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Paranza-Il Miracolo : un'umanità che reclama il diritto ad esistere

Intervista a Katia Ippaso

di Letizia Bernazza

Nella locandina dello spettacolo Paranza- Il Miracolo , ho notato con grande interesse che il testo che tu firmi è innanzitutto un progetto che nasce da un lavoro collettivo, elaborato insieme a Clara Gebbia, Enrico Roccaforte e Antonella Talamonti. Mi puoi raccontare le motivazioni e la genesi della messinscena?

È stata un'idea di Clara Gebbia, quella di farmi entrare a far parte della loro compagnia che aveva già realizzato Il rosario , un bellissimo spettacolo di teatro musicale che però in quel caso si appoggiava ad un testo classico (di Federico De Roberto). Clara conosceva la mia scrittura e ha pensato che potesse risuonare assieme ai tanti fili musicali e visivi che stavano sciogliendo sul palcoscenico. Così ho incontrato lei ed Enrico, ormai quasi due anni fa. Avevano l'idea di raccontare in una forma rituale la crisi economica, lo stato di abbandono in cui siamo caduti, nel nostro Paese, ormai da qualche anno. Sono nati così i quattro personaggi: un manager, capo delle risorse umane che viene all'improvviso licenziato, una donna borghese che perde la casa in seguito al terremoto dell'Aquila e che si adatta a vivere in una macchina, una malata che non può permettersi le cure mediche, e una grande cantante costretta ad inventarsi qualunque mestiere per sopravvivere. Bisognava affrontare il grande tema dei diritti perduti, dell'attentato alla vita che sistematicamente è stato compiuto in Italia, senza che nessuno facesse nulla, al di là delle vuote forme retoriche. A quel punto, è entrata in scena Antonella Talamonti, che è la compositrice della compagnia. Il progetto è firmato da tutti e quattro, ma pian piano abbiamo capito come distribuirci i compiti. Io ho inventato alcune figure, come la Madonna delle lucine intermittenti, che ancora oggi apre e chiude lo spettacolo, ma quei testi lirici che io andavo scrivendo sarebbero stati musicati da Antonella, li avrebbe cantati Germana Mastropasqua (in quel preciso caso), oppure in polifonia Alessandra Roca, Nené Barini e Filippo Luna. Sempre accanto a Clara ed Enrico, che andavano cercando il modo con cui dare forma spaziale e visionaria alla paranza. Ed è stato affascinante e anche complesso riuscire e trovare sempre la giusta densità, l'equilibrio. Dopo di che andava costruita la parte dialogata, per i quattro randagi che si trovavano per strada e assieme iniziavano una sorta di processione laica, in una sconosciuta città, di notte. Come farli parlare? Che relazioni creare? L'intento era quello di parlare dell'Italia di oggi non adottando gli stilemi del teatro di narrazione, ma dispiegando il racconto di una caduta - la caduta della classe media - in una forma spiazzante, dentro cui intrecciare dialogo, canto, polifonia, e soprattutto rito. Una fondamentale fonte di ispirazione per i miei compagni di viaggio sono stati gli anni di studio fatti con Giovanna Marini e nella Scuola di Musica di Testaccio, ma anche i viaggi di ricerca, compresi i riti della Passione, a cui hanno partecipato girando l'Italia. La mia formazione di giornalista combinata con una scrittura drammaturgica di stampo lirico avrebbe portato, secondo i miei compagni, altro nutrimento ancora. E così abbiamo montato i venti minuti con i quali presentarci al bando dei Teatri del Sacro. Dal momento che ci hanno detto sì, è cominciata la vera avventura. Abbiamo debuttato in una forma diciamo più concertistica, un po' più astratta e fissa, ma molto affascinate, a Lucca nel mese di giugno del 2013. Poi l'abbiamo lasciato decantare un po' (se si eccettuano tre repliche fatte nei teatri di cintura romana), per arrivare alla forma con cui lo spettacolo si è presentato al teatro India nel mese di marzo del 2015. Coprodotto dal Biondo di Palermo (dove ha debuttato a febbraio) e dal Teatro di Roma, appunto, adesso la Paranza ha appena cominciato a respirare, dopo tanto lavoro, tanti smontaggi, rimontaggi, cambiamenti, lavori sulla ritmica. Poi a maggio andrà all'Elfo di Milano e a Budapest.

