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Grotowski e lo Spettatore

di Giuliano Campo

SECONDA PARTE

È con Akropolis che il tentativo di realizzare quell'atto magico di unione dei due ensemble, gli attori e gli spettatori, raggiunge il suo apice, e questo grazie a una scoperta fondamentale: per ottenere una partecipazione autentica, bisognava presentare un'alterità, creare una frattura, un abisso tra i due gruppi. Per farlo, bisognava allontanarsi dall'illusione di creare un teatro rituale. Da un punto di vista drammaturgico, costringeva al sentimento della crudeltà estrema della sincerità della vicenda che appariva di fronte, e in mezzo, agli spettatori di Akropolis , quella dei morti del campo di concentramento di Auschwitz, che in realtà distava pochi chilometri dalla cittadina di Opole, sede del teatro della compagnia. Questo portava immediatamente i testimoni di quell'evento a sentire la risonanza di quel qualcosa di alto che è stato profanato; lì il sacro cadeva e l'esperienza diventa teatrale, laica. Ora, così, l'oggetto del mistero, nella sua natura di archetipo che nasce dall'inconscio collettivo, si poteva manifestare, si rivelava.

La compartecipazione emotiva totale, poi, esplodeva grazie a una coincidenza paradossale, la chiarezza della distanza dei ruoli, dello statuto costitutivo dei due diversi gruppi, con la vicinanza spaziale degli stessi.

Ricorda Flaszen che tutti gli esperimenti svolti sullo spazio scenico non erano motivati dall'intenzione di concepire nuove soluzioni architettoniche, ma di trovare il centro, il nucleo del teatro. In Akropolis fu la decisione di attuare una separazione radicale dei due mondi, quello degli attori e quello degli spettatori, a rinnovare la conoscenza di un antico e perduto sapere teatrale, quello per cui quanto è più vicina l'azione, tanto essa è più distante psicologicamente agli astanti. Ecco la soluzione tecnica che segue la rivelazione concettuale quindi, la scoperta: per ottenere la comunione primitiva bisogna realizzare una distanza abissale emotiva, unita alla vicinanza fisica; gli spettatori devono essere mischiati con gli attori. Ecco il risultato più riuscito della dialettica di apoteosi e derisione sull'asse del rituale, dove l'ironia, con il suo lato tragico, istruisce di nuovo il mito, riproduce l'archetipo, il pensiero primitivo attraverso una rappresentazione collettiva, il teatro. ( 9 )

Il tentativo di un rituale laico è così, senza che venisse questa volta cercato, compiuto, in una maniera che è efficace, che propone un modello che permette di astenersi dall'esperire quelle reazioni usuali che si possono osservare nei cerimoniali costruiti – anche nel teatro corrente, che Grotowski intendeva superare – per inebetire i partecipanti, o per suscitare i bassi istinti della folla.

Poiché questo accade quando si vuol resuscitare il rituale a teatro; alla ricerca della spontaneità originaria si fa appello alla spontaneità disordinata, e ciò che si ottiene è il caos totale, la mancanza di significati e di linguaggio. Qualora invece si cerchi il rituale nel senso del mito, si ottiene solo un vuoto spettacolo “ecumenico”, una congerie sterile di illusioni, simboli e frammenti di varie religioni, dalle quali l'uomo contemporaneo si è allontanato.

Questa volta però, in Akropolis , la compagnia era riuscita a superare tutti i tentativi precedenti e a loro contemporanei di questo tipo. Il caos era certamente evitato grazie al rigore formale dell'opera e al solco creato tra i perfomers e i testimoni, e le reazioni degli spettatori non erano più programmabili e ripetibili, erano invece sempre diverse nelle varie presentazioni dello spettacolo, e diverse per ciascuno. Ognuno era spinto a compiere un confronto con il mito, che qui mostrava il suo concreto significato di immagine sintetica delle esperienze cruciali delle generazioni passate, e non semplice rappresentazione di icone appartenenti a culture antiche, quant'anche originarie, o lontane.

