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La ragione in fiamme
Vita opere e follia di Antonin Artaud
Franco Celenza - Bevivino Editore, Milano/Roma, 2010.

di Alfio Petrini

Ben strutturato, ricco d’informazioni e utile è il libro di Franco Celenza su Antonin Artaud, che si avvale della presentazione di Cesare Milanese. Il libro organizza i passaggi salienti della vita e delle opere in ordine cronologico, con il suffragio di abbondanti materiali originali. Porta in dote una ricca messe di dati, mettendo a confronto diverse riflessioni critiche. Articolato in XII capitoli, con il corredo di una bibliografia essenziale, offre un contributo positivo alla conoscenza delle idee, delle opere e della vita passata nei manicomi da Antonin Artaud.

Il primo capitolo è dedicato alla “costellazione dei folli”, cioè dei poeti che sono agli ordini della loro “notte”. Come Lucrezio, che sembra abbia scritto De rerun natura tra un attacco e l’altro di follia. Del resto non è l’attraversamento delle tenebre che consente di scoprire alcune scintille di luce? Non sono stati i folli luminosi, come Francesco d’Assisi, a lasciare il mondo per entrare nel mondo, segnandolo con il loro passaggio? Non è stata la scienza a dimostrare nel corso del tempo che i pazzi non esistono e che i manicomi andavano chiusi? E così, dopo l’exursus che va da Lucrezio a Tasso, da de Maistre a Poe, a Nietzsche e de Nerval, Celenza riporta un frammento della Lettera su Lautremont, in cui Artaud dice che “Isidore Ducasse è morto di rabbia, per aver voluto, come Edgar Poe, Nietzsche, Baudelaire, Gerad de Nerval, conservare la propria individualità intrinseca”. E ci ricorda quello che scriveva Nerval dal manicomio in una Lettera al padre (1853): ”Confesserò che i medici non capiscono come sia la vicinanza dei malati a rendere malati: nel caso, in particolare, delle malattie mentali e nervose”. E si sofferma infine su quello che sosteneva Artaud nella Lettera ai primari dei manicomi: “Le leggi e la consuetudine vi concedono il diritto di misurare lo spirito. Con il vostro intelletto esercitate questa giurisdizione sovrana, terribile. Per quanti di voi il sogno del demente precoce, le immagini di cui è preda, non sono altro che un’insalata di parole?....insorgiamo contro il diritto attribuito a certi uomini, limitati o no, di sancire le loro investigazioni nel regno dello spirito con l’incarcerazione a vita”.

Nella parte del libro relativa agli “orientamenti della critica”- dal 1956 al 2008 -, l’autore fonda l’analisi sul lavoro effettuato in Francia da Deleuze, Guattari, Derrida, Sollers, Foucault, Banchot e Laplance, senza trascurare le opinioni divergenti di Florinda Cambria e di Eugenio Borgna. E, ancora sul versante italiano, Celenza non manca di mettere in risalto il valore di un libro come Teatro e corpo glorioso, Saggio su Antonin Artaud (1978) di Umberto Artioli e Francesco Bartoli che giudica “la più imponente teorizzazione della scena come luogo d’evocazione del magico, come cerimonia collettiva in cui si celebra il rito della riunificazione tra le opposte valenze del cosmo e dell’inconscio”.

Grotowski, si sa, non ha mai espresso un giudizio positivo nei confronti di Artaud, anche se gli ha riconosciuto alcune buone intuizioni relative all’atto totale dell’attore. Valutate come enunciazioni teoriche e visionarie che non hanno contribuito a risolvere la complessa e delicata questione riguardante l’autogestione dei processi organici e le modalità relative alla produzione delle forme organiche, le riflessioni artaudiane hanno tuttavia un valore fortemente innovativo rispetto alla teoria sulla mimesi.