 

Altra curiosità: Katia Ippaso è il dramaturg di Paranza . La figura del dramaturg , storiograficamente appartenente alla tradizione teatrale tedesca, quale ruolo pensi possa avere oggi  nel teatro italiano? Per prendere a riferimento un noto testo teorico di Claudio Meldolesi e di Renata Molinari di qualche anno fa edito dalla Ubulibri ( Il lavoro del dramaturg. Nel teatro dei testi con le ruote ), credi che il dramaturg sia una figura centrale del processo creativo dello spettacolo con il compito di esserne il “primo critico interno e il primo spettatore esterno”?

In una prima versione, accanto al mio nome c'era la voce “drammaturgia”, ma strada facendo mi sono accorta che non era la voce giusta. E così ho voluto che si scrivesse “dramaturg e autore delle liriche”. Perché, per un verso, avevo composto i testi lirici come La Madonna delle lucine intermittenti , Libera nos a malo , oppure Il giorno del giudizio del finale, mentre dall'altro canto la partitura dialogica dei quattro viandanti si veniva costruendo sulla mia scrittura insieme alla regia e con le sollecitazioni degli attori cantanti, che hanno creato, improvvisandole, delle battute che sono rimaste nel copione. È la prima volta che mi cimento in questo ruolo. Apro il bel libro di Molinari e Meldolesi che citavi e leggo: <<Per farsi collaboratore dell'arte… dei registi, il dramaturg dovette acquisire modi relazionali più che soggettivi e imprevisti nonché umili e audaci perché aperti a procedure controcorrenti>>. È un passaggio che si adatta bene a quello che anche a me è successo. Per fare il dramaturg , bisogna mettersi in una condizione di apertura e di accoglienza dei vari “nutrimenti terrestri” (così come li chiamava André Gide), e a al tempo stesso è necessario ritenersi responsabili della composizione scritta, della partitura che si allaccia al piano della parola. Per quanto mi riguarda, volevo dire una cosa precisa in una forma precisa, e spero di esserci riuscita. Volevo andare dritta alla questione tragica. Ma non ci volevo arrivare da sola. Ed è stata, la scrittura di Paranza- Il Miracolo , senza dubbio una scrittura per corpo e per voce, ascoltando le necessità di una compagnia numerosa che non casualmente si è ribattezzata col nome di Umane Risorse. Là dove i sensi si andavano plasmando attorno ad una immagine: quella della caduta e del riparo nel viaggio.

Perché hai sentito la necessità di elaborare anche delle liriche a corredo di un testo che ha già il suo punto di forza nell'urgenza “poetica” di un'umanità, la quale reclama il suo diritto ad esistere?

Anche se nei dialoghi i personaggi si esprimono in una forma più realistica, ci sono anche lì degli innesti ritmici e visivi che sembrano affiorare da un inconscio. Le parti scritte per le polifonie e i canti non potevano invece che essere in versi, liberi naturalmente. Secondo me l'autore non dovrebbe trincerarsi mai dietro una propria “poetica” che in questo caso si affida ad un linguaggio “supposto poetico”, deve essere colui che guarda a definire eventualmente “poetica” un'opera. Chi scrive sceglie però il verso, l'andamento, il punto di oscillazione interno. Nel mio caso, ho cercato di non sottrarmi alla necessità che sentivo di far parlare i personaggi in un modo che non fosse eccessivamente quotidiano. Tutto ciò si accordava con l'idea rituale di Enrico e Clara che va in cerca della manifestazione e dell'espressione extra-ordinaria. Ma non dovevano esserci ambiguità, autocompiacimenti linguistici. Bisognava esseri chiari. E soprattutto veri. I quattro personaggi che prendono forma in Paranza-Il Miracolo siamo anche noi. Negli ultimi anni, tutti abbiamo perso qualcosa, e il rischio di finire per strada non è così irreale. Per questo abbiamo cercato di dire le cose come sono. Evitando però il discorso vittimista-assistenzialista. Questi quattro randagi sono anche capaci di crudeltà, di tradimento, di violenza, di avidità, di arroganza. E al tempo stesso sono capaci di amore, di dolcezza, di solidarietà. Ci dovrebbero spingere alla commozione non perché sono miseri ma perché sono veri.

