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IL TEATRO DELLE ALBE A ROMA

 

Dedica ai corsari teatrali del Teatro delle Albe
(a mo' di rapida recensione a botta fredda su Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi )

di Giorgio Taffon

Carissimi Ermanna Montanari, Marco Martinelli, e artisti del Teatro delle Albe, a me è stato dato il compito, dai colleghi di Liminateatri.it, di svolgere le mie riflessioni sul vostro spettacolo visto al Teatro Argentina di Roma (Teatro di Roma) nella penultima serata di programmazione, appunto, romana. In quella replica devo dire che era affollata solo la platea, il che non è minimamente un giudizio di valore, ovviamente: non è per un eventuale vostro non-valore che il teatro non era affollato, semmai a creare dis-valore è lo spettatore tipo dei teatri romani: impaurito dei “corsari” teatrali come voi siete, e lo siete assieme a pochi altri in Italia.

Il fatto è che voi avete svolto un'incursione culturale e teatrale di immane sforzo ermeneutico: una sfida dai molti rischi, e che il pubblico abbia un poco disertato la sala, e che alcuni spettatori-critici, come lo sono io, abbiano un pochino storto il naso, a mio parere, è dipeso dalla posta in gioco, molto alta. Certo è possibile che la relazione drammaturgica e teatrale, come risulta da alcune “cronache”, in altri luoghi e enclavés teatrali, sia risultata assai efficace, ma non essendo, ovviamente, stato presente non è di questo aspetto che qui posso scrivere.

In realtà, il nodo cruciale della vostra sfida va oltre le nostre categorie e i nostri paradigmi culturali, estetici, espressivi, tipici della mens aeropea . Della grande donna birmana, come di ogni personaggio della Storia, si possono scrivere romanzi, ricostruire biografie, girare films del genere bioptic, ecc… : e dal nostro punto di vista occidentale, seguiremo molto probabilmente schemi già tradizionalmente garantiti, in cui il contesto storico, sociale, economico, politico acquista grande evidenza. Ma se dovessimo assumere il punto di vista diuna persona estremo orientale, di formazione buddista, che alla radice conserva anche caratteri induisti, allora le prospettive cambiano, e cambia, deve cambiare la stessa formalizzazione della DRAMMATURGIA, della SCRITTURA scenica, della “messa in vita del testo” (come usate molto a proposito dire voi stessi), delle modalità espressive attoriali, e così via.

Il nodo, dicevo, che stringe in sé la Vita, specie quella “agli arresti”, della nostra protagonista, e che la lega a tradizioni, miti, convinzioni, è il Mito di Sunashepa, che si inserisce, come sottolinea Raimon Panikkar, anche nella nostra cultura a ricordare che “La nostra storia sacra è certamente una sfida al mito della storia. La libertà umana è possibile e reale, non soltanto per i nostri successori, o in un' altra vita; ma ora, nel presente tempiterno , nel nucleo più profondo dell 'humanum . La figura mitologica ma colma di senso per le culture orientali dell'uomo poi divinizzato Sunashepa, vuol dimostrare che, per la propria vita, per la propria più intima natura, per la propria salvezza, non solo biologica, non solo sociale, anche se porterà frutti pure a queste dimensioni del vivere, ogni sacrifico è da affrontare, ogni con-centrazione su se stessi, anche a costo di ASTRARSI DALLA STORIA, è un passo verso una nuova Vita.

 

Ecco, a mio umile parere, il nodo che diviene gliommero scenico: come far risaltare ciò? Come mostrare e non dimostrare la forza interiore straordinaria di Aung San Suu Kyi!

Io penso che, nella sfida che avete voluto accettare, occorrerebbero ulteriori equilibri: meno Storia, e storia minuscola; meno Fantoccioni politici, brecthiani o no; meno maschere politiche fino al rischio di annullare tutto, e far spiccare sulla scena unicamente la gran donna, già così meravigliosamente incarnata da Ermanna! Sia chiaro: non metto in dubbio la vostra capacità di intessere molteplici espressioni sulla scena, a partire dal gran lavoro registico di Marco, si tratta solo di cambiare, come detto, gli equilibri: sfumare. Sfumare quella Storia, porla sullo sfondo, alluderla, storia di un paese di fronte alla quale l'eroina birmana, nel chiuso della sua abitazione e nell'isolamento, appunto, da tutto e tutti, e per lunghi anni, ha saputo, come il mitico personaggio indù, salvarsi, per poi, naturalmente, salvare anche il suo popolo.

