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Un nuovo Abramo a teatro. Perchè?

Intervista ad Ermanno Bencivenga

di Carlo Dilonardo

Nota al lettore: vi consigliamo di consultare la recensione al volume oggetto dell'intervista cliccando qui: Abramo,di Ermanno Bencivenga

 

Professor Bencivenga, gli esempi che la filosofia ci offre, di pensatori che hanno scritto in forma teatrale, sono numerosi. Il suo Abramo ha una forma drammaturgica compiuta. Perché lei, in questo caso, ha scelto la forma del copione e non di un romanzo, di un trattato, di un saggio, per esempio?

In Abramo si esprime un conflitto fra due concezioni della fede; ed è un conflitto che io non voglio risolvere per il lettore/spettatore – voglio che sia lui, o lei, a venirci a patti per conto suo. Quindi il tema va proposto come uno scontro in ultima analisi irrisolto fra voci diverse. Avrei potuto farne un dialogo filosofico, come nei miei due libri precedenti Tre dialoghi: un invito alla pratica filosofica e La libertà: un dialogo; ma qui le due concezioni non sono solo sostenute da argomentazioni di varia cogenza, sono anche accese da profonde, intense emozioni. Il teatro s'impone come luogo naturale per inscenare un simile confronto, in cui i personaggi sono coinvolti sull'intero spettro della loro umanità.

Nel suo Giocare per forza: Critica della società del divertimento lei dedica grande attenzione all'importanza del gioco, quale manifestazione della sfera fantastica, della ricerca libera e volontaria. Ritiene che oggi il teatro possa essere ancora un gioco immaginifico e quindi supportare la filosofia e altre discipline? In che modi?

La filosofia, per me, è gioco, come ho spiegato, per esempio, nel mio Filosofia in gioco. È esplorazione coraggiosa, appassionata e trasgressiva di altre forme possibili di soggettività, di convivenza e di rapporto con il mondo. Per motivi soprattutto di cautela, tale esplorazione viene condotta entro i limiti del pensiero e del linguaggio, diventando così un gioco intellettuale: gli scenari inventati dalla filosofia vengono descritti piuttosto che vissuti. Il teatro offre la straordinaria opportunità di andare oltre: di rappresentare questi scenari, di vederli agiti invece che solo raccontati o argomentati. E non dimentichiamo che, in molte lingue, a teatro si gioca.

In un recente incontro tenutosi a Martina Franca, il filosofo Salvatore Veca ha affermato di aver scritto La gran città del genere umano: Dieci conversazioni filosofiche discutendo di grandi questioni filosofiche con un linguaggio elementare e dedicando attenzione ai bambini (in particolare, alla sua nipotina). Anche lei nel 1991 con il volume La filosofia in trentadue favole si è posto l'obiettivo di rivolgersi al bambino presente in ogni essere umano, che lo rende capace di stupirsi e incantarsi di fronte alle domande della filosofia. Quanta di questa capacità di stupire e sorprendere rintraccia nella filosofia e quanta nel teatro?

Dalla mia risposta alla domanda precedente sarà chiaro che per me il bambino è il filosofo per eccellenza, e che un adulto può essere un filosofo solo se a capacità intellettuali mature continua ad accompagnare la curiosità, l'audacia e l'irriverenza di un bambino. Le stesse doti portano il bambino a essere naturalmente attore: a imitare e impersonare chi lo circonda. Le due attività sono intimamente legate: la creatività che si esprime nel gioco filosofico non procede autoctona dagli abissi insondabili del nostro io; nasce invece dal contributo, dal dono di mosse e di idee che costantemente ci elargiscono tutti quelli che incontriamo – un dono, un contributo che potremo mettere a frutto solo se, letteralmente, faremo quelle persone nostre : se impareremo a muoverci, atteggiarci e pensare come loro.

Torniamo al suo Abramo. Perché l'esigenza di scrivere questo Abramo?

La fede di cui si parla esplicitamente in Abramo è la fede per antonomasia, la fede in Dio; e il protagonista del dramma è quello che è stato definito (da Kierkegaard) il più grande campione della fede. Ma lo scontro che viene rappresentato ci riguarda tutti, anche in contesti a prima vista meno elevati. Riguarda la fiducia che proviamo, o non proviamo, per una persona amata, per un amico o per un altro membro della nostra comunità: dobbiamo abbandonarci a lui/lei o dobbiamo esigere delle prove? È un tema universale, sul quale tutti siamo invitati a riflettere e a prendere posizione.

In una battuta del testo, lei fa dire ad Abramo «Non c'è bisogno di capire quando c'è la fede. Se si capisce, bene; se no, si obbedisce lo stesso!». Sono parole molto forti in tempi come questi in cui realmente non si sa più dove inizia la religione e dove il martirio. Le chiedo: questi fenomeni hanno influito sulla sua rivoluzione copernicana della storia di Abramo?

La semplice risposta a questa domanda è: No, recenti fenomeni non hanno influito sulla produzione di Abramo . L'idea del dramma è nata in me almeno vent'anni fa e ho cominciato finalmente a scrivere quando ne ho avuto il tempo. Durante questo lungo periodo di gestazione ho fatto alcuni passi preparatori, fra cui il principale è stato leggere l'intera Bibbia . Ma non è strano che il dramma riecheggi l'attualità: esplorando il possibile, la filosofia spesso anticipa l'attuale.

