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La “rottura deformante” di Piero della Francesca. Il punto e la luce e Lourdes
Intervista a Luca Ricci

di Letizia Bernazza

 

Al Teatro dell'Orologio di Roma, dal 16 al 28 febbraio, sono andati in scena gli ultimi due lavori firmati da Luca Ricci: Piero della Francesca. Il punto e la luce e Lourdes.

Il regista è stato nel 2003 il fondatore della compagnia CapoTrave ed è il direttore artistico del Festival Kilowatt, nato nello stesso anno nella cittadina toscana di Sansepolcro e divenuto nel tempo un indiscusso punto di riferimento delle nuove compagnie di teatro contemporaneo, danza, arti performative e musica. E, mi sento di affermare, anche un vitale luogo di scambio in cui ogni anno artisti, critici, studiosi e “visionari” (nello specifico non addetti ai lavori, ma semplici cittadini mossi dalla passione che vengono coinvolti nella selezione delle opere da proporre al pubblico) si danno appuntamento per tessere la multiforme trama di sguardi e di prospettive per quell'“incontro magico” che è il teatro.

Dei due spettacoli presentati nella capitale, ho visto soltanto Lourdes . Per tale motivo, invece di offrire ai lettori di Liminateatri.it una sola recensione, ho ritenuto opportuno rivolgere a Luca Ricci alcune domande, che potessero far comprendere nella sua interezza un progetto che vede nascere due messinscene nello stesso anno (il 2015) e che, forse, non a caso vengono proposte (o almeno così è accaduto nel Teatro romano) nella medesima serata.

Inizierei proprio da qui: c'è una coincidenza di “urgente espressività” tra Piero della Francesca e Lourdes ?

Sono due progetti che il caso ha messo l'uno vicino all'altro: da un lato c'è il desiderio - mio e di Lucia Franchi - di confrontarci finalmente con il grande genio creativo del nostro territorio, cioè Piero della Francesca, anche in occasione del nostro insediamento residenziale nel nuovo Teatro alla Misericordia di Sansepolcro, un luogo che per trecento anni è stato una chiesa all'interno della quale era custodito il Polittico della Misericordia di Piero; dall'altro lato c'è stata l'occasione offerta da “I Teatri del Sacro”, la selezione biennale promossa dalla Federgat per le opere che affrontano temi legati alla spiritualità e al sacro e per la quale ho voluto lavorare su un libro del 1998 che avevo amato moltissimo, cioè l'omonimo Lourdes di Rosa Matteucci, pubblicato da Adelphi.

Piero è un progetto sul quale abbiamo lavorato per due anni e che è arrivato a compimento nell'estate 2015. L'idea di Lourdes è nata in risposta al bando della Federgat nell'estate 2014 e dopo un anno di lavoro e prove lo spettacolo è arrivato al debutto nella medesima estate 2015.

Quale l'idea iniziale?

In entrambi gli spettacoli raccontiamo una storia, cioè una vicenda piuttosto lineare che ha un inizio, un centro e una fine.

Abbiamo un eroe al centro di ogni storia: in Lourdes è la Maria Angulema interpretata da Andrea Cosentino che parte per Lourdes con lo scopo di litigare con il Padreterno, in Piero della Francesca l'eroe che muove l'azione drammaturgica è lo stesso Piero della Francesca che però non appare mai sulla scena, ma è continuamente evocato nella relazione che si instaura tra il suo aiutante Paolo e Giovanna, la giovane cognata dello stesso Piero. Anche in questa seconda opera c'è una continua lotta con il mondo circostante, che qui è il microcosmo provinciale della Sansepolcro della metà del Quattrocento incapace di comprendere la portata innovativa della rivoluzione pittorica e artistica di Piero.

In fondo sono due storie che mettono al loro centro individui isolati in lotta con il contesto in cui si trovano a operare: Piero combatte contro le convenzioni e i conservatorismi del suo tempo, Maria si oppone a una pletora di vecchie bizzose, prepotenti, invidiose, ma ancor di più si mette contro Dio perché permette l'esistenza del male e del dolore e, andando ancora più avanti, lotta con se stessa e con le propria presuntuosa ignoranza riguardo alle faccende dello spirito.

Cosa ha contrassegnato, nello specifico, il percorso drammaturgico e registico dei due lavori?

Sono due operazioni molto diverse tra loro.

La drammaturgia di Piero è una lunga opera di cesello, compiuta assieme a Lucia Franchi, come nostro solito, per studiare il contesto storico, trovare la linea di interpretazione drammaturgica, inventare i due personaggi presenti sulla scena, dare respiro a questa assenza-presenza di Piero. La regia, poi, mi ha portato a confrontarmi con due attori di notevole talento, ma giovanissimi (Barbara Petti e Gregorio De Paola) e con una scenografia virtuale di immagini video girate da noi stessi alternate ad elaborazioni grafiche.

