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Rapsodia breve sulla poesia del teatro

di uno “spettatore critico”

di Giorgio Taffon 

Scelgo una forma espressiva rapsodica per quanto c'è di epico, ritenendo la battaglia per avere ancora teatri in vita per la loro poesia, giunta ad un limite.

Scelgo la forma rapsodica in quanto per tradizione nell'antica poesia essa spingeva il rapsodo a porgere la propria composizione in pubblico, a renderla pubblica.

Scelgo la forma rapsodica in quanto, nel passato, in letteratura, in genere essa radunava più frammenti di più autori.

Infine, rapsodia perché, come in musica, più temi vengono riuniti in modo piuttosto libero: essi mi sono offerti da compagni e maestri di strada che, assieme al fondatore Eugenio Barba, hanno portato avanti una prospettiva di ricerche e un programma di studi sul campo di radicale valore quale è quello dell'ANTROPOLOGIA TEATRALE. Grazie a loro forse ho capito quali possono essere i veri teatri e l'arte dell'attore.

Ma anche grazie alla visione di tanti, tanti spettacoli, anche se il teatro può fare a meno dello spettacolo stesso, ma non della relazione attore – spettatore .

 

Tema primo :

“Dalla parte della scena: cos'è che spinge un uomo di teatro ad affaticarsi per qualcosa che, anche a voler tacere di tutti gli altri limiti dello spettacolo, è destinato a sparire? Non basta il successo, l'approvazione di pubblico e critica. Ci dev'essere qualcos'altro. C'è oggettivamente, anche se non tutti ne sono consapevoli, o lo pongono in cima alle proprie aspirazioni. C'è. Il Novecento l'ha messo in parole: l'uomo di teatro cerca di creare attraverso lo spettacolo un vita altra, addirittura superiore.”

(Franco Ruffini, Come un romanzo. Riflessioni su storiografia e racconto , in Studi di storia dello spettacolo. Omaggio a Siro Ferrone , Firenze, 2011)

 

“Dalla parte della scena”

sonetto con coda… velenosa (?)

 

Faceva teatro, per far della sua vita

un'opera d'arte intimamente conclusa:

il suo training includeva fin le punta delle dita,

e ogni sua interior ed esterior energia era profusa.

 

Traeva forza ed assoluta concentrazione

svuotando la sua mente da pensieri e turbamenti:

riusciva con precisione controllata in qualsiasi Azione,

sentendosi sempre più al centro degli Elementi.

 

Autoconsapevolezza, connessioni estreme, awareness

erano le sue mète ambiziose, per una vera dimensione yoga;

spento aveva in sé ogni ansia, libero si sentiva da oscure pressioni,

 

danzava nuotando nella densità dell'aria senza squilibrante stress,

il suo tronco forte non cedeva alla spinta di ogni possibile foga:

fino a che pensò di rinunciare alla scena per vivere così, senz'ambizioni!

 

Gli diedero del matto, e del fallito. Fu dimenticato, s'impoverì,

finì per non mangiare più! Recitava una specie di mantra sottovoce:

“Solo io ho vissuto di più… ho vissuto di più… ho vissuto di più…”.

(Giorgio Taffon)

 

Tema secondo:

“L'attor fino è semplicemente l'attore di teatro. […] Ho distinto l'attore di teatro dall'attore che sa stare a teatro. Per molto tempo, una distinzione siffatta sarebbe stata pura lana caprina. Dalla fine del Novecento è essenziale. Eppure spesso trascurata.”

(Ferdinando Taviani, Attor fino. 11 appunti in prima persona sul futuro di un'arte in via d'estinzione , in “Teatro e Storia”, 2010, 2)

 

Ricordi :

Recitava nel ruolo della signora Ignazia, del pirandelliano Questa sera si recita a soggetto , regia di Massimo Castri, anno 2003. Ero seduto, più o meno, sulla prima poltroncina di una fila a metà platea del Teatro Argentina di Roma, e lei, Valeria Moriconi, già, credo, malata seriamente, agendo fuori scena, mi passò accanto: non posso che rivedere il suo passaggio nella mia mente al ralenti .