 

Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi

ideazione Marco Martinelli e Ermanna Montanari

regia Marco Martinelli

con Ermanna Montanari, Roberto Magnani, Alice Protto, Massimiliano Rassu

incursione scenica Fagio

musica Luigi Ceccarelli

spazio scenico e costumi Ermanna Montanari

montaggio ed elaborazione video Alessandro Tedde, Francesco Tedde

realizzazione suono Edisonstudio Roma

Produzione Teatro delle Albe – Ravenna Teatro

in collaborazione con Emilia Romagna Teatro Fondazione

con il patrocinio di Amnesty International

Teatro Argentina, Roma, dal 13 al 17 aprile 2016

@foto di Enrico Fedrigoli

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Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi

di Alfio Petrini

Marco Martinelli ha posto nel recente passato una questione di rilevante interesse artistico e culturale. La messa in scena e la messa in vita sono pratiche di regia sostanzialmente diverse. Diverso è il presupposto drammaturgico di riferimento, diverse le tecnicalità di scrittura scenica chiamate in causa. La messa in scena genera, di solito, forme morte e moduli espressivi ripetitivi; la messa in vita produce invece forme vive, forme cariche di energia vitale, organiche, credibili, che tendenzialmente conquistano il cuore e la mente dello spettatore.

Vediamo se il testo Vita agli arresti di Aung San Suu Kyi (Luca Sossella Editore, Vignate, Milano 2014, pp. 104, euro 10,00), posto a fondamento dello spettacolo omonimo, è stato in grado di favorire la tecnicità della messa in vita, teorizzata da Martinelli. Esaminiamo gli elementi basilari della scrittura drammaturgica: il tono “scandaloso” della vita che viene raccontata senza odio nei confronti dei carnefici, la scena, il sistema dei segni messi in preventivo, le nuove tecnologie utilizzate in funzione dei segni visivi e sonori.

La bipolarità della scena vuole essere “luogo di fantasmi“ e “antro della storia”. Si muove tra pubblico e privato, senza che gli spiriti malvagi suscitino il brivido provato da Aung Sa Suu Kyi quando era bambina, e senza che il tono grottesco delle maschere dei generali produca una tragica ilarità con il suffragio dei segni sonori affidati all'abilità di Luigi Ceccarelli. Anche l'uso dei microfoni suffraga l'ipotesi bidimensionale di una “voce pubblica” (comizi, dichiarazioni e riferimenti storici che costituiscono la massa dei segni verbali) e una “voce intima” preventivata per rendere “udibile il trascorrere del pensiero”. E l'anima? E il movimento del desiderio?

La scrittura drammaturgica induce a considerare alcuni apprezzabili stili recitativi, che hanno tuttavia poco a fare con quello che viene citato come “stato di coscienza”, ostacolato e respinto dalla quantità eccessiva delle informazioni e delle descrizioni, che trovano riscontro anche in numerose foto e scritte destinate al fondale della scena. In sostanza i fatti riferiti incidono pesantemente sulla comunicazione, ostacolando la volatilità e la impalpabilità della poesia della scena. Un esempio. Il monologo del fantasma di Ne Win attraversa 50 anni di storia in due pagine che sembrano durare una eternità.

Sul corpo inerte delle parole, Martinelli getta a piene mani una quantità considerevole di segni visivi, sonori e oggettuali, come a voler alleggerire il racconto e assicurarsi l'attenzione consapevole e inconsapevole dello spettatore. E così, nel tentativo di ravvivare dall'esterno quello che dovrebbe essere alimentato dall'interno, si mettono in preventivo le azioni di un personaggio che sono mimate da un altro personaggio, vengono introdotte maschere, microfoni e voci che stanno nel cuore e nella mente del drammaturgo, e poi scimmie-militari, cambi sapienti di toni di voce, scambi di persone, immagini di massacri, anime di metallo sonore, assolvenze e dissolvenze incrociate, bacinelle di acqua piovana, spiriti maligni, balletti di spiriti, innaturali silenzi, maschere e gesti da gorilla, lampi improvvisi, paesaggi di pagode e mongolfiere, flauti e tintinnare di campane, prugne nere da divorare, morti che parlano, fantasmi, un geco, la foto di un bambino-soldato, il coinvolgimento strumentale del pubblico femminile e “il giovane Brecht che esce di scena camminando all'indietro, come sgonfiato”.

