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Appare la bellezza.
A proposito di Sarah Kane. Lettera aperta a Pierpaolo Sepe 

di Girolamo Dal Maso

In questi mesi, Pierpaolo Sepe sta portando in giro per l'Italia – dopo Napoli, è toccato a Prato, poi Salerno e da ottobre Roma, Milano, Torino e altre piazze che si stanno aggiungendo (forse Berlino) – una messa in scena di Crave di Sarah Kane, frutto di un lavoro laboratoriale proprio su quest'opera, che si è prolungato per due anni tra Roma e Gubbio. Alla fine di un ciclo di 6 laboratori ha deciso di metterlo in scena scegliendo gli attori tra i partecipanti. Dopo la prima al Napoli Teatro Festival lo scorso giugno, sempre a Napoli, è stata ripresentata a dicembre in occasione del trentennale della Sala Assoli, nel cuore dei Quartieri Spagnoli. Ci piace condividere con Liminateatri.it, le nostre considerazioni scambiate, a suo tempo, con il regista.

 

Caro Pierpaolo,

grazie della chiacchierata strappata tra i vari impegni ieri e – soprattutto – grazie per questo Crave . Ti butto giù le mie seconde (le prime sono state a giugno) impressioni. Innanzitutto estendi i complimenti agli attori, in modo particolare a Gabriele Guerra, non perchè sia stato effettivamente migliore (tutti e quattro sono stati “tecnicamente” straordinari) ma perchè è quello che ho sentito più vicino e toccante. Come ti accennavo, il momento per me più bello e intenso è quella pausa lirica quasi centrale – direi un “chiaro di bosco” alla Zambrano. Un fiume di parole, tenerissimo e dolce, conficcato nel cuore della pièce . Bellissimo e struggente quel tocco rosso, il naso da pagliaccio, in mezzo alle sconcezze degli altri attori, che forse vorrebbero distrarre il pubblico e l'attore, come spesso accade con le cose brutte. Negli ultimi anni, partendo dalle occasioni più strampalate (in particolare un mio saggio su Flannery O'Connor e uno scritto su Tom Waits, ma mettici pure vagonate di Beckett e un paio di spettacoli al Bellini, Slava e Larible), spesso mi sono trovato a riflettere sulla maschera e sul clown, sul rapporto tra maschera e volto, tra finzione e realtà, tra vita e rappresentazione. In quel “monologo lirico” mi ha colpito la tensione tra la maschera da clown, seppur solo accennata, e il mettersi a nudo (anche letteralmente). L'ho sentito toccante, di una lancinante tenerezza, una confessione s-pudorata. Una esposizione, fragile ma insistita di quel guazzabuglio di tenerezza, rancore, amore, odio, violenza che in fondo siamo. È possibile recitare senza esporre almeno in parte qualcosa del proprio scandaloso mistero? È possibile farlo ogni sera per dieci giorni di fila? C'è un transfert che renda possibile una tale insistenza senza piombare in un burn out ? Mi ha ricordato il lavoro di qualche analista o terapeuta di qualche comunità per casi psicotici. Situazioni che la Kane ha vissuto, tra l'altro. Mettiamoci pure Bacon e Giacometti. La gabbia mi è parsa, in questo senso, più che una barriera e/o un limite invalicabile (anche questo, certo), uno schermo in cui gli attori si sono proiettati, pro-gettati. Ciò che viene a mancare con lo spettatore è il contatto. Ecco, avrei voluto toccare con le mani le sue mani, toccare la rete metallica e quanto delle mani, del corpo si lasciasse toccare. Avrei voluto far sentire, fosse solo per un momento, che c'ero pure io, che c'eravamo pure noi, spettatori, di un altro mondo, sì, ma non insensibili. Di questi due mondi separati forse la Kane è morta, forse non si è accorta che c'era qualcuno di là. Forse non c'è, ma la sua pièce mostra, lo urla, che ci può essere un contatto, che quel grido lo sentiamo e risuona, rimbomba pure dentro di noi; un contatto, una carezza, fosse solo un momento, solo un flash. Tutto va a rotoli, cade a terra, rovina a terra, ma almeno per un momento, un attimo senza tempo, appare una scintilla di bellezza, di amore. Sì, proprio amore. Io, penso, non ce la farei a reggere tutto questo, sarei schiacciato, scoppiato da tanta vita, questa troppa vita ingabbiata che preme, che urge, questa febbre che arde dentro e rende – straordinariamente – i movimenti dei corpi (ma sono persone vive, non manichini, anche se vorrebbe esserlo) spastici, sincopati, osceni, psicotici. Dì a loro, come lo dico a te, che il contatto c'è stato. Dì loro che le loro mani, le dita dei pedi avvinghiate, i seni schiacciati, le loro urla, i loro respiri, la loro anima hanno attraversato la rete (mi sovviene ora un verso di Shakespeare: for stony limits cannot hold love, and what love can do, that dares love attempt) e hanno toccato le mie mani, il mio cuore.   Dillo pure – non so come – a Sarah Kane. Giunga a voi il mio piccolo, insignificante tocco, come una scintilla nascosta, timida, che si rannicchierà in un angoluccio, magari forse a suo tempo servirà, magari no. Però c'è.

Così, forse, possiamo resistere a/in questa vita. Ieri sera, dopo lo spettacolo mi sono risuonati dentro alcuni versi secchi e densi (poche parole, ma di peso specifico densissimo) dei CSI. Anche i versi della Kane sono spesso ridotti all'osso, una parola, un monosillabo, un grido.

“Che la terra è pesante / Non si può sollevare / Che la terra è pesante / Pesante da portare / È bassa troppo bassa // Preme, compatta, schiaccia” (CSI, Unità di produzione ).

“Anima fiammeggiante zoppica / Zoppica brace non sa se ce la fa / Un gioco antico un bel gioco / Pericoloso solo per sé //Appare la bellezza mai assillante né oziosa / Languida quando è ora e forte e lieve e austera / L'aria serena e di sostanza sferzante” (CSI, Brace ).