Eccola, la sento alle mie spalle, scendere per il lieve declivio della platea, lentamente: ne percepisco il movimento come fosse volo di farfalla! La sua voce mi giunge come disincarnata, come navigasse nell'aria tesa di quel teatro! Eppure lei c'è, con tutto il suo corpo, e sta quasi arrivando alla mia altezza: prego Dioniso di farla fermare accanto a me, ed infatti lei si ferma, e quasi mi guarda negli occhi, uno sguardo che sostengo solo per un attimo: la percepisco come un'essenza, né fantasma, né personaggio, né Valeria: come un'esclusiva abitante di quello spazio, dove ogni identità perde i suoi confini. Un po' persona reale, un po' personaggio, un po' attrice DI teatro! Poi riprende il suo passeggiare estemporaneo e inizia a darmi le spalle: il suo stupendo abito di scena sembra muoversi da solo, come se dentro non ci fosse nessuna, e la voce provenisse come il suono proviene da uno strumento musicale! Indimenticabile Valeria!

 

Lisbona, Fondazione Gulbenkian, 1998, sessione ISTA

Si arriva all'ultima sera della Sessione e nel grande teatro della Fondazione tutti gli attori partecipanti alla Sessione stessa presentano la performance che porta il titolo generale di “Theatrum mundi ”.

In quell'occasione, dopo aver visto nei giorni precedenti dimostrazioni di tecniche varie di organicità nella relazione attore-spettatore, vedo agire sulla scena Torgeir Wethal, se vogliamo, il prim'attore dell'Odin: oggi, ahi noi, scomparso.

Di Torgeir Wethal mi colpiva innanzi tutto il suo modo di camminare sulla scena. Da quando l'ho visto in quella magnifica intensa serata portoghese, ho capito l'importanza per l'attore di teatro del camminare sulla scena. Torgeir non cammina, ma “sfila” come una perfetta manniquin: solo che quest'ultima deve “mostrare” e dimostrare il vestito, mentre è l'abito di scena a “mostrare” e dimostrare Torgeir Wethal: in particolare a mostrare l'energia controllata del suo corpo-mente, per cui la camminata risulta essere a un tempo esplosiva muscolarmente, e lieve come una libellula sopra i fili d'erba.

 

Anche Carlo Cecchi ha un suo modo di camminare da attore di teatro. Il suo camminare è un perpetuo sbandamento, com'è la sua stessa voce, a volte buttata lì, ciancicata, con le parole in squilibrio, come i suoi passi sulla scena. Proveniente da un' omogenea enclave teatrale, anche Toni Servillo, a suo modo, ha una camminata apparentemente malferma, e parla buttando un po' via le parole. C'è Eduardo dietro e prima?...

Quello che conta, comunque, è che già dal loro modo di camminare gli attori di teatro, gli attori fini come li definisce Taviani, catturano l'attenzione dello spettatore (di uno spettatore stordito , afferma lo studioso), la colpiscono: è come guardare un calciatore al suo primo tiro. Te ne puoi innamorare subito, “stordirti” di lui, oppure puoi classificarlo come un calciatore di infima serie.

Ma l'attore di teatro deve sapersi creare un suo spazio di improvvisazione.

Allora il mio ricordo va alla testoriana Erodiade splendidamente interpretata, un paio di stagioni or sono, da Maria Paiato. Di questo testo annoveriamo le interpretazioni di Adriana Innocenti, di Sandro Lombardi, en travesti , di Iaia Forte: la Paiato, che detiene un'arte della variazione invidiabile, ha forse superato i precedenti interpreti: il variare toni, gesti, la linea stessa di fondo del personaggio, le permettono di miscelare e intrecciare più registri. Il tragico, il grottesco, l'umoristico; lo spettatore è investito da una scarica a 10.000 volt di un languido, a volte acceso, a volte oscuro, erotismo; come pure ad alto voltaggio è la padronanza dello spazio scenico, ed avviene che per tropismo l'attrice ci porta direttamente dentro quello spazio: capacità di grandi attori DI teatro.

Degli attori che sanno stare A teatro, o IN teatro, ce ne sono molti: di solito li troviamo negli spettacoli d'intrattenimento, o di varietà, o di cabaret; o anche in quei teatri dove prepondera la mano del regista, e l'attore alla fine è spinto a raggiungere bene o male una sua stilistica.

