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Da Timon d'Athènes al Mahabharata, 40 anni al fianco di Peter Brook
Intervista a Marie-Hélène Estienne

di Carla Di Donato

Nel 1974 Marie-Hélène Estienne inizia a lavorare per Peter Brook per il casting di Timon d'Athènes ed è lì che nasce un sodalizio ed un'avventura teatrale di cui poco o nulla finora è trapelato. Nota ai più come fidata collaboratrice, alter ego, partner di Brook nella scrittura e nell'adattamento teatrale ( L'Homme Qui , Je suis un phénomène , Le costume , Le Grand Inquisiteur , Tierno Bokar …) e di recente nella regia ( Fragments , Un flûte enchantée ), anche ora il nome di Marie-Hélène Estienne appare al fianco di Brook a firmare la regia di Battlefield.

In questa intervista la stessa Estienne racconta il suo percorso accanto a uno dei maggiori innovatori del Teatro del XX secolo.

Avete dichiarato in una precedente intervista:<< Battlefield pone delle questioni profonde soprattutto sulla morte>>. Partiamo da qui per tracciare la vostra collaborazione con Peter Brook: come è iniziata?

La prima risposta che mi viene in mente è che tutti noi abbiamo paura della morte – pochi tra noi possono dire che affronterebbero questo momento senza provare immediatamente una certa sensazione d'angoscia. Siamo qui solo di passaggio e facciamo tutto ciò che possiamo per non pensarci troppo.

Questo contatto con la morte è legato agli choc ricevuti durante la vita, all'inizio sono state le prime morti, mio nonno e mia nonna, quando ero bambina e adolescente, poi padre, madre, fratello, sorella, un amico – ma non ci si sofferma su, a quell'età si soffre. I bambini che stanno per morire possiedono una saggezza esemplare, non provano la paura che hanno i loro fratelli/sorelle più grandi, non hanno ancora conosciuto quella paura che in seguito ci accompagnerà per tutta la vita, essi la accettano a modo loro, è molto toccante.

Tutto ciò per affrontare il Mahabharata – uno choc scoprire che si può vivere fianco a fianco con la morte, anche con la povertà - ce la possiamo fare – e questo perché siamo liberi, “crediamo” nella vita finché c'è e se si rispetta una certa forma di coscienza morale si affronta e si vive persino in pace in un mondo ostile. Il Mahabharata è una lezione di vita, ci chiede di vivere “bene” per morire “bene”, ci chiede di far fronte alla nostra futura scomparsa. Dopo qualche anno il fatto che il re cieco, sua moglie e sua cognata vogliano andare a morire nella foresta – finalmente in pace attraverso la più grande austerità – mi è parsa una grande lezione di vita , così rispettosa di ciò che deve essere fatto prima di lasciare questa terra, così nobile e umile; noi siamo molto distanti da tutto ciò ma questo ci può ispirare, farci comprendere come rispettare ciò che ci è dato, aprendo gli occhi.

Grazie alla sua stretta collaborazione con Peter Brook avete avuto l'opportunità di vedere, attraversare e vivere dall'interno numerosi e differenti mondi e civiltà teatrali, umane, politiche, un buon esempio è quando all'inizio degli anni Ottanta avete attraversato l'India, su richiesta di Brook, per assistere a tutte (o quasi!) le messe in scena del Mahabharata . Dopo più di trenta anni, quale è stato il vostro viaggio, a partire da lì fino a firmare la regia delle produzioni brookiane?

Rispondere a questa domanda richiede molto tempo ed un giorno dovrò farlo, per il momento non posso davvero dare una risposta… L'India è stata una tale scoperta, un tale aiuto nella mia vita, la risposta a tante domande, e allo stesso tempo l'orrore della povertà e della schiavitù, i mendicanti, tutto ciò mostrato da persone luminose e generose.

Sappiamo che avete iniziato facendo i casting, osservando e scegliendo gli attori per Brook, alcuni o la maggior parte dei quali erano totalmente sconosciuti prima di diventare membri del Centro di Ricerche Teatrali alle Bouffes du Nord. Avete dichiarato a questo proposito che <<bisogna trovare l'uomo nell'attore>>.

