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Seminari di Drammaturgia (4)

“La parola mendace e il gesto rivelatore”

di Alfio Petrini 

Antonia Brancati è partita da lontano, ma ha svolto la sua brillante riflessione sul tema “ La parola mendace e il gesto rivelatore ” con chiarezza d'intenti e coerenza, suscitando l'attenzione partecipe degli uditori intervenuti nella Casa dei Teatri. Ha avviato il ragionamento con un paio di citazioni dalla Genesi, richiamando l'attenzione sulla parola della creazione e sulla parola della definizione, implicitamente dichiarando la predilezione per un teatro di parola che non fosse prigioniero del velo della superficie e non soggiacesse ad alcun tipo di descrizione sociologica della realtà.

La nostra drammaturga ha sostenuto che “usiamo la parola in modo smodato”, che “più la usiamo e più ci sfugge”, che la parola porta con sé una ambiguità di significato che ha bisogno spesso di una specificazione sensoriale di qualità per essere compresa nel suo significato vero, a volte nascosto. La dualità della natura e della cultura umana è un pensiero condiviso anche da filosofi, studiosi e artisti che operano in settori diversi dalla comunicazione teatrale. Ad esemplificazione della sua istanza Brancati ha scelto la parola “notte”, ha citato una serie di battute tratte da testi teatrali di autori famosi, ha ipotizzato gli innumerevoli significati che il significante “notte” generava in variegati ambiti linguistici di riferimento.

Dopo aver chiamato in causa Aristotele, che concepiva il teatro come “imitazione di un'azione”, ha chiarito l'importanza del contesto in cui si realizza l'azione, ha introdotto il tema del sottotesto che serve “per dire quello che non vogliamo o che non possiamo dire” e ha messo in evidenza il fatto che esiste una “verità pubblica, una verità privata e una verità segreta” del personaggio: una verità radicata nel corpo dell'attore. Come conclusione inconcludente si può dire che la parola mente, mentre il corpo non mente mai.

Sorge tuttavia una domanda: se il sottotesto serve utilmente a comunicare quello che non vogliamo o che non possiamo comunicare, ciò che è indicibile, impalpabile o invisibile come possiamo comunicarlo in teatro? E' evidente che il gesto e il contesto non bastano più. Risultano decisamente inadeguati. Allora, se si scarta il segno verbale (la parola) per evitare che l' indicibile diventi dicibile - detto, spiegato, descritto -, diventa necessario fare ricorso a un segno di altra natura, a un segno non verbale (sonoro, visivo, oggettuale, spaziale, eccetera) opportunamente inserito nel contesto della tessitura drammaturgica. Sviluppando il ragionamento, Brancati ha posto infatti un quesito di sicuro interesse: “fin dove la parola è utile, dove non serve più?). Perché esiste una sorta di limite, di confine oltre il quale la parola non ha più la forza per forare la comunicazione. Bisogna ricorrere, come ho già accennato, a segni di altra natura (in primo luogo spaziali), per salvaguardare la carica di mistero e di poesia che il non-detto porta con sé.

Un giovane partecipante al seminario ha poi introdotto un tema controverso che ha alimentato per molti anni lo scontro tra registi e drammaturghi, a cui hanno partecipato anche i critici di teatro: il regista deve o non deve mettere in scena il testo nel rispetto dei contenuti e della forma messi in preventivo dallo scrittore? Il testo è l'opera, oppure lo spettacolo è qualcosa di altro che ha un valore autonomo rispetto al testo? E' necessario dire qualcosa su quel dibattito, perché il fuoco cova ancora sotto la cenere. La tregua tra gli agguerriti contendenti avvenne attorno a questa idea: il drammaturgo è l'autore del testo linguistico e il regista – con la collaborazione preziosa degli attori – è l'autore dello spettacolo. Il regista - parlo di un regista bravo, competente, non di un improvvisatore bizzarro -, se sceglie un testo si presuppone che gli piaccia, che lo abbia trovato stimolante. Insomma, si presuppone che, dopo l'insorgenza di una forte e motivata necessità artistica, abbia avvertito il desiderio di metterlo in vita con il suffragio di un punto di vista originale, il suo ovviamente, che può essere in parte anche diverso da quello del drammaturgo. Il fatto va considerato in termini positivi di creatività collaborativa che segna la differenza tra scrittura drammaturgica e scrittura scenica. Il drammaturgo, in altre parole, mette in preventivo il come futuro della scrittura scenica che sarà gestita dal regista, stimolato dal testo linguistico prescelto e guidato dal suo comportamento poetico.

Ci sono diverse modalità per fare uno spettacolo dal vivo. Il seminario ci ha offerto l'occasione di riflettere su una delle tante metodiche di lavoro, quella fondata sul rapporto di collaborazione tra scena e testo linguistico. In questo ambito di ricerca ogni interpretazione registica è un t radimento , che non porta ovviamente a rovina il testo, ma porta a bellezza lo spettacolo costruito su quel testo. L'importante è che il regista sia un poeta, un artista competente, capace di conquistare con lo spettacolo il cuore e la mente dello spettatore. L'ho chiamato tradimento per amore , suscitando in sala l'acidula ironia di due addette ai lavori. Quando si comincia ad avere paura, si ha paura di tutto, anche delle parole.

Antonia Brancati ha dimostrato che in meno un'ora si possono dire molte cose intelligenti. Ha messo nel giusto rilievo l'intreccio tra la parte sensibile (limitatamente al ”gesto rivelatore”) e la parte razionale dell'uomo/attore che agisce in palcoscenico: intreccio dal quale non si può prescindere nel teatro moderno contemporaneo. Se è vero che la componente sensibile della comunicazione teatrale legata al “gesto rivelatore” è foriera di risultati pregnanti, è anche vero che possono essere prefigurati risultati ancora più pregnanti se si percorre la strada del lavoro sulle azioni fisiche applicato alla scrittura drammaturgica. Una questione centrale nel teatro europeo che nel prossimo futuro non potrà non interessare il Cendic.