(Giorgio Taffon)

 

Tema terzo:

“Com'è noto, si è parlato, soprattutto per l'Italia, di una linea dell' attore-artista (o dell' attore-poeta ) che attraversa tutto il XX secolo […] Ora, non v'è dubbio che alcune delle trasmutazioni attoriali odierne, ad esempio quelle che chiamo attore-figura , attore virtuale , o performer rompano nettamente con questa tradizione, anzi arrivino a ignorare del tutto e addirittura, talvolta, a dichiarare di non conoscerla. […] In altri casi, per altre trasmutazioni, come l'attore narratore , l' attore sociale o meticcio , invece che di rottura e di oblìo è invece più corretto parlare di trasformazione e di rifunzionalizzazione di questa eredità novecentesca […] E tuttavia, è proprio qui che è emersa e si sta imponendo la figura di quello che potremmo chiamare il neo-interprete , intendendo con questa denominazione un attore che, pur continuando sostanzialmente a lavorare in termini di personaggio e di situazioni drammatiche, è capace di mettere a frutto le novità trovate dai registi del secolo scorso […].”

(Marco De Marinis, Il teatro dopo l'età d'oro. Novecento e altro , Roma, Bulzoni, 2013)

 

Quando si parla o si scrive di poesia del teatro intendiamo, noi di Liminateatri.it, in primo luogo la capacità “poietica” dell'attore di svolgere il suo lavoro sulla scena con organicità, determinando nella relazione con lo spettatore un flusso comunicativo che va diritto, assieme, alla mente e al cuore dello spettatore, provocandogli una sua propria drammaturgia, più o meno immediata. Tutto il resto, grotowskianamente, viene dopo: elementi scenografici, luci, costumi, ecc. ecc. Tutto è poiein a teatro, capacità creativa innanzi tutto materiale, concreta, tecnica, dalla parola all'azione fisica, alla voce, insomma a tutti quegli elementi che compongono il linguaggio scenico.

Anche una performance d'attore, intesa come esecuzione di azioni, sganciata da dimensioni di finzione, di personaggio, può creare un flusso poetico che si propaga a chi assiste: tale esecuzione è teatro? Non è teatro? Un “ attore virtuale ”, in quanto tale, fa parte di un teatro “altro”, o “nuovo”, o “parallelo” a quello tradizionale? Il libro di De Marinis, su citato, affronta in modo brillante, preciso, documentato, tutti questi aspetti. Noi pensiamo che il problema parta dal concetto di intermedialità , su cui l'amico e compagno di studi e pensiero Petrini così bene ha insistito: se linguaggi scenici tradizionali s'intrecciano e fanno drammaturgia con quelli della virtualità, dei nuovi media, ecc. ecc., hanno una loro coerenza interna ad abitare uno spazio teatrale in presenza degli spettatori: ciò vuol dire che non basta la multimedialità; ciò vuol dire che lo spettacolo multimediale non può comunicare poesia teatrale: tanto meglio, allora, assistere a uno spettacolo televisivo, a una creazione digitale, a un prodotto d'arte visiva, ecc.

Non sappiamo, in quanto non siamo dei profeti, quale e come sarà il teatro del futuro, ma ha ragione De Marinis a identificare, nel momento presente, la tipologia dell'attore neo-interprete : penso ad esempio alla bravissima Ermanna Montanari, e al lavoro che svolge col compagno Marco Martinelli: è commovente osservare nel loro modo di svolgere l'azione scenica un grande rispetto della tradizione e assieme la capacità di rielaborarla facendola rivivere non più musealmente!

Tutto sta nello scegliere tra originarietà e originalità del teatro!

Forse alcuni giovani e giovanissimi performers credono che occorra sganciarsi da qualsiasi condizionamento che sta alle spalle, per poter esplorare davvero nuovi sentieri: va ascritto a loro il merito di affrontare un grosso rischio: perdersi nel mare magnum della spettacolarità mediatica odierna.

Ma i teatri, intesi tradizionalmente, pur con tutta la loro carica di poeticità intesa non certo come un aura indefinibile e astratta, ma come concreta poiein , come ars , a partire da quella dell'attore, sono anch'essi ugualmente a rischio di grave decadenza e\o sparizione: basta che le nostre società decretino la fine di qualsiasi aiuto economico. Si dice: il teatro può essere considerato un lusso, che la società deve pagare, poiché del teatro vi è una necessità culturale, come arricchimento dell'immaginario collettivo, e dell'ideazione politica-poetica! E ciò nonostante le varie crisi economiche che ci colpiscono. E in effetti, qui da noi in Italia, le notizie sulle “provvidenze” pubbliche ai teatri sono catastrofiche! E allora si profila un'arte, in qualsiasi modo la si articoli, essenzialmente e ancor di più che nel Novecento, minoritaria , di nicchia, per pochi felici che la vogliono seguire! O fatta da “dilettanti” nel senso più positivo del termine e seguita da altrettanti dilettanti che gustano per motivi personali le arti teatrali! Può darsi, può darsi. Il fatto è che, a differenza di altre arti, letteratura pittura scultura cinema d'autore, i cui prodotti “restano”, dell'arte teatrale via via creata, presentata, protetta, resta ben poco, e resta il ricordo di grandi attori-poeti che via via si annebbia col passare del tempo. Varrà la pena continuare a “proteggere” un qualcosa di cui quasi non resta traccia? Io non sono in grado ovviamente di dare una risposta: posso solo dire che al momento, per esperienza diretta personale, più che per elaborazione di pensiero, di fronte alla realtà del teatro d'oggi, vale ancora la pena farsi colpire mente e cuore da attori di teatro, anche se pochi, e sempre meno poeti.