L'adattamento drammaturgico di Lourdes parte invece da un romanzo, dunque il personaggio centrale era già lì, bello e fatto. Gli altri li abbiamo ripresi dal libro o inventati, modificati, adattati. In questo caso c'è il consueto lavoro per cui la forza di una scrittura va tradotta nella forza della scena: non è mai un'operazione del tutto lineare, i ritmi della pagina non sono quelli della scena. Sono completamente differenti, ma non si naviga nell'oscurità come quando si scrive un soggetto originale.

Quanto al lavoro registico, su Lourdes mi sono potuto basare sulla presenza di due professionisti con una grande esperienza alle spalle: Andrea Cosentino e Danila Massimi, anche autrice delle musiche nonché esecutrice. Lì ho compiuto una scelta di essenzialità. Una scenografia semplice composta da una sorta di sacello, che evocasse la tomba paterna da cui tutta la storia prende le mosse, ma anche che ponesse il personaggio più in alto rispetto a una discesa verso la salvezza che compie alla fine.

Condividi che sia la “rottura deformante” la matrice costruttiva di entrambe le messinscene? In Lourdes è la dissacrante scrittura del romanzo d'esordio di Rosa Matteucci a cogliere costantemente di sorpresa lo spettatore con l'insolita comicità e l'audacia linguistica che contraddistinguono l'impianto narrativo dell'opera dell'autrice. In Piero della Francesca è, forse, il suo andare “contro le convenzioni” a generare quella “favola storica” di cui parli e in cui l'innovazione del pensiero dell'artista non fa che generare dubbi e perplessità al punto da renderli tragicomici, e non soltanto per i suoi contemporanei?

Sì, in entrambi i casi la percezione dei due “eroi” è difforme da quella del resto del mondo e da qui nasce la comicità dell'uno ( Lourdes ) e l'ironia dell'altro ( Piero ).

Per capirci cito un esempio presente in Piero della Francesca : il giovane assistente Paolo cerca di spiegare a Giovanna l'innovazione apportata dagli studi dell'artista sulla prospettiva. Per farlo, prende in mano una sedia e spiega che quella sedia sembra uguale per tutti, ma non è così. Giovanna, con ironia, gli chiede come possa accadere che la sedia cambi, e allora lui le spiega che la sedia si ingrandisce e si rimpicciolisce a seconda che la si guardi da vicino o da lontano e che essa, nella sua ingenua semplicità, sarebbe la base degli studi di Piero sulla prospettiva. Da qui nasce un gioco buffo di fraintendimenti in base al quale Giovanna domanda che senso abbia stabilire regole per ingrandire o rimpicciolire le cose in base al proprio capriccio. Insomma, si capisce che è lo scarto percettivo rispetto alla consistenza del reale a determinare l'isolamento degli “eroi” e a porli in situazioni che a volte danno vita a equivoci divertenti, altre a drammatiche solitudini.

Ultima curiosità: come è stato lavorare, da “regista”, con Andrea Cosentino? Un attore che si distingue di solito per una naturale autonomia a “ritagliarsi sulla pelle” i personaggi che interpreta? Mi è sembrato di notare, infatti, che “vivesse di vita propria d'attore”, al di la della regia e al punto che persino le suggestive creazioni musicali eseguite dal vivo da Danila Massimi risultassero una forzatura per scandire i tempi della narrazione.

Andrea, quando lavora in proprio, è un artista che si cuce i suoi personaggi sulla pelle a tal punto che non scrive mai i copioni dei suoi spettacoli, ma modella le sue storie sul palco, prova dopo prova. In questo caso, invece, ha accettato di lavorare a partire da due livelli di testo: quello letterario della Matteucci che abbiamo letto tante volte assieme, e poi il mio adattamento che portavo di giorno in giorno ad Andrea e che lui imparava a memoria con un processo che gli era del tutto nuovo, come attore. Se poi l'impressione finale è che quei personaggi paiono usciti dalle sue storie consuete, lo prendo come un complimento: significa che io - come drammaturgo e regista - e lui - come attore - abbiamo reso viva la materia letteraria dalla quale siamo partiti.

Rispetto agli innesti musicali di Danila Massimi, per me non hanno la funzione di scandire la fine di una scena e l'inizio di quella successiva, ma piuttosto illuminano, fin dall'inizio, la dimensione interiore e spirituale del personaggio di Maria, che anche quando appare più lontana dalla fede e critica verso Dio, ha già dentro di sé quel germe che le permette di aprirsi alla rivelazione finale. Non volevo che questa visione divina arrivasse di sorpresa, ma cercavo qualcosa che la preparasse in una maniera non troppo ovvia. La musica di Danila è come le bricioline di pane lasciate da Hansel e Gretel lungo il loro cammino: c'è chi ci passa sopra senza notarle, c'è chi le scorge come una traccia verso la salvezza.

 

Ph. 1,2,3 - Piero della Francesca. Il punto e la luce, @Manuela Giusto
Ph. 4,5,6 - Lourdes, @Manuela Giusto