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Note brevi di buon senso

di Giorgio Taffon

Invitato dall'amico Alfio Petrini, e in qualità di Direttore della nostra rivista online, non posso certo fare a meno di offrire ai lettori qualche noterella di buon senso sul tema del nuovo Focus qui pubblicato. Dico “buon senso” perché mi auguro di estendere le mie note tenendomi lontano dal cattivo “senso comune”.

Il buon senso mi spinge ad evitare di scrivere sul tema del rapporto attore- performer in qualità di studioso, non essendo questo un campo di studi direttamente da me coltivato nel tempo. D'altra parte qui ospitiamo uno studioso di grande livello come Antonio Attisani, che ringrazio per il suo apporto teorico e storiografico.

Ugualmente il buon senso mi spinge a non affrontare l'argomento in oggetto nel Focus dal punto di vista dell'attore e / o performer , cioè come se fossi tale, o ne potessi prendere il posto senza la conoscenza del fare e saper fare. Questo compito e questa identità son proprio la specifica fisionomia artistica e culturale costituita dalla ricca e affascinante personalità del nostro redattore Alfio Petrini.

Infine il mio approccio all'argomento in essere non può nemmeno venire pienamente suffragato dalla mia attività di docente universitario essendomi sempre occupato di storia della letteratura teatrale e di teatro italiano contemporaneo.

Non mi resta che una prospettiva, derivante anche dalla mia pratica professionale di critico teatrale: quella dello spettatore, appunto, critico. Tale esperienza mi spinge a fissare alcuni punti con una certa convinzione derivante da diversi anni di incontri con artisti della scena appartenenti a varie tipologie e stilistiche e dimensioni teatrali.

L'aver visto centinaia di spettacoli, di esecuzioni sceniche, di performances più o meno sperimentali, ha inevitabilmente esercitato il mio sguardo e la mia mente spettatoriale a saper cogliere le qualità intrinseche di quello che Taviani definisce l' attor fino .

D'altra parte è anche nella comparazione tra vari livelli artistici che il raffinamento delle capacità critiche si raggiunge: l'aver assistito al lavoro degli attori di Brook, di Barba, di Grotowski, della Mnouchkine, di Kantor, e, per l'Italia, alle realizzazioni di Carmelo Bene, Leo De Berardinis, Perla Peragallo, e diversi altri, non può che spingere a stabilire delle gerarchie artistiche, e delle differenziazioni, prima delle quali, tra teatro di routine , anche se di alto valore, e teatro d'invenzione, di ricerca, di rinnovamento.

Ma non voglio qui stilare graduatorie, redigere liste di nomi, e così via, intendo semplicemente sottolineare, per punti, il mio rapporto con la scena, anche quella d'oggi, una volta condivisi tutti gli acquisti e i valori culturali e artistici che vado a scambiare coi miei amici redattori, e che ho via via conosciuto e fatti miei anche tramite i suggerimenti e la frequentazione dei colleghi del Dams di Roma Tre.

Allora posso affermare che nel vedere al lavoro un attore (attrice) non posso non essere supportato nel giudizio dalle conoscenze seppur in buona parte teoriche maturate nell'incontrare Stanislavskij, Artaud, Grotowski, e in ultimo Eugenio Barba, in modo più diretto e pratico.

Una prima condizione che mi trovo a vivere da spettatore è quella di non seguire come filo conduttore, se c'è, l'intreccio dell'eventuale storia che si agisce sulla scena. Né tutto il complesso che “costruisce” la scena: dalle luci, ai suoni, alle scenografie; in primis il mio interesse è seguire come ciascun attore costruisce sulla scena la sua presenza . E ciò su un asse temporale inevitabilmente discreto, che avanza per segmenti d' azione ed eventuali intervalli. Solo dedicando agli attori questo tipo d'attenzione riesco a vivere il mio rapporto spettatore-attore, e a entrare in rapporto organico con la creatività dell'attore.

Creatività che deve, da parte dell'attore, portarlo a tralasciare il più possibile: automatismi, cliché, ripetizioni, orpelli vari, ecc.

Solo dopo, in parallelo, mi ricostruisco un fantasma di personaggio, che entra in una storia relazionandosi ad altri personaggi, che, poi, non sono altro che gli organismi vivi e operanti nella finzione rappresentati dagli attori stessi che in un eventuale testo drammaturgico non trovano altro che entità di carta, con una serie di singoli input che servono poi a far divenire, loro attori, dei personaggi di finzioni agenti su uno spazio scenico.

Credo così che ciò che da subito punto a scoprire è proprio la natura eventuale di performer di co loro che agiscono su una scena. A volte è accaduto nelle aule universitarie di dimostrare come si può essere dei performer anche in un teatro di rappresentazione, mostrando il monologo di Eduardo sul caffè in Questi fantasmi (e togliendo l'audio della ripresa video): tutta la spiegazione al professore fuori scena è una vera e propria azione che con maestrìa da performer Eduardo va a compiere.

Da ciò deriva che a volte si può cogliere in qualsiasi attore anche di tradizione, un momento, un passaggio, una sequenza, in cui espliciti capacità performative importanti.

Naturalmente in questo nostro Focus il termine Performer è tutto da inserire in un contesto di significazione di matrice grotowskiana, che non tocca a me qui esplicitare. Ma fa bene Petrini a distinguere tra teatro affidato alla codificazione stretta dei segni e teatro che funziona nella e per la organicità creativa ed energetica dell'attore-danzatore / performer. Vorrei sempre vedere, negli spettacoli, proprio questa tridimensionalità del fare : agire nel danzare, nel proferire parole, nel compiere azioni fisiche, preferendo una tradizione che si autofa legata all'organicità, piuttosto che una tradizione che si affida a “processi d'astrazione”.

Certo, non posso che essere pessimista se mi fermo a quanto si vede nei nostri spazi teatrali, e a come in genere son preparate le nuove generazioni d'attori, che si costruiscono più come attori in scena che attori di scena. Son dunque d'accordo, ancor di più, nel dire che il prossimo teatro venturo o sarà grotowskiano, o non sarà: s'intende: non sarà vero teatro come è stato reinventato dai padri del Novecento teatrale, una volta preso atto della perdita del monopolio nell'universo dello spettacolo.

Ed è anche quanto “sa” di spettacolo, che per nulla m'interessa a teatro: m'interessa l'attore-performer che mi catapulta verso gli archetipi della nostra umanità, che si e ci sprofonda in strati antichi del nostro essere, naturalmente in una dimensione grotowskiana di “verticalità”.

Quando mi accade questo, percepisco anche d'incontrare l' uomo nel performer, come se il personaggio di finzione sparisse proprio per far apparire l'uomo che è l'attore-performer. A quel punto lo spettacolo pure deve svanire, e allora posso incrociare la storia di cos'è il teatro per me, con quella dell'uomo-attore, e di cosa è per lui il teatro, anche in una dimensione antropologica e spirituale; o quanto meno, come hanno studiato De Marinis, Taviani, Ruffini, Barba, come può essere il teatro una pratica molto simile allo yoga .

Anche l'azione del performer può essere attraente, affascinante, pur se del tutto disancorata da riferimenti di finzione: è l'invito del performer ad ammirare e a contemplare la bellezza, rara e difficile, di come la persona umana può raggiungere stati di coscienza assolutamente e pienamente creativi e liberatori, e che rifiutano la denotazione razionale.