fermo restando che l'evento stesso era a sua volta un discorso.

La figurazione del mondo cui si è fatto cenno prende corpo in ogni traduzione individuale di conoscenze e in un mare di suggestioni diverse. Ognuno di noi si trova solo su una barchetta che affronta la traversata e consapevole o meno, colto o meno colto che sia, ragionando o seguendo l'istinto, deve continuamente decidere cosa fare, interpretando ciò che avviene sopra, sotto e tutt'intorno a lui. Il timone può essere anche un'idea di teatro.

Il paragone con la fisica quantistica è dovuto al fatto che essa sta in un rapporto di continuità e insieme di discontinuità rispetto alla fisica moderna, proprio come la filosofia qui evocata, e che secondo le coordinate ricavate dalla mia esperienza, si accorda significativamente sia con quanto sta accadendo alla tradizione buddhista, sia al lascito di Jerzy Grotowski (5).

Da diversi anni ormai il Dalai Lama e altri esponenti degli ordini religiosi tibetani si confrontano con studiosi di varie discipline di tutto il mondo e il Dalai Lama stesso non manca occasione per affermare che gli insegnamenti del Buddha sull'origine dipendente, ovvero che nulla esiste in modo indipendente e tutto si manifesta in dipendenza di altri fattori, è perfettamente coerente con le formalizzazioni teoriche della fisica quantistica. La fenomenologia e la spregiudicata religione dei tibetani possono dunque incrociarsi per affrontare i medesimi problemi, ad esempio la nozione di coscienza, delineando così un materialismo di tipo nuovo. Questa riflessione non è esclusivamente intellettuale, riguarda tutto l'essere umano, è un'azione individuale e collettiva (il fisico teorico Giuseppe Vitiello propone la nozione di «collettivo di coscienza» e parla di ‘attori' che non esistono senza gli altri) (6). I fondamenti del buddhismo e della fisica quantistica possono essere riconsiderati in una prospettiva comune nell'ambito della quale si ammette che pur se i fenomeni mancano di realtà intrinseca, occorre fare i conti con le solidissime convenzioni proprie di ogni cultura. Nel quadro di questo festoso incontro interculturale fra istanze transculturali si colloca quanto si sta palesando in quel laboratorio di filosofia e di cultura che è Mechrì e soprattutto nell'orientamento filosofico di Carlo Sini, il cui discorso ( Rede ), una volta pronunciato l'«addio all'evento», si situa in un campo di forze nel quale interagiscono simultaneamente le visioni in prima e terza persona.

Il fatto che quella di Sini si possa definire una filosofia quantistica non è certo una idea primigenia o conclusiva, è soltanto un passaggio discorsivo, il semplice segnalare una filosofia che potrebbe aiutare un ricominciamento del sapere in forma dialogica, rimandando al cammino transdisciplinare che ognuno deve poi compiere in solitudine.

 

«Arte come veicolo» è una definizione ex post coniata da Peter Brook e accettata da Grotowski. È servita negli anni Ottanta per contrassegnare la differenza del lavoro svolto da Grotowski rispetto alla generalità dei professionisti teatrali. Il riprenderla passivamente può ingenerare l'equivoco che il maestro polacco avesse ‘inventato' una nuova funzione dell'arte o del teatro. Invece nessuno può contraddire l'evidenza che l'arte è sempre un mezzo, anche se conduce a destinazioni diverse a seconda dell'orientamento dei propri autori. Il concetto di arte come veicolo serviva allora a definire un collettivo e una forma di coscienza basati su una concentrazione e un lavoro specifici. Come sempre è la consapevolezza di ciò che accade a fare la differenza e i discorsi che ne derivano si articolano a seconda della storia all'interno della quale si manifestano. Il lavoro dell'ultimo Grotowski spostava l'accento ‘dalla compagnia teatrale all'arte come veicolo', era dunque un unicum ma anche, al tempo stesso, era apparentato con quello di altre compagnie che si muovevano nella stessa, per quanto non identica, direzione: altre forme di coscienza investite in un lavoro su se stessi, creativo e pubblico.