(Giorgio Taffon)

 

Tema quarto:

“La dinamica che ho cercato di descrivere astrattamente […] fa sì che, nel passaggio dal lavoro degli attori alla comprensione degli spettatori, si sviluppi una peripezia delle intenzioni e dei sensi (“sensi” come “significati” ma anche come “ciò che si sente”). È per l'appunto la peripezia che rende il teatro un organismo vivente, non replica conforme alla realtà esterna, e neppure rito in cui c'è consenso, ma laboratorio , dove - dato un punto di partenza conosciuto – si sviluppa un itinerario mentale non determinato.”

(Ferdinando Taviani, Visioni , in Eugenio Barba, Nicola Savarese, L'arte segreta dell'attore. Un dizionario di antropologia teatrale , Lecce, Argo, 1996)

 

Un racconto a mo' di parabola:

Una lettera inquietante

 

Gioele è un attore ormai maturo, ma i suoi cinquant'anni se li porta molto bene, tant'è che le colleghe attrici più giovani si trovano pienamente a loro agio quando s'incontrano con lui fuori dalle scene, nella vita di tutti i giorni.

E poi Gioele è davvero il classico bell'uomo, con il suo naso regolarissimo, gli occhi verdi smeraldo, i capelli appena increspati e con lievi nuances di grigio incipiente. Il suo sorriso è smagliante, accattivante, ha dei denti di perla, ben sagomati.

Gioele si è separato dalla compagna Luisa, che non aveva comunque sposato, e che gli ha dato una figlia, oramai adolescente: Lilia, che ha già deciso di seguire le orme paterne, cioè di fare anche lei l'attrice, consapevole di farsi sempre più bella, piacevole, con un corpo di prorompente presenza fisica, e un viso simile ad una sacerdotessa dell'antica Grecia.

Gioele ora non ha nessuna donna, anche perché ha voluto prepararsi per la pièce che sta portando in scena con la massima concentrazione, rifiutando di avere impegni anche di tipo sentimentale: ha vissuto i lunghi mesi di prova come un monaco, allenandosi fisicamente, passando diverso tempo in meditazione, e costruendo il suo personaggio step by step , con metodo, con passione, con raziocinio estetico.

Il testo è di un autore indoeuropeo, praticamente sconosciuto in Italia, Amartya Banipuda, che, opportunamente tradotto in italiano, esercita una buona presa linguistica alle orecchie del pubblico cosiddetto medio. La stessa regia dell'amico Giuseppe ha saputo creare il giusto contesto scenico per Gioele e le due attrici co-partners sulla scena, e anche per il giovanissimo attore che interpreta il figlio adolescente di una delle due. Il personaggio interpretato da Gioele è quello di Roby, un medico neuropsichiatra che non riesce a capire quale delle due donne, con cui s'incontra da tempo, divenendo amico d'entrambe, è davvero e profondamente innamorato: Rosie, sua paziente, o Angie, amica intima della prima? Rosie è sposata, ha due figli maschi, e il suo matrimonio è parecchio in crisi; Angie è single e, afferma lei, per libera scelta, anche se almeno una relazione forte l'ha avuta essendo madre di un ragazzo quindicenne, dal carattere piuttosto difficile. Rosie, che è quasi uscita positivamente dalle sue nevrosi, è ora in cerca di autorealizzazioni di natura anche spirituale, spinta pure dal suo lavoro di ricercatrice universitaria di materie d'italianistica. Angie ha una personalità più leggera, non priva di autentici slanci di generosità e attenzione verso gli altri, anche se poi sembra essere aliena alle rigide regole sociali.