Una domanda su un personaggio in particolare. Isacco torna e quindi con lui tutto ciò che ne consegue in fatto di rapporti con la famiglia di origine? O è un puro flusso di coscienza della povera madre? Un fantasma pirandelliano in cerca d'autore… e ha incontrato lei?

Mi permetterà di dare a questa domanda (nel gergo dei filosofi del linguaggio) una risposta non diretta ma correttiva (del genere, per intenderci, di chi risponda alla domanda «Quando hai smesso di fumare?» dicendo «Non ho mai fumato» o «Non ho mai smesso»). Io non credo che abbia senso chiedere a un autore che cosa voleva dire con un certo testo. Quel che voleva dire è esattamente quel che ha detto, che certo va interpretato; ma l'interpretazione dell'autore non vale di più di quella di un (altro) qualsiasi lettore. Per cui le rigiro la domanda: Chi è, per lei, l'Isacco che ritorna?

Le faccio una domanda che va oltre il testo. Come si evolverà il rapporto tra Abramo e la sua famiglia dopo aver commesso il fatto?

In una delle mie favole filosofiche la protagonista capisce che i libri, in realtà, non finiscono mai. Finiscono i volumi in cui si scrivono, o per meglio dire si cominciano a scrivere, i libri; ma quando finisce un volume il lettore non solo è libero ma anzi è invitato a proseguire il libro per conto suo. Questo dunque è il mio invito: a proseguire il gioco.

«Abramo ha violato la logica dell'amore in nome di una fede ottusa» recita la quarta di copertina. Secondo lei, che cosa avrebbe dovuto fare?

Questo è esattamente lo scontro che il dramma inscena, sul quale il lettore/spettatore dovrà decidere per conto suo.

Se lei fosse un attore, quale ruolo riterrebbe consono a sua presunta interpretazione?

Quello di Abramo, naturalmente, perché è in lui che si manifesta con maggiore evidenza il conflitto.

Abramo – Sara – Isacco: chi o, perché no, che cosa sono stati? E oggi, ci sono dei personaggi viventi che le fanno pensare ai suoi personaggi eterni?

Sono stati archetipi della fede, o fiducia, che gli esseri umani hanno, o non hanno, nella vita e l'uno nell'altro. Archetipi che vengono riproposti ogni giorno, in ogni rapporto umano: personale, familiare o sociale.

Leggere Abramo è assolutamente stimolante ma, nello stesso tempo, spiazzante. Mi spiego meglio. Scritta in una forma classica di copione, con didascalie opportune e funzionali, la vicenda «vera» del patriarca è accaduta moltissimo tempo fa; poi, la sua rivisitazione è dei nostri giorni; infine, i fatti che lei racconta succedono tutti i giorni nel nome di un dio. Ora, si faccia regista del suo testo. In quale momento della Storia inserirebbe questa che lei racconta?

Io non credo nella tesi hegeliana, cui aderisce (per lo più inconsapevolmente) buona parte della cultura contemporanea, secondo la quale ogni opera letteraria o artistica deve riflettere il suo tempo. Per me la storia non è una camicia di forza ma un repertorio di attrezzi, dove pescare di volta in volta quel che ci serve e ci ispira. In questo caso, io ho scelto volutamente un linguaggio «alto» e arcaico perché intendevo segnalare l'universalità del tema, e la sua atemporalità. Oggi noi possiamo leggere o rappresentare Agamennone di Eschilo o Le baccanti di Euripide come sono state scritte più di duemila anni fa, e capirle e rimanerne affascinati e turbati, proprio perché i loro temi e il loro linguaggio sono senza tempo. Io ho scritto con questo tono e in quest'ottica. Non sta a me dire quanto valga quel che ho scritto, ma certo se dovessi metterlo io in scena lo farei nel rispetto dell'austerità e dell'essenzialità del testo e del suo linguaggio, usando il contesto biblico come metafora di ogni contesto.

Ho accennato, nel finale della mia recensione, che il testo drammaturgico in questione è allo studio di una messa in scena con la regia di Teresa Ludovico per Teatri di Bari. Il rapporto tra un autore ed il suo «adattatore» è uno dei più complicati in teatro. Ci sono dei momenti, delle battute, dei personaggi che vorrebbe non fossero «adattati»? E, soprattutto, se ne ha letto già una prima stesura, che cosa per lei è filosoficamente corretto e non va assolutamente eliminato e, di contro, che cosa – a suo avviso – è teatralmente consigliabile che venga detto-visto?

Le risponderò con una variante della mia risposta alla sua sesta domanda. Nel Medioevo, era comune considerare la pubblicazione di un testo una forma di generosità: l'autore, cioè, metteva in pubblico le sue idee, perché altri le usassero come volevano. È come mettere «al mondo» un figlio: a un certo punto bisogna accettare il fatto che se ne andrà da solo per il mondo e farà quel che crede. Io non sono padrone del mio testo né depositario del suo «autentico» significato: chi lo adotterà e lo adatterà ne farà quel che crede e io, ne sono sicuro, imparerò dalla sua interpretazione.