Eppure, non ostante i progressi raggiunti, ci dice Grotowski, il meccanismo non funzionava come si era desiderato.

A questo punto il fallimento sembrava irrimediabile, perché gli esperimenti erano stati condotti con il massimo della precisione e dell'impegno. Se agli inizi dell'avventura con il Teatr Laboratorium, gli attori avevano ampi spazi di improvvisazione e di creazione sia nelle prove che sulla scena, ora, in Akropolis , tutto è stabilito, costruito, studiato nei minimi dettagli, perfino la parte vocale, che non è cantata, è stata realizzata con l'ausilio di un musicista. Non c'è un singolo gesto che non nasca da una profonda autopenetrazione dell'attore, non c'è un movimento sulla scena che non sia stato elaborato sulla base di uno studio della reazione del singolo spettatore, posto in quel determinato spazio per quella specifica ragione.

Grotowski nota come la dialettica di apoteosi e derisione non funzionasse con il dovuto rigore in entrambe le sue polarità per ogni spettatore; in alcuni funzionava nel senso dell'apoteosi, in altri della derisione. A fronte di molti che reagivano a questa dialettica con una “notevole spontaneità, non ostentata, ma autentica, profonda… che per loro… funzionava in pieno”, per molti altri non funzionava. Anche quando era efficace, le reazioni si ottenevano su piani diversi; direttamente l'apoteosi, nel corso della esperienza spettatoriale immediata, e successivamente la derisione, con lo strumento del pensiero, dell'analisi della struttura dello spettacolo. Dal punto di vista sperimentale, il meccanismo mancava di omogeneità, non produceva l'interezza delle reazioni che ci si potevano aspettare, e in fin dei conti non poteva essere utilizzato come un vero e proprio modello. Il tentativo di realizzare il teatro rituale, laico, non religioso, nell'ambito del quale il mito o archetipo si riproduceva nel senso della riapparizione nel testimone di un legame con immagini appartenenti alle generazioni precedenti, rischiava di lasciare il posto alla semplice imitazione, stilizzazione del mito, delle immagini mitiche conosciute, realizzate artisticamente ma passivamente. Lo stallo era oggettivo, il motivo era l'uso improprio dello strumento, il teatro, usato per raggiungere lo scopo, extra-teatrale, di riconciliare l'essere umano con se stesso, per permettergli di raggiungere quel nascondiglio segreto delle aspirazioni e credenze autentiche che abita ciascuno di noi.

Ma è proprio questo punto, ancora, l'analisi delle reazioni degli spettatori, che induce a nuove svolte, a nuove rivoluzioni, esistenziali e estetiche.

Grotowski ripercorre la storia del teatro, definendola come un duello tra due istanze, quella realistica, di imitazione della vita, e quella della creazione di un'illusione. La sua ricerca si era orientata a tentare la riunificazione, la coincidenza delle due, proponendo una modalità che provocasse una duplice reazione contemporanea allo spettacolo del performer e dello spettatore – sempre intesi singolarmente – nella quale l'aspetto della totalità organica conteneva l'istanza naturalistica, la necessitaà di toccare la vita reale. Il risultato che si cercava era l'atto, hic et nunc , dello svelamento di se stessi, comparabile a un atto di confessione, di denudamento, di rivelamento, di riscoperta sul solo terreno della propria vita. L'attore quindi, a prescindere dall'artificio usato, manifestava la propria esperienza, e le fonti non potevano che essere trovate negli impulsi che nascevano dal profondo del corpo, e riproposti, senza recitare, nel tempo presente. Per ottenere questo risultato paradossale, questa coincidenza illogica di struttura e atto reale, è necessaria una lunga e attenta preparazione, una costruzione attenta di una partitura, fisica e vocale (dove la parte vocale altro non è che uno degli aspetti del lavoro attraverso il corpo) che non eviti le contraddizioni ma le affronti con la consapevolezza che solo esse possono portare a conoscere l'essenza della realtà. D'altronde il rituale primitivo, che per un europeo non è che espressione di spontaneità, è in verità preciso, si configura in liturgie, che sono distillati di esperienze collettive, e pur nelle variazioni si oppongono al caos, perché manifestano quella certa linea delle azioni umane che è il risultato della coincidenza paradossale di un comportamento sia preparato a priori che spontaneo.

