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Testamento di dolore
Alcune considerazioni intorno al film di Samuel Maoz
Foxtrot

di Paolo Ruffini

 

 

Se è vero, come scrive Béla Balázs, che il cinema ci ha fatto materialmente sentire il peso drammatico dello spazio, ci ha permesso di afferrare l'anima di un paesaggio, il linguaggio segreto dell'esistenza muta, riconosciamo allora a Foxtrot dell'israeliano Maoz - da poco nelle sale italiane – questa rara capacità del film, questo dolente andamento percettivo che si incunea nell'animo di chi guarda, sedimenta e alberga per molto, molto tempo, non ci lascia indifferenti segnandoci. Questo nuovo lavoro cinematografico insiste sullo stesso tema del precedente Lebanon ma preso da un'angolazione in soggettiva, meno ‘epica' rispetto al Leone d'Oro di Venezia del 2009. Altrettanto non compassionevole e ‘vero' quanto lo era Lebanon , così appoggiato a un cuore lacerato dalla Guerra del Libano nell'immagine cartoon movie di straordinaria efficacia cromatica e in un racconto in prima persona del protagonista, ch'è poi lo stesso regista. In Foxtrot siamo dunque in una traccia uguale e diversa anche rispetto a una buona parte delle narrazioni dell'arte israeliana, così marchiata in particolare dal conflitto israelo-palestinese sin dalla fondazione dello Stato di Israele, quel lontano 1948, e che in queste ore si sta riproponendo emblematicamente negli scontri sul confine di Gaza. E il punto di vista è quello israeliano. Siamo in un checkpoint sgarrupato, uno dei tanti sperduto in lande desertiche del paese e affogato a perdita d'occhio nella polvere e in orizzonti immobili, un checkpoint di confine o del Negev, così caro alle narrazioni di Amos Oz che elegge gli spazi del deserto a memoire esistenziale, un luogo sospeso nel tempo e nello spazio come un satellite, come l'avamposto de Il deserto dei tartari di Dino Buzzati aveva anticipato in quella certa annebbiante attesa eterna dove sembra non accadere niente. Un po' un lascito beckettiano in quel vivere alle spalle del presente, e dove solo il transito occasionale di qualche autovettura o di solitari e metafisici dromedari che vagolano come per tornare chissà dove, ci riportano all'oggi, alla concretezza del ritmo militare, alla sua routine cadenzata dalle stesse parole, uguali rituali, allerte che si ripropongono.Controlli di documenti, verifica di bagagli, domande. Azioni liberatorie nella stagnazione del tempo che governa l'andamento quotidiano di quattro giovanissimi militari. In uno dei quadri del film siamo a ridosso della torretta di controllo prossimi a l'unica strada non asfaltata, poco dietro un container come alloggio e che ogni giorno, anche a causa di torrenziali e improvvise piogge, si inclina sempre più accentuando una pendenza surreale. Il film apre da tutt'altra parte, suonano alla porta dei genitori di Jonathan (di fatto il nome vero del protagonista Shiray), uno dei quattro giovani, ed è sempre un colpo al cuore ogni qualvolta, per chi ha un partente al fronte, e alla porta si presentano militari che recano una notizia, molte volte purtroppo una notizia terribile. Così è. L'annuncio della morte del militare figlio di Michael e Dafna cade come un macigno sulle loro vite, smonta quel poco che ancora si reggeva in piedi, scaraventa i due nell'abisso di quelle solitudini e fa regredire i loro sentimenti fino a quel momento lasciati sopire. La camera è distopica, rimane immobile mentre Dafna cade appena aperta la porta, ossessivamente si concentra sul crollo di Michael reso magistrale nel dosare quel dolore dallo straordinario Lior Ashkenazi, perimetra gli spazi della casa come per riconfigurare un habitat nell'alito della morte. Le altre figure che entrano a riempire il quadro familiare si fanno carico di accenti ulteriormente ossessivi: l'ufficiale rabbino che tenta di mettere assieme i pezzi, quelli del rito e quelli dei sentimenti, un fratello di Michael ingombrante e premuroso sino al parossismo di organizzare il funerale, l'altra figlia della coppia che sembra già carica di quel peso come una condizione profonda, antica, qui ‘chiamata' al ruolo di una laica ragionevolezza. Questa, forse, è una delle chiavi del bellissimo e struggente Foxtrot , saper riportare la narrazione a un piano ancestrale, di destino inevitabile, di respiro biblico nonostante il paradossale lirismo metafisico sia calata. Come in un quadro fotografico di Adi Nes, altra straordinaria figura nel panteon di quegli artisti israeliani eterodossi capaci di coniugare lo spasmo percettivo particolare, intimo, e lo spazio di un'eco politica capace di superare il confine dialettico del conflitto israelo-palestinese, il film tratteggia il tempo con andate e ritorni dalla vita militare in quel paradigma di una esistenza a tempo totalmente svuotata di senso se non fosse ancorata al compito di difendere un etimo, un principio e una terra, quella terra.

