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L'occasione del Teatro Valle occupato: un richiamo alla responsabilità

di Katia Ippaso

Doveva essere un happening di tre giorni. È diventato il laboratorio permanente di un nuovo modo di fare cultura in Italia, la casa di teatranti in movimento, economisti disallineati rispetto al pensiero unico, cittadini in cerca di confronto, precari della conoscenza. Come è nato tutto questo?
14 giugno 2011, lunedì mattina, ore 10.00. La notizia dell’occupazione del Teatro Valle si diffonde in forma virale, così come sarebbe accaduto molti mesi dopo, con il falso video sulla falsa occupazione di Sanremo. Il T.V.O. è diventato oggi un simbolo, con il suo striscione immaginifico che pende dal loggione del bel teatro d’Italia: “Com’è triste la prudenza”. Per alcuni, il Valle in mano ai giovani protestatari rappresenta una tensione positiva verso un futuro non completamente assoggettato alle logiche dell’esistente. Per altri, un piccolo assembramento di poteri non confessati. Nel mezzo, la latitanza pachidermica delle istituzioni, a cui non è troppo dispiaciuto che ad occuparsi di questo interregno (dopo la cancellazione dell’Eti) fossero degli artisti fantasiosi e autodisciplinati, in grado di assicurare una programmazione e di risolvere i problemi di sicurezza.
Cosa vogliono gli occupanti del Teatro Valle? L’obiettivo principale è rimasto fondamentalmente lo stesso: vegliare sulla vocazione pubblica del teatro romano, impedendo l’affermazione di una logica proprietaria. E così, assieme a giuristi come Stefano Rodotà ed Ugo Mattei, si sono messi a studiare la forma che poteva prendere lo statuto di una nuova fondazione in grado di fissare alcune regole democratiche: dalla questione della direzione artistica fino al principio di un teatro sempre aperto ai cittadini che hanno il diritto di abitarlo al di fuori di una pura logica di consumo.
Le permanenze di artisti come Saverio La Ruina, Elisabetta Pozzi, Marco Martinelli, Paolo Rossi, Rem & Cap, Letizia Russo, Veronica Cruciani, accanto alle testimonianze autorevoli di Camilleri, Fo, Agamben, hanno lasciato, oltre al valore dell’adesione, tante tracce di pensiero in movimento che sta agli occupanti valorizzare e volgere al meglio. Intanto, la dichiarata vocazione “drammaturgica” (nel senso di narrazione del tempo presente) ha prodotto un comitato di lettura interna e la partecipazione di 120 drammaturghi che hanno mandato al Valle i loro copioni. Alcuni dei testi selezionati saranno presto messi in scena o realizzati in forma di mises en espace. “Drammaturgie nascoste” si chiama il progetto, ed ha l’ambizione di fornire un elettrocardiogramma non camuffato dello stato sentimentale e culturale del Paese (hanno partecipato molti autori sotto i trent’anni).
È vero, l’occupazione sta passando una fase delicata, ma invece di soccombere alla tentazione dell’invidia collettiva (“sono tutti figli di papà”) o dell’oblio (“va bene, ci hanno allietato le serate, e mò basta”), dovremmo tutti responsabilizzarci affinché quest’esperienza non diventi soltanto un ricordo di partecipazione giocosa, ma una piattaforma robusta di azione politica civile estetica. Un luogo simbolico come il teatro Valle, un antico teatro nel centro di Roma, potrebbe diventare il punto di attrazione e convergenza di un dissenso costruttivo che si sta formando nelle fila dei movimenti operai, studenteschi, femminili. Una possibilità di utopia concreta che potrebbe dare respiro anche a chi non si occupa direttamente di teatro ma riconosce ancora di far parte di una comunità, di una polis.