Grotowski si ricollega qui al lavoro di Stanislavskij sulle azioni fisiche, alla scoperta che il corpo non solo contiene la memoria, ma è esso stesso memoria della propria esistenza, sia sensoriale che emotiva. Il processo indicato da Stanislavskij è proprio questo, parte dalla rivelazione di morfemi provenienti dal mondo affettivo, di impulsi che provengono dall'interno del corpo e che si manifestano all'esterno come gesti, punti finali di un metodo di disvelamento di una intima natura umana. Il passaggio dalla vita quotidiana all'opera, non procede in maniera casuale, e le emozioni non possono essere stabilite una volta per tutte e riproposte. Per raggiungere l'agognato stadio oggettivo dell'arte – che coincide con il rituale condiviso – è necessario passare dalla partitura di impulsi vivi al sistema di segni. Bisogna passare dalla “fase 1”, che si risolve nel “credo” in un dato comportamento, perché è il risultato della ricerca di impulsi vivi, alla “fase 2”, nella quale si può affermare: “capisco”, poiché questo esiste non soltanto per te, primo testimone o regista, ma anche per gli altri, per qualsiasi spettatore o testimone.

Ora, questo può accadere qualche volta, nella vita e per caso, nell'arte. La difficoltà risiede nel produrre lo stesso risultato a comando, rinnovare questo atto di confessione nel tempo presente.

È qui che il teatro, la sua tecnica, può ricollegarsi al rituale, da cui trae origine. La ricerca dell'origine del teatro, l'utopia del raggiungimento dell'origine, si produce come manifestazione dell'interezza dell'uomo, la realizzazione dell'uomo totale, l'”atto totale” dell'attore. L'attore qui supera lo stato di incompletezza dell'uomo, o quantomeno dell'uomo contemporaneo, superando la divisione tra pensiero e sentimento, tra corpo e anima, tra conscio e inconscio, tra sesso e cervello, tra ponderazione e istinto, tra idea e azione. Lo fa, in questa fase, usando come strumento privilegiato il testo, la collisione con il testo, ciò che permette la coicidenza dell'individuale con il collettivo, di produrre il sentimento di un “brivido legato alla specie”. Si dirige verso l'integrità originaria, laddove risiedono le fonti di energia.

Ma le fonti dell'essere umano sono condivise, e ì risiede anche l'altro da se stesso, è il luogo nel quale agisce su di noi “la voce dell'abisso, come la voce dei morti”, che costringe all'atto, al “cristallo della sfida”. Nell'azione totale l'attore si rinnova come essere umano, il singolo, l'individuale, incontra un nuovo essere, le fonti, il collettivo, e ne crea un altro, lo spettacolo, che nasce solo di fronte a un altro essere umano, lo spettatore. È qui, nello spettatore, che il soggettivo, il personale, la partitura, si unisce all'oggettivo, al collettivo, all'atto; è per lo spettatore, è di fronte, dentro e intorno a lui, che da questa irradiazione di termini opposti, da questa coincidenza di molteplici livelli, appare il nuovo teatro. Non si tratta più di una visione astratta, ne abbiamo degli esempi negli ultimi spettacoli della compagnia: Il Principe Costante , la versione rinnovata di Akropolis , e Apocalypsis cum figuris .

È su questa scoperta delle possibilità del nuovo teatro che Grotowski si sofferma per una considerazione definitiva del suo lavoro di ricerca come regista del Teatr Laboratorium: la concezione del teatro rituale laico, il rituale nel teatro, doveva essere abbandonata, ciò che rimaneva era il rinnovamento del rituale teatrale in sè e per sè, “non religioso, ma umano: attraverso l'atto, non attraverso la fede”. La domanda su cosa sia realmente essenziale era stata posta, e la risposta era in parte arrivata: l'essenziale era l'attore, ma non in quanto artista, ma come essere umano.

