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Paterson di Jim Jarmusch

di Luciana Moretto

 

Se la poesia non può salvare il mondo (in effetti, al punto in cui siamo, chi o che cosa lo potrebbe salvare?) certamente può renderlo più vivibile e meno agro. È ciò che riesce a fare Paterson , un film che attraverso la magia delle piccole cose mira a una riconciliazione con la vita, una pacificazione con la nostra soggettività più profonda.

<<Noi siamo gente avvezza alle piccole cose>>: tornano alla mente le parole di Madame Butterfly nell'omonimo melodramma e sappiamo bene che lo sguardo di Jarmusch è spesso rivolto al Giappone, alla sensibilità malinconica dei mezzi toni e delle sfumature, al tema degli spazi vuoti che non vanno subito colmati ma goduti come sono, al concetto di impermanenza insito nel Buddismo Zen.

Effettivamente non è detto che il segreto modello di questo film non sia proprio il sommo maestro Yasujiro Ozu.

Jim Jarmusch – regista emblema del cinema indipendente americano (ricordiamo tra i suoi lavori Dead man e Solo gli amanti sopravvivono ), cantore del minimalismo in ambito filmico come Raymond Carver lo è in campo letterario e poetico, ci propone ambienti e personaggi in stato di grazia laddove i pensieri diventano versi e i versi parole scritte sullo schermo, piccole poesie che il giovane protagonista, un autista di autobus, consegna al suo prezioso taccuino.

Si chiama Paterson il ragazzo e Paterson è anche il nome della cittadina del New Jersey in cui vive: una delle innumerevoli bizzarrie di un film stralunato e poetico che non raccontando alcunché di particolare fa apparire straordinaria l'ordinarietà della vita quotidiana quando è vivificata dalla poesia.

Dal lunedì alla domenica i giorni di Paterson si ripetono sempre uguali e uguali le inquadrature dall'alto in una circolarità senza fine, ma il ragazzo non ne è mai infastidito.

Ama ricambiato una moglie tenerissima dal poetico nome di Laura (interprete incantevole l'attrice iraniana Golshifteh Farahani) molto presa da velleità creative, mutevoli e stravaganti come dipingere ogni oggetto della casa in bianco e nero, tende, infissi, le tovagliette su cui il marito fa colazione, i cupcakes, dolcetti che decora a linee curve o spezzate, bianche su sfondo nero o viceversa e poi va a vendere al mercato.

Oppure, con la chitarra a tracolla, l'infantile capriccio di esibirsi come cantante country.

Da parte sua Paterson sfoga la creatività scrivendo poesie prima di scaldare il motore dell'autobus oppure nello scantinato di casa dove conserva i versi del grande poeta che venera, quel William Carlos Williams anche lui vissuto nella cittadina del New Jersey come Allen Ginsberg, Lou Costello e l'anarchico italiano Gaetano Bresci che qui maturò l'idea di uccidere il re d'Italia Umberto I.

Con questo film Jarmusch torna in qualche modo ai suoi primi lavori come Stranger than Paradise ma con uno sguardo ancora più rarefatto servendosi di inquadrature fisse che incrociano lo sguardo stranito di Adam Driver, sensibile protagonista il cui cognome –ulteriore bizzarria – indica la stessa professione del personaggio che interpreta.

Da sottolineare che nel film anche le figure di secondo piano manifestano indubbie capacità creative: dalla bambina poetessa in erba, al cliente della birreria con velleità di attore, al rapper che fa prove di esibizione in una lavanderia a gettone, al barista che sfida se stesso nel gioco degli scacchi.

Solo un fatto alla fine pare incrinare l'impassibilità di Paterson: l'irrimediabile perdita del suo taccuino, ma è un attimo. Seduto su una panchina di fronte alla prediletta cascata (chiaro rimando ai paesaggi di Hokusai) riceve in dono da uno sconosciuto poeta – così si autodefinisce – giapponese, un nuovo taccuino con le pagine rigorosamente bianche: <<a volte una pagina vuota presenta molte possibilità>>, suggerisce il misterioso personaggio.

E la vita di Paterson riprende sostenuta dalla forza potente e irregolare dell'arte.