Che tipo di impatto ha avuto la messinscena sullo spettatore?

Ogni spettatore porta a casa il suo spettacolo. Ma è una verità che riguarda tutte le opere e tutti gli artisti. In questo caso, mi sembra chiaro che più si andava avanti con le repliche e più si raggiungeva in sala quella temperatura emotiva in grado di restituire l'energia del palcoscenico. La forma scelta da Paranza-Il Miracolo è insieme avanguardistica e tradizionale, fa riferimento alla grande tradizione orale eppure parla in forme contemporanee di ciò che ci è accaduto. Molti spettatori si sono riconosciuti in uno (o alcuni) dei personaggi rappresentati. O perché hanno vissuto direttamente ciò che viene narrato, o perché qualche persona vicina ha subito un destino simile. Verso il finale dell'opera, si incontra il fiume dei suicidi e si evocano i casi veri di chi in Italia negli ultimi anni si è tolto la vita perché, semplicemente, non riusciva più a sopravvivere, e aveva vergogna di se stesso. Non è difficile, per esempio, riconoscere il caso accaduto a Civitanova Marche: il suicidio di una coppia di anziani (non bastavano i soldi, cinquecento euro, della pensione di lei) a cui ha fatto seguito anche il suicidio del fratello della donna. In questa “Spoon River” dell'Italia di oggi non è difficile incontrare qualcuno che abbiamo conosciuto, o figurarci quello che ci sarebbe potuto capitare, se non fossero poi accadute altre cose in grado di “salvarci”. La forma dello spettacolo non è però depressiva, anzi ci sono momenti in cui si ride, o almeno si sorride. E questo aiuta a far passare certi contenuti. Anche perché sono attivi alcuni meccanismi della suspence per cui si vuole sapere come andranno a finire i nostri quattro portatori di paranza. La costruzione della “macchina teatrale” (la paranza da portare sulle spalle per arrivare fino alla madonna dell'Arco per chiedere la grazia) è in sé e per sé motore d'attrazione, il punto che calamita il senso, i sensi, le percezioni, i riti di vestizione, i sussurri e le grida di chi è caduto e si è fatto male ma non per questo rinuncia a camminare e a fabbricarsi, non più da solo, ma con i nuovi compagni di strada, il proprio miracolo.

* Katia Ippaso, giornalista e scrittrice, vive a Roma. Come autrice di teatro, ha composto diversi atti unici ( Maman , Vittime , Respiri ), tutti rappresentati e pubblicati. Attualmente sta lavorando ad una trilogia teatrale sul Giappone contemporaneo e sui suoi riti di passaggio: il primo movimento si intitola Doll is Mine .    È stato premiato con l'“Aide a la création”    dal Ministero della Cultura Francese ed è in fase di allestimento in Francia. Il secondo movimento, Hikikomori , porta anche la firma di Marco Andreoli. Sta ultimando il terzo movimento, Evaporati . Come saggista, per Editoria & Spettacolo, ha pubblicato: Le voci di Santiago , Io sono un'attrice – I teatri di Roberto Latini , Amleto a Gerusalemme . È redattrice del quotidiano “Il Garantista” - dove si occupa prevalentemente della sezione Ritratti – e caporedattrice del trimestrale “Outlet, per una critica dell'ideologia italiana”.