Era necessario allora oltrepassare quella incompletezza nella quale l'uomo va a cacciarsi da solo, che è l'arte, la recitazione.

La ricerca dell'origine del teatro aveva raggiunto il suo limite, oltre il quale non rimaneva che fuoriuscire dal teatro, e quindi chiudere con la ricerca sullo spettatore, eliminare lo spettatore in quanto tale, per ritrovarlo come essere umano, come l'attore che non recita più, e sul suo stesso livello.

È quello che Grotowski fece entrando nella fase successiva della sua ricerca, il Parateatro. Fu una rivoluzione.

Dalla conferenza “Teatro e rituale”, che è del 1968, all'inizio delle attività parateatrali, annunciate con la conferenza intitolata “Holiday”, del 1970 ( 10) , passano due anni, i primi abbozzi di uno spettacolo, Apocalypsis cum figuris , al cui approdo si stava giungendo attraverso varie crisi e molte fasi intermedie e preparatorie, e un viaggio, in India.

Racconta Stefania Gardecka, segretaria storica di Grotowski, che di ritorno dall'India Grotowski era atteso in Iran, dove la compagnia doveva presentare i suoi spettacoli al festival di Shiraz. Lei andò a prenderlo all'aereoporto, e lo riconobbe con difficoltà. Grotowski sembrava un altro. L'uomo che conosceva pesava centoventi chili, vestiva sempre di nero, in giacca e cravatta, sbarbato, aveva tutti i caratteri tipici dell'intellettuale dell'epoca. All'aereoporto si presentò una specie di hippy, vestito di jeans, magrissimo e con la barba e i capelli lunghi. La rivoluzione del suo percorso creativo e intellettuale andava di pari passo con la trasformazione, anche evidente, di se stesso.

In India Grotowski aveva svolto dei percorsi liberi, misteriosi e entusiasmanti, aveva incontrato uomini in una maniera diversa da come siamo abituati a fare in Europa, senza scudi, senza mentire. Aveva preparato la strada per incontrare, oltre la vita terrena, il suo Maestro, Ramana Maharshi. ( 11) Aveva concepito e sperimentato la possibilità di entrare in contatto con l'altro che funzionasse in una modalita' di effettiva uguaglianza, diretta, in un contesto nel quale vi fosse una condivisione totale dello spazio e un mutuo scambio. La cultura passiva, nella quale un artista, l'attore, agiva, e uno spettatore non specializzato, semplicemente guardava, doveva essere sostituita, superata, da una cultura attiva, per la quale questa separazione doveva scomparire e essere sostituita dalla presenza attiva di tutti i partecipanti a un dato evento o progetto.

Dal sistema di ricezione costruito dagli attori armati di tecnica, dalla ricerca teatrale, si doveva passare, per usare le parole di Flaszen, alla “ricerca segreta di un certo tipo di energia”, alla ricerca per l'esistenza vera, per avere, come dice la storica attrice, e altra fondatrice del gruppo, Rena Mirecka, “esperienza di una parte di te che non conosci”, che si poteva ottenere solo se disarmati, poiché essa appartiene a un altro tipo di cultura, non teatrale.

Così, le ripetizioni di Apocalypsis cum figuris , che si ripeteranno per più di un decennio, in molte parti del mondo, verranno utilizzate soprattutto per entrare in contatto con i possibili partecipanti alle sessioni parateatrali. Si trattava di uno spettacolo potente, che gli attori della compagnia per la verità non hanno mai amato particolarmente, ma che impressionava enormemente gli spettatori. Lo spazio questa volta era totalmente vuoto, soltanto simbolico, e non era evidente la separazione tra attori e spettatori. Se era normale che alla fine degli spettacoli precedenti del Teatr Laboratorium gli spettatori rimanessero nello spazio in silenzio per qualche minuto, turbati, invece che prodursi nel consueto applauso liberatorio, questa volta andavano molto oltre; gli veniva offerto del pane, rimanevano lì un'ora, un'ora e mezza, o tutta la notte: alcuni venivano invitati a rimanere anche per tre giorni, rimanevano a dormire in quello spazio, soprattutto quando veniva presentato nella sede di Wroclaw, comprendendo che quell'evento gli avrebbe potuto cambiare la vita.