 

Come per la scienza, anche per il teatro la qualità del risultato dipende dalle condizioni predisposte per procedere alla composizione e dalla coscienza che governa il lavoro, fin nel vocabolario. In questo caso però i risultati, a differenza dell'esperimento scientifico, non sono equazioni generative di ulteriori identici processi, bensì opere uniche e irripetibili, per quanti appartenenti a una delle specie selezionate dall'evoluzione. Pertanto quando indico, come mi capita di fare, alcuni dei teatri più significativi del nostro tempo non mi riferisco ai valori di mercato bensì all'emozionante interesse di opere nate in condizioni materiali e di coscienza assai avanzate. Il passaggio dal ‘montaggio meccanico' alla ‘composizione quantistica' dell'opera teatrale avviene oggi, sembra di capire, a) quando una compagnia è un'associazione di individui attivi nel processo creativo, b) quando i suoi componenti provengono da differenti tradizioni, c) quando parte integrante del lavoro comune è il laboratorio (formazione, esercizio e sperimentazione) e, molto importante, d) laddove, consapevolmente o meno, si procede verso una riunificazione delle arti dinamiche (poesia, musica, danza, canto e recitazione). Nelle formazioni di questo tipo possono svilupparsi anche altre condizioni interessanti, ad esempio il carattere transgender degli associati, il loro prosieguo alla condizione di pedagoghi e leader di altre formazioni, o persino l'applicazione ad altre professioni, non necessariamente artistiche (7). I caratteri cui si è fatto cenno corrispondono di fatto a una costituzione poetica basata sull'indeterminismo e il relazionalismo, caratteri riscontrabili anche nella filosofia di Carlo Sini. La consapevolezza di questi cambiamenti culturali non soltanto può dare un nuovo impulso al lavoro delle singole formazioni, ma permette una collaborazione reciprocamente utile tra discipline, come dimostra la vicinanza sinergica tra i protagonisti di Mechrì e i due rami del Workcenter of Jerzy Grotowski and Thomas Richards, punta di diamante della ricerca teatrale nel mondo. La coscienza implica un portato relazionale, anzitutto la costituzione dei «collettivi di coscienza» auspicati da Giuseppe Vitiello.

 

NOTE

 

1) Ho depositato una parte di memoria nel volume Atto secondo. Nel mare del teatro (1966-1993) , in corso di stampa presso l'editore Celid, Torino.

2) Si tratta di L'invenzione del teatro. Fenomenologie e attori della ricerca , Bulzoni, Roma 2003, Cue Press, Imola 2017.

3) Mi riferisco alla Piccola Accademia e al resoconto che ne dà il volume di AA.VV (Antonio Attisani, Florinda Cambria, Tommaso Di Dio, Francesco Emmolo, Enrico Redaelli, Carlo Sini), La vita povera. Album della Piccola Accademia , Accademia University Press, Torino 2015.

4) Cfr. Sergio Fava, Carmelo Bene e Carlo Sini: la resa dei conti con il linguaggio. Cosmologia e semiologia , relazione al convegno Le arti del ‘900 e Carmelo Bene , a cura di Edoardo Fadini, Torino, 24-26 ottobre 2002. Ora in «Mimesis Journal», 6, 2 (dicembre 2017).

5)Interessante, per inciso, quanto Grotowski ricorda del rapporto tra il fratello, fisico nucleare, e il grande Niels Bohr, considerato un «esempio formidabile» di ricerca della conoscenza. Cfr. Jerzy Grotowski: venti anni di attività , intervista a cura di Ugo Volli, ora in Grotowski. Testi 1954-1998, vol. III, Oltre il teatro , La casa Usher, Firenze e Lucca 2016, pp. 215-216.

6) Vitiello era il primo relatore del convegno The mindscience of reality organizzato dall'Università di Pisa il 20-21 settembre 2017 in occasione di una visita italiana del Dalai Lama. La prima sessione era dedicata alla “Scienza della mente e meccanica quantistica”, la seconda a “Scienza della mente a confronto con le neuroscienze” e la terza a “Scienza della mente e filosofia”, mentre il dibattito finale tra tutti i partecipanti verteva sul tema “Scienza della mente, neuroscienze, filosofie occidentali e buddhismo”. Altri relatori erano Massimo Pregnolato, Federico Faggin, Michel Bitbol, Remo Bodei, Donald Hoffman, Steven Laureys, Matthieu Ricard, Carlo Cipolli, Franco Fabbro, Adriano Fabris, Leone Fronzoni, Richard Gere, Bernardino Ghetti, Stefano Perfetti, Marcello Massimini, Lauro Mengheri, Pietro Pietrini, Sergio Salvatore, Giuseppe Sartori, Gabriele Puana, Joan Donbon, Alessandra Fussi, Maria Petronilla Penna.

7) Questo tema è da me affrontato in un articolo sulla compagnia Batsheva: Per un teatro trans (-disciplinare e -culturale). Un caso di filosofia al lavoro, che sembra danza , «Mimesis Journal», 6, 1 (giugno 2017), pp. 123-155.