“Quello di Artaud – scrive Celenza, citando Dumoulié – è un “teatro del furore”: “alla stregua degli eroi di Seneca, egli esalta il dolore a dismisura, lo nutre d’immagini e di rappresentazioni che gli conferiscono un aspetto disumano. Il dolor tragico nasce da un sentimento di spoliazione provato da un personaggio umiliato o tradito, che reclama il godimento del bene che gli spetta e del suo diritto. Così Artaud pone di primo acchito la questione radicale del suo essere e, conformemente al registro giuridico che rientra nel teatro del furore, pone la questione in termini di diritto: ‘ Si tratta per me di niente di meno che di sapere se possiedo oppure no il diritto di continuare a pensare, in versi o in prosa’ “. In altri termini è “l’inasprimento del dolore” che spinge Artaud nella dimensione del furore, perché si sente spoliato “del suo essere e della sua potenza” e posto in una condizione di feroce patimento, di esperienza che diventa insopportabile e che pertanto si configura come una crudeltà : “Quando crea, il dio nascosto obbedisce alla necessità crudele della creazione che gli è stata imposta, e non può non creare…La morte è crudeltà, la risurrezione è crudeltà, la trasfigurazione è crudeltà”. La parola crudeltà è stata molto fraintesa negli anni settanta : “Non si tratta affatto – come sosteneva lo stesso Artaud – di crudeltà come vizio… ma al contrario di un sentimento distaccato e puro… partendo dall’idea che la vita, metafisicamente parlando, ammette il male e tutto ciò che è inerente al male”.

La percezione privata del dolore e della spoliazione e il furore conseguente furono elementi che giocarono un ruolo fondamentale nell’atto di fondazione da parte di Artaud, con Aron e Vitrac, del Théatre A. Jarry. Come giustamente sostiene Celenza, si trattò della realizzazione di un’ esperienza rabbiosa e trasgressiva per la scena europea del Novecento che si mosse in due direzioni che s’integravano: l’approdo verso il teatro totale che doveva coinvolgere lo spettatore non solo “nello spirito e nei sensi, ma in tutto il suo essere” e (con il testo Il getto di sangue) verso la rottura dadaista della “logica del linguaggio” e della “logica dell’intelligenza”. Alla base, con un senso profondo di modernità, c’era quindi un obiettivo rivoluzionario che tendeva a riconoscere allo spettatore una partecipazione di natura sensoriale. La reazione non doveva essere logica, ma di tipo fisico.

L’idea di fondo - presente nel progetto del Theatre A. Jarry e , più avanti, nel Teatro della crudeltà -, era quella di un teatro riformato che sarà, diceva Artaud, un “teatro puro”, “una realtà vera”: “se il teatro non è un gioco, se è una realtà vera, il problema che abbiamo da risolvere è quello dei mezzi attraverso i quali restituirgli quest’ordine di realtà, fare di ogni spettacolo una sorta di avvenimento”, rituale e solenne, imprevisto e irripetibile. La polemica nei confronti della tradizione del teatro francese, nascente dalla necessità di rinnovamento della scena teatrale del Novecento, era ben presente negli scritti raccolti nel famoso libro Il teatro e il suo doppio. Al centro del ragionamento c’era la primaria importanza riconosciuta alla scrittura scenica rispetto alla scrittura drammaturgica. “Ne conseguiva – puntualizza Celenza - che, se la parola scritta aveva portato ad un teatro narrativo e psicologico dominato da un autore-creatore il quale affidava a regista e attori l’interpretazione del suo testo da rappresentare ad un pubblico passivo, si poneva la necessità di riedificare un linguaggio puramente teatrale, mitico e magico nel quale gesti, suoni, colori e rapporti plastici tra gli interpreti, avessero importanza pari a quella delle parole pronunciate”. Affidando la “libertà creatrice” al regista che governa - per dirla con Barba -, le azioni al lavoro, e teorizzando il predominio del linguaggio dei segni – che attira la nostra attenzione -, sul linguaggio delle parole Artaud ha dato un contributo notevole all’affermarsi della pratica della poesia che nasce dalla scena, in alternativa all’aura poetica della parola; e più in generale ha dato una bella scossa al teatro della tradizione immobile, sotto la spinta e l’influsso di due visioni: la prima, all’Exsposition Coloniale di Marsiglia, di uno spettacolo di danza cambogiane e la seconda, all’Exposition Coloniale di Parigi, di uno spettacolo di danze balinesi. Il merito del libro di Celenza è quello d’indicare la strada maestra del rinnovamento teatrale auspicato da Artaud, tracciando le linee di un progetto radicale che – anche nei suoi aspetti visionari - ha segnato un’epoca, ha interessato molte generazioni di artisti e ha lasciato tracce indelebili, vive e vivificanti, nel panorama di un nuovo modo di fare teatro.