È in quel periodo d'altronde che Zygmunt Molik comincia a elaborare il suo metodo per la voce e il corpo, a tenere delle sessioni aperte a partecipanti con lo scopo di “liberarne” la voce, usando la “voce come veicolo”.

La traiettoria esistenziale e artistica di Grotowski, la sua ricerca, non finirà lì. Grotowski vuole sperimentare un altro tipo di ricezione, questa volta interna, non più orizzontale, ma verticale. Crea un gruppo internazionale e viaggia alla ricerca delle fonti ( 12) , delle tecniche originarie dell'essere umano, assiste a molti rituali, che spesso inducevano allo stato di possessione, e si appassiona in particolare, ma non solo, al Voodoo haitiano e all'abilità dei performer che non sono attori, ma sacerdoti, guide, maestri nel modificare e elevare gli stati di coscienza degli astanti, testimoni o partecipanti agli eventi rituali.

Dopo l'esilio negli Stati Uniti si trasferisce in Italia, e a Pontedera chiude il cerchio delle sue esplorazioni, eliminando una volta per tutte lo spettatore, utilizzando (facendo utilizzare) il corpo e la voce esclusivamente come chiave per conoscere se stessi, per superare tutte le forme dell'umano attraverso la precisione e la spontaneità, per raggiungere, come dice ancora Peter Brook, quel “qualcosa senza forma e più essenziale” a cui si arriva senza lo spettatore.

È il momento della ricerca sull'”Arte come Veicolo”, sulla ricezione “verticale”, che pur rimanendo, per necessità funzionale alla sua efficacia, conosciuta e sperimentata da pochi, ha segnato un solco così profondo lungo la strada della storia dell'arte che tutt'ora i suoi principi vengono seguiti in mezzo mondo dalle nuove generazioni di cercatori e di teatranti.

 

Questo articolo riflette i contenuti della conferenza tenuta dall'autore il 6 settembre 2012 presso l'Università di Salvador de Bahia nel contesto del festival FILTE Bahia.

 

 

 

NOTE

 9 Tra gli esempi classici di elementi che proponevano l'uso della dialettica di apoteosi e derisione, non solo da un punto di vista drammaturgico ma anche da quello della realizzazione concreta della scena, cito almeno il sangue versato dall'eroe romatico Kordian al medico che lo ha in cura come malato di mente, e la gioiosa litania guidata da Zygmunt Molik appunto alla fine di Akropolis , quando tutto il gruppo dei prigionieri entra esultante nel forno crematorio che aveva costruito nel corso dello spettacolo.

10 La conferenza fu data a New York nel dicembre del 1970, ma la chiamata di partecipanti e le selezioni per le prime sessioni parateatrali si erano già svolte tra il settembre e il novembre di quell'anno. Nella forma di articolo, “Holiday” fu pubblicato in polacco (con il titolo “ Swieto ”) nel 1972 e in inglese nel 1973.

11 Grotowski si era ritenuto un seguace di Maharishi sin dall'età di nove anni, quando aveva letto di questo grande personaggio nel libro di viaggio di Paul Brunton datogli dalla madre, che secondo Grotowski era “induista”. Maharishi muore nel 1950, ma Grotowski andrà con la madre sulla montagna sacra di Arunachala nel Madras, all'ashram di Maharishi nel 1976, durante il suo quarto viaggio in India, e chiederà che venissero portate le sue ceneri. Le ceneri di Grotowski stesso sono poi state sparse lì, per eseguire la sua volontà.

12 Questo periodo è noto appunto con il nome di “Teatro delle Sorgenti”.