L'intreccio ha un acme conflittuale intenso quando le due amiche si affrontano in uno spiacevole litigio, dovuto ad una frase piuttosto forte pronunciata da Rosie nei riguardi del figlio dell'amica, Emanuele, troppo viziato secondo la prima donna. Angie si sente fortemente mortificata, e chiede all'amico medico Roby di darle ragione davanti all'amica Rosie. Il medico si rifiuta di giudicare, deludendo Angie e rassicurando parallelamente Rosie. Angie sparisce per un po' di tempo lasciando soli, nei loro incontri, il medico e Rosie: i due finiscono una sera per fare l'amore nel salotto della casa di Roby: un incontro di altissima tensione erotica per entrambi, ma privo di volgarità, estremamente lento, sia nei preparativi, sia nella fasi successive all'orgasmo; fatto di silenzi e d'improvvisi eccessi di parole, di fantasie visionarie e di subitanei profondi lunghi respiri: naturalmente sulla scena tutto è appena alluso, fatto immaginare al pubblico.

Roby fin dal giorno dopo non si sente intimamente soddisfatto di quell'improvviso rapporto, e per di più sul piano deontologico avverte di aver sbagliato: quella donna è stata sua paziente, e non è ancora del tutto uscita dai suoi problemi neuropsichiatrici: forse non avrebbe dovuto minimamente acconsentire a un rapporto di estrema intimità

Quella sera stessa si presenta a casa sua all'improvviso Angie, mostrandosi disperata, poiché ha scoperto che suo figlio è coinvolto in un giro di giovani spacciatori: afferma, sconvolta, che Rosie quella volta aveva avuto ragione ad incolparla di aver sempre viziato il figlio. Chiede aiuto a Roby, innanzi tutto professionale: vorrebbe portare il ragazzo a svolgere un primo colloquio con lui, per capire se una terapia svolta seriamente può salvare suo figlio. Roby acconsente, anche perché Angie nella sua disperazione gli appare di una bellezza feroce e sconvolgente.

Altro acme drammatico si raggiunge durante il primo colloquio fra il medico e il ragazzo, Emanuele, il quale vomita fuori tutta una serie di gravi accuse contro la madre, affermando che è lesbica, e che consuma i suoi rapporti soprattutto con la sua amica Rosie; che si fa continuamente di coca, dissipando un notevole patrimonio lasciatogli dal ricco padre, morto ancora giovane in un incidente stradale; che ha conoscenze non certo occasionali con alcuni mafiosi siciliani.

Roby nel terzo atto cercherà le prove di tutte queste accuse, che si riveleranno veritiere: decide di troncare ogni rapporto con le due donne, e di dedicarsi gratuitamente e ben oltre il dovere più strettamente professionale, a curare e a intessere un profondo rapporto umano con il ragazzo.

Lo spettacolo è ormai ben rodato, come si suol dire, grazie a diverse repliche in più città, e grazie anche ad un ottimo successo sia di pubblico sia di critica, secondo le molte recensioni positive comparse soprattutto nei più accreditati Siti specializzati. E certamente Gioele ha dalla sua giudizi molto incoraggianti. Ed è proprio quando Gioele sta leggendo su Internet una delle ultimissime recensioni, che gli arriva una mail, il cui nome utente di fatto gli risulta anonimo. La apre e inizia a leggerla, fra sè e sè:

<<Gentile e straordinario Gioele,

sono una sua ammiratrice, e mi chiamo... Angie! Ho visto fin'ora tutte le repliche del suo spettacolo, spendendo migliaia di euro per i biglietti e gli spostamenti, ma, come forse inizia ad immaginare, posso farlo perché mio padre, perito in un incidente stradale alcuni anni fa, mi ha lasciato in eredità una discreta fortuna. Mio figlio... Emanuele, ora sta molto meglio: ma non è stato il suo psichiatra Roberto, detto Roby, a curarlo, perché io gliel'ho impedito: ero innamorata pazza del medico, uomo bellissimo, come lo è lei, caro Gioele; ne ero molto gelosa. Non poteva rubarmi mio figlio, e io non potevo rinunciare ad entrambi, li volevo tutti e due. La lotta è stata durissima... finché mio figlio, ancora minorenne, non ha avuto un eccesso d'ira uccidendo il dottor Roby... La corte è stata clemente: per le attenuanti varie, compresa l'età minorile, mio figlio è stato in riformatorio solo per qualche anno, ed ora è uscito. Sta molto ma molto meglio, diciamo che è praticamente guarito.

