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Una provocazione (ma non tanto) sul fare critica teatrale

di Giorgio Taffon

Scrivo qui anche in veste di direttore di Liminateatri.it . I nostri lettori si sono certamente accorti della piuttosto esigua presenza nella nostra rivista di recensioni teatrali. Quelle che ci sono le abbiamo redatte semplicemente perché abbiamo stimato gli spettacoli per il loro valore intrinseco. Sta di fatto, poi, che ciascuno di noi redattori ha rapporti consolidati con artisti e compagnie molto considerate per la loro fisionomia espressiva da noi stessi. Aggiungo pure che Liminateatri.it agisce, per così dire, a botta fredda, privilegiando l'approccio riflessivo, a volte teorico, nei confronti dei fatti teatrali, per cui la critica cosiddetta “militante”, a botta calda, non è molto frequentata da noi redattori. Detto questo, tralascio ora la mia funzione di direttore, e scrivo alcune annotazioni rapsodiche e provocatorie su come vorrei che fosse oggi il fare critica teatrale.

Vorrei che fosse assolutamente severo, questo fare, senza alcuna concessione, generosità, simpatia personale.

Vorrei che fosse consapevole delle tecniche, della materialità, della spiritualità, e del “ventre” del teatro.

Vorrei che non fosse mai impressionistico: la “poesia” del teatro non consiste in un'aura indefinita e indefinibile che aleggia sullo e nello spettacolo: è invece fondata su processi organici di composizione delle azioni fisiche, comprese quelle che portano all'enunciazione di parole. Il critico deve conoscere tali processi organici: come si formano, si sviluppano, ed entrano nella relazione attore-spettatore. Poi si interesserà alla “cucitura” registica dell'insieme spettacolare proposto agli spettatori.

Vorrei che fosse un po' pedante: come? Vedendo, il critico, e se possibile, ri-vedendo uno spettacolo, e poi, d'accordo con Alfio Petrini, nostro redattore, vorrei che compisse, nello scrivere o ri-scrivere, dei detours che passino dallo spettacolo alla vita, e alla vita della polis , alla società, e così via, per tornare infine allo spettacolo.

Vorrei che il fare critica fosse consapevole che il teatro può esistere anche senza spettacolo, e viceversa (ad esempio, in certe opere di gruppi giovanili ci sono spettacoli, a volte molto pregevoli, ma spesso non c'è teatro come lo si intende in senso novecentesco: non vi è una vera e voluta e consapevole arte dell'attore di teatro, appunto!).

Perché svolgo queste annotazioni rapsodiche e provocatorie (ma fino a un certo punto) sentendo la necessità e l'urgenza di farlo?

Perché le risorse inevitabilmente saranno sempre di meno, e sappiamo che senza l' aiuto della mano pubblica è difficilissimo far teatro.

Per cui, se il critico incontra gli spettacoli dei teatri e delle compagnie stabili, pubblici o privati, non può concedere nulla nel giudicare: tali entità avranno la maggior parte dei pochi denari, per cui DEVONO offrire una vera e necessaria qualità artistica (e culturale), e se ciò non accadesse, il critico dovrebbe stroncare senza pietà in assenza di veri risultati artistici e culturali.

Se il critico incontra spettacoli di compagnie private con pochi contributi DEVE essere severo per collaborare alla premialità e al riconoscimento del merito, in modo che, seppur poche, le migliori compagini sopravvivano.

Tutte le altre forme di produzione teatralspettacolare si dovranno comunque arrangiare: o perché son ricche da sé, o perché riescono ad effettuare ottimi sbigliettamenti, o perché son capaci di assumere inevitabili rischi.

Il fare critica non deve richiamarsi minimamente al “gusto personale”; il gusto arriva per ultimo, prima bisogna comunque saper riconoscere l'intrinseca poesia teatrale che proviene dal saper fare, dal seguire regole conquistate man mano fino alla fine del Novecento (dai Padri fondatori ai Maestri ancora in vita e in azione da fine secolo scorso ad oggi).

Ma non c'è solo la falsa prospettiva del gusto personale: c'è anche quella di chi (ce ne sono diversi di amici che la pensano così) pensa che il teatro abbia la propria spinta originaria e genetica in un testo drammatico, mentre in realtà il testo drammatico, seppur fondamentale, è una delle componenti dello spettacolo teatrale, ed è quella che dura nel tempo perché può restare sulla carta stampata: bene, il critico deve sapere che la poesia teatrale la si può raggiungere oltreché con le parole, anche, e anche solo, con un'azione dell'attore, una luce, un suono musicale, o no, un intreccio di accadimenti e azioni, e via dicendo.

Il fare critica, da parte dei giovani, esige un approfondimento della storia del teatro del Novecento, tramite libri, materiali audiovisivi, testimonianze, poiché devono accorgersi che molte “invenzioni” e stilemi del teatro chiamiamolo giovanil-sperimentale non sono altro che inconsapevoli rimasticature di esperienze già svolte negli anni Sessanta-Settanta.

Secondo il mio modesto parere le annotazioni fin qui svolte potrebbero ridare nuova dignità e vera utilità a chi vuol dedicarsi anche all'attività critica, finendo inevitabilmente anche a far teatro . Siamo davvero, almeno qui in Italia, ad una svolta storica e strutturale, e non congiunturale: tutti, anche chi fa critica, deve prepararsi a salvare la forma artistica fin'ora chiamata: TEATRO.

Non è la mia una modesta “chiamata all'ordine”, ma semmai al disordine, a rivedere e far saltare paradigmi mentali e comportamentali ormai inutili se non dannosi.

Infine, ricordando quanto ha scritto Ferdinando Taviani, un amico maestro, dobbiamo “promuovere” , e non ridurre, il teatro “ad eccezione”: solo così, divenendo eccezionale, potrà resistere al dannato spirito del nostro tempo: mi auguro che il nostro sguardo giunga giù di lì e lontano, verso l'orizzonte dell'eccezionalità!

Auguro a tutti coloro che fanno teatro di rasentare e magari raggiungere l'eccezionalità!