Ma proprio qui sta tutto l'insegnamento di Peter, per lui c'è l'attore, certo, ma soprattutto c'è la persona. Ciò che più mi ha colpito all'inizio del mio lavoro al suo fianco, e poi per molti anni, è stato che si avvicinava all'attore e gli parlava talmente a bassa voce che nessuno sapeva che cosa stesse dicendo, noi vedevamo la trasformazione in atto senza sapere cosa l'aveva scatenata. Mi viene in mente un aneddoto: ad un certo punto, mi sono ritrovata da sola in tournée con uno spettacolo, La tragédie d'Amlet in versione francese, non potevo più nascondermi dietro Peter, dovevo “manifestarmi”. Volevo dire delle cose che avevo osservato e quando mi rivolgevo all'attore sentivo che non funzionava, non si toccava la verità, mi rendevo conto che cercavo di fargli vivere la “mia” visione e che avevo bisogno di entrare invece nella sua per poterlo aiutare, questa è stata una lezione molto importante, tutto diventava improvvisamente vero e potevamo dialogare, senza tutto questo sarebbe rimasto un soliloquio!

Nel “Research Material” per il Mahabharata, come per altri spettacoli presenti negli Archivi di Peter Brook a Londra, si rimane colpiti dalla quantità e qualità delle foto e riproduzioni visive dei volti delle persone comuni (in strada) o di rappresentanti della vita politica, sociale, religiosa, che chiariscono i tratti distintivi ricercati per i vari “personaggi”.

Credo che nel lavoro di Peter in Inghilterra questo approccio fosse molto importante. Ha continuato anche con il C.I.R.T. ma forse in un altro modo, con orizzonti leggermente diversi ed una ricerca ancora più profonda… se possibile!

Quale era dunque per Brook il processo completo di ricerca degli attori? Quali qualità e doti dovevano possedere affinché si rivelassero adatti per le produzioni brookiane, come ad esempio il film Rencontres avec des hommes remarquables , il Mahabharata … fino ad arrivare a Battlefield ?

Nessuna teoria, nessun “trucco”. La necessità è l'unica direttiva, la necessità di trovare la persona che incarnerà il personaggio ma con souplesse e anche con coraggio, niente è mai perfetto, la persona deve essere trovata e il processo delle prove chiarirà tutto, o qualche volta no, ogni giorno è diverso, il dubbio è sempre lì, non siamo i detentori della parola giusta, il lavoro è più umile di quanto si creda dall'esterno. Non farsi prendere dalle cose facili, cercare, cercare ancora, i personaggi si trovano, sono lì, gli attori li incarnano e si lanciano ogni sera nell'avventura, un'avventura umana che li abiterà per molto tempo.

Avete iniziato a dedicarvi alla scrittura (teatrale) con Jean-Claude Carrière collaborando con lui per il testo L'Homme Qui : potreste dirmi come si svolgeva il lavoro con questo altro protagonista del lavoro di Peter Brook (a partire dal Mahabharata )?

Ho collaborato alla sceneggiatura del film del Mahabharata e poi con Jean-Claude e Peter abbiamo scritto a tre mani Un amour de Swann . Quando è arrivato il progetto di L'Homme Qui – che non si chiamava ancora così ma era ispirato al libro di Oliver Sacks (n.d.r.: L'uomo che scambiò sua moglie per un cappello ) , un libro molto bello, rivoluzionario per il modo in cui vede nella persona malata un essere umano a tutto tondo e non una specie di fagiolo ”, qualcosa si è messo di traverso nel percorso. Il libro era meraviglioso, ma era pur sempre un libro e per farne uno spettacolo teatrale occorreva che ci fosse del vissuto, così diventava personale, quindi il progetto ha cambiato forma e abbiamo deciso di lavorare con quattro attori e un musicista. Siamo andati in ospedale tutti i giorni per molti mesi, non sapendo ancora se lo spettacolo sarebbe stato realizzato oppure no. È così che ho iniziato a scrivere, con Peter. Avevamo degli appunti, dei fogli sui quali era scritto ciò che vedevamo e fino all'ultimo non sapevamo davvero in che ordine avremmo raccontato ciò che avevamo visto, c'è stato un grande lavoro dietro.

In un'intervista avete parlato di qualcosa di incompleto, come un filo teso, che porta lei e Peter Brook a lavorare di nuovo su testi o spettacoli precedenti.

Incompleto non è la parola giusta, direi piuttosto “senza fine”, siamo sempre lì, tra noto ed ignoto.