È dunque un quadro sì contemporaneo ma riempito di un appaesamento decisamente spaesante; quella di Israele è, d'altronde, una storia che ha sempre tenuto assieme il passato e le sue tradizioni e una proiezione verso il futuro anche per certi versi pervasa di incertezza. Come ci ricorda Donatella Di Cesare: «La comunità è messa costantemente alla prova dell'estraneità, come se al fondo di sé ci fosse sempre un altro. L'architettura della dimora [della terra, si potrebbe anche dire], riunita intorno al vuoto, corrisponde alla comunità del popolo che è tale sempre grazie al ritirarsi di una parte. Qui non c'è né compattezza, né compiutezza, né autoctonia. L'estraneità è il fondo e il fondamento»¹. In quel deserto i militari si lasciano andare al loro continuum di gravità e leggerezza che spezzano il fiato, Jonathan prende appunti disegnando su un taccuino, alter ego dello stesso regista ricostruisce il proprio spazio mentale per immagini scontornando il quotidiano, riducendo anzi a film nel film in bianco e nero le azioni che si ripetono uguali. Ma la tensione è sempre presente, non lascia scampo, quelle esistenze si spendono come in una bolla felliniana in cui convivono tragedia al limite del grottesco e noise assordante. Nel frattempo l'informazione del decesso viene contraddetta da una nuova, il ragazzo non è morto ma c'è stato uno sbaglio. La grana del film modula una tensione visiva fortemente concettuale, gli esterni e gli interni sembrano ‘illustrare' il claim di una installazione contemporanea, decisamente essenziale e dai colori spenti. Lo spessore da performance tratteggia tutta la ‘superficie' del film, ch'è arte e racconto, materia e introspezione, sospensione del giudizio e pensiero politico. Come la danza in un ‘solo' vertiginoso esensuale che Jonathan fa col suo fucile, quell'improbabile e meraviglioso pezzo d'arte gestuale sulla base musicale di Out of the blue appeso a un twist con strascichi hip hop, da cui la forzatura del titolo Foxtrot , quasi un ibrido sonoro e performativo di grandissimo impatto e memento catartico. Qual è l'Israele descritto da Maoz? Quali problematiche pone che non siano state già affrontate dai vari Camminando sull'acqua o Kippur (solo per fare alcuni esempi di altri film)? Il tempo messianico qui si stempera nello stagno di ideali smontati pezzo per pezzo, sebbene rimanga l'afflato motivazionale di un sionismo aggiornato alla temperatura dell'irriducibilità delle parti in gioco, quella israeliana, del governo israeliano, e quella palestinese, del magma conflittuale all'interno degli stessi satelliti palestinesi. La capacità di Maoz è anche quella di riuscire a spostare su di un piano di concretezza vera quello che nelle generazioni passate (delle persone oltreché degli artisti) veniva ammantato di subitaneità al destino; padre e figlio hanno lo stesso temperamento riflessivo ma non la stessa carica emozionale che li definisce, li ingabbia inevitabilmente l'uno nella Storia del proprio paese, l'altro nello spazio di un mondo da immaginare. Uno, il padre, fa i conti anche con una madre scampata al terrore dei lager nazisti ma ormai in balia dell'Alzheimer, l'altro fa i conti invece con la morte rovistando tra le proprie radici, che in questo caso filtrano il tempo con la playstation. Ancora un passo e la sorte si capovolge di nuovo, scaduto il tempo Jonathan torna a casa, lungo quella strada sbrecciata fatta di curve e dossi, di panorami al limite del vuoto, appunto. Questa volta un incidente, un caso del destino, appunto, e la morte è lì che aspetta.

1)Donatella Di Cesare, Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione , Bollati Boringhieri, Torino 2017, p. 194