Lei non può immaginare cosa ho provato rivivendo a teatro tutta la mia storia, salvo il finale! Durante la prima rappresentazione a cui ho assistito, più volte mi è venuto da gridare, più volte mi son sentita mancare, più volte avevo degli spasmi di dolore che mi trafiggevano il torace, l'addome, la pelvi... Son dovuta tornare una seconda volta, ero attratta come da una gigantesca calamita... Ed ogni volta che vedo lei e gli attori recitare sulla scena, per me è rivivere uno strazio immenso, ma, anche, assieme, provo come un fortissimo orgasmo, anche sessuale, soprattutto nella scena in cui lei recita l'amplesso con Rosie. Ora tra lo spettacolo e la mia vita non c'è quasi nessun diaframma: posso sempre rivivere ogni volta tutto della mia vita, ed è come se risorgessi sempre... ma manca la tessera finale, che lei e il suo regista o, che so, l'autore stesso della storia, dovete collocare, per la mia assoluta trionfale realizzazione esistenziale: cioè dovete concludere, come ho riferito più sopra, con la morte di Roby per mano di Emanuele, e con la guarigione finale di mio figlio... Ora tutto ciò io me lo merito... io che vi ho visto per decine e decine di repliche... io che ho speso tanti, tanti soldi... io che non vivo altro che per vedere voi ogni sera... io che prove alla mano ho dichiarato con atto notarile questa incredibile coincidenza...io ho il diritto che questa incredibile coincidenza di storia finta e storia vera si compia completamente e definitivamente! Altrimenti, se così non sarà, le assicuro, mi creda, che lei... farà la fine del dottor Roby! Perché non potrei sopportare che tutto non sia compiuto com' è stato davvero! Sono addolorata nel doverle assolutamente ripetere: lei deve interpretare il vero finale, altrimenti... mi perdoni... io la uc-ci-de-rò!... O, viste certe mie conoscenze in ambito mafioso, la farò uccidere!... Caro Gioele, la prego, la scongiuro di credermi!

Sua Angie>>.

A Gioele tremano le mani ghiacciate sulla tastiera...

(Giorgio Taffon)

Tema quinto:

“Se la nozione politico-sociale di teatro come servizio si è ormai fatta anacronistica e se ciononostante al palcoscenico ancora compete il ruolo culturale e metaforico (…) di essere luogo di una conoscenza complessa maturata attraverso l'esperienza, non si dovrebbe allora cominciare a pensare all'esperienza scenica come ad un <<valore>>, e che proprio in quanto <<valore>>, il teatro andrebbe tutelato e sostenuto?”

(Luca Ronconi, “Corriere della Sera” 15\01\2002)

 

“ruolo culturale e metaforico” del palcoscenico, “essere luogo di una conoscenza complessa maturata attraverso l'esperienza”, “esperienza scenica come <<valore>>”: possiamo dopo dodici anni che le ha scritte condividere le parole del nostro più grande regista teatrale vivente? Si, se crediamo fino in fondo ad un teatro fondamentalmente di regia. No! se crediamo fondamentalmente a un teatro d'attore nella sua relazione con lo spettatore (guidato, l'attore, in questo obiettivo dal regista). Allora, è l'attore che ci può conquistare, o è tutto lo spettacolo nel suo insieme espressivo e comunicativo che ci deve affascinare? Ha torto, in fondo in fondo, Grotowski a sostenere che occorre una certa “povertà”, intesa all'osso come appunto relationship tra attore e spettatore?

È lo spettacolo nel suo insieme che conta, che è e fa poesia, o è l'attore coi suoi mezzi espressivi e il suo corpo-mente che ci emoziona? È il performer che della sua fisicità fa lo strumento unico ed essenziale di un processo espressivo-comunicativo, e quindi poetico?

Molti ensemble del teatro giovane italiano sembrano prediligere la prima via, pur se si affidano molto anche all'uso dei nuovi media; molti artisti solitari, nel senso che eseguono degli assoli performativi, paiono ovviamente prediligere la seconda direzione. La speranza è che comunque ciascuno, pur nelle sue scelte, sappia attrarre e colpire il cuore e la mente degli spettatori dal vivo. L'augurio è che lo spettacolo dal vivo e la sua poesia sappiano essere una dimensione altra e irrinunciabile rispetto a quella, apparentemente stravincente, dei massmedia!

@Maggio 2014