Avete anche dichiarato che il Mahabharata non ha paura della morte, suggerisce di vederla diversamente e che in Battlefield provate a dare agli spettatori “quella calma” poiché di fronte alla morte c'è il dolore “ma c'è anche qualcosa di superiore”.

Si! Il dolore è solo passeggero, per il Mahabharata il dolore è catturato tra le grandi fila del tempo e deve essere purificato, perché la morte fa parte della vita. 

A tal proposito, a mio parere il tamburo alla fine dello spettacolo è una “silloge”muta indimenticabile. In che modo avete voluto creare questa sensazione in Battlefield e, in questo caso, qual è stata la vostra elaborazione di un tema così profondo?

Il tamburo alla fine è nelle mani di un essere eccezionale (n.d.r.: Toshi Tsuchitori) che ha, allo stesso tempo, l'umiltà e la forza di affrontare il “mistero” con tutto il suo essere; il suono che sentiamo ci penetra muto, è questo che ci tocca, capire senza bisogno di parole è il grande dono della musica.

Dopo Roma, Battlefield è andato in scena al Teatro Cucinelli di Solomeo, un piccolo borgo vicino Perugia nel quale l'imprenditore Cucinelli ha promosso e realizzato negli ultimi anni un imponente lavoro di restauro architettonico ed ha fondato una scuola ispirata ai valori del Rinascimento per la formazione dei giovani, per diventare artigiani altamente specializzati ed esseri umani preparati ad affrontare il futuro dal punto di vista professionale, culturale e spirituale. Sembra che nel mondo contemporaneo un sentimento concreto di speranza possa emergere dal lavoro di artigianato (tessile, architettonico… teatrale), o, diciamo, dall'arte “dei piccoli passi”. Ci piacerebbe davvero conoscere il vostro punto di vista a tal proposito: se possibile, ci può raccontare come si svolge il lavoro di artigianato di Marie-Hélène Estienne?

Si, è assolutamente giusto, con molta misura, ovvero davvero a piccoli passi, lucidamente, sapendo che non si cambierà la condizione del mondo, ma che si può migliorare la vita e si può condividere il rispetto e l'amore per l'altro. Percepisco questo quando, durante le tournées che ci portano in tutto il mondo, riunisco dei giovani registi e condividiamo per un po' di tempo la ricerca de L'Homme Qui : ciascuno di loro entra in questo tema in modo molto naturale. È un piccolo momento di vita in comune, semplice eppure forte, che ci unisce.

Quali sono i suoi progetti futuri dopo Battlefield?

Vi invio il testo che sarà pubblicato nella brochure del Bouffes du Nord riguardo al progetto che abbiamo chiamato I muri parlano (26 – 28 novembre 2016).

Riprendiamo The Valley of Astonishment a Bouffes du Nord a fine novembre; Battlefield andrà in tournée l'anno prossimo iniziando da Brooklyn, dalla BAM (Brooklyn Academy of Music, 28 settembre - 9 ottobre 2016), nella sala che è stata creata per il Mahabharata , chiamata “The Harvey” in omaggio a Harvey Lichtenstein, il quale aveva speso tutto il suo talento e la sua energia per aprire questo vecchio teatro abbandonato e farne il gemello del Bouffes du Nord.

I muri parlano. Echi di un lavoro.

(Traduzione di Carla Di Donato del testo pubblicato nella brochure del Bouffes du Nord – stagione 2016/2017).

Proveremo a scoprire con il pubblico, in tre pomeriggi consecutivi al Bouffes du Nord, alcuni segreti di ciò che le mura del Bouffes du Nord hanno vissuto a partire dalla creazione del Centro Internazionale di Ricerca e Creazione Teatrale nel 1974 ad opera di Peter Brook e Micheline Rozan.

Nei nostri archivi abbiamo trovato dei documenti preziosi: film girati in teatro, registrazioni delle prove, interviste, un documento meraviglioso sul teatro ancora in costruzione, I Segreti di Carmen , girato da una troupe inglese, documenti straordinari di ricerche sul cervello condotte da Oliver Sacks, interviste di pazienti così umani, così coraggiosi data la tempesta che vivono.

Tutto ciò ci ha spinti a voler condividere queste esperienze e ci permetterà di scambiare insieme le nostre impressioni, di metterle in questione, discuterle, viverle.

Peter Brook – Marie Hélène Estienne