Il linguaggio con la sua grammatica e con la sua sintassi soffoca l'energia che dovrebbe venire dall'interno del processo di formalizzazione. Di rimbalzo nasce il desiderio forte di leggere meraviglie senza giudizio e senza descrizione, e ascoltare il grido profondo dell'anima generato da un linguaggio senza sintassi e senza grammatica.

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Slot Machine : un viaggio negli abissi del gioco d'azzardo

di Letizia Bernazza

<<Non è importante vincere. È importante giocare. Solo quello conta appena entro nel bar>>.

Ruota intorno a questa frase emblematica, Slot Machine del Teatro delle Albe presentato all'Angelo Mai di Roma dal 27 al 29 aprile scorso. Un lavoro intenso che non lascia scampo allo spettatore, chiamato a seguire lo sprofondamento di Doriano - unico protagonista in scena, interpretato dal bravissimo Alessandro Argnani - nella sua caduta vertiginosa tra le sabbie mobili del gioco d'azzardo. E, infatti, da subito è il buio ad accogliere i partecipanti. L'assenza pressoché totale di luce, li accompagna nel tragico viaggio - senza via d'uscita - della vittima, assillata dal gioco e dal ricatto dei debiti. Già perché quell'uomo solo, figlio di contadini, che invece di sporcarsi le mani di terra come i suoi genitori, ha come unico obiettivo di annullarsi nel meccanismo perverso delle slot, annegherà inesorabilmente nell'autodistruzione.

Un annichilamento di cui sono complici anche la Società e lo Stato che, in nome del profitto, invogliano la ludopatia (meglio individuata come G.A.P., gioco di azzardo patologico) attraverso la liberalizzazione stessa del gioco d'azzardo, fonte di malattia per milioni di italiani di ogni età, estrazione sociale e sesso, sebbene ad essere colpiti maggiormente siano precari, pensionati e disoccupati (!).

La dipendenza dalle “macchinette” porterà Doriano a divenire un brandello di essere umano senza un passato e senza un presente. Il suo passato e le sue tradizioni familiari, espressione dell'atavica e autentica comunità di cui fa parte, vengono infatti cancellate dalla smania incontrollata per assurde scommesse che ogni volta fa con se stesso e con il falso promesso luccichìo dello scorrere impetuoso di simboli “ipocriti” che si succedono implacabili sugli schermi delle slot nei giorni pari a “Romagna mia” e nei giorni dispari al “Pin up” e, ancor prima, alle poste sui cavalli o alle puntate fatte sulla bizzarra Tomba del Faraone. La sua iniziazione alle scommesse avviene ad opera del fantomatico Eraldo, uno che se ne intendeva, e che lo aveva introdotto in un mondo diverso: su quei maledetti display non scorrevano ciliegie e pesche. Doriano le conosceva fin troppo bene. I suoi genitori le curavano, le raccoglievano. Forse lui se ne era anche cibato. Ma rotolavano giù gli antichi egizi. Vuoi mettere la novità? Le slot non emanano l'odore della terra o il lezzo del sudore di chi rientra a casa dopo giornate passate nei campi e in più, se c'è il guadagno facile, perché non approfittarne? A costo di svendere tutto: se stessi e il proprio Universo, persino l'amato New Holland, il trattore rosso fiammante dei suoi genitori. Un oggetto-simbolo liquidato per poco, così come ad essere messe in saldo sono la Tradizione e la Memoria. Bagagli importanti e imprescindibili dal nostro essere persone.

Radici da non recidere mai se vogliamo continuare a essere presenti nel Mondo. Altrimenti si viene spogliati. Diveniamo morti viventi. Costretti a sopravvivere, al pari di Doriano, su quelle tavole fredde simili a un letto asettico di ospedale dove è la solitudine angosciosa a schernirsi di noi. E, allora, non abbiamo nessun dialogo con il resto dell'umanità. Restiamo nell'angusto e solipsistico spazio delle non-relazioni e della non-comunicazione che ci trasforma in esseri inermi, privati di confronti intersoggettivi e ridotti, per comoda convenienza sociale, a esseri autoreferenziali come dimostrano nella messinscena il gioco di specchi che circondano il personaggio principale e che rappresentano la sua distanza “condizionata” rispetto all'Altro da Sé. Le ciniche risate iniziali, quasi una difesa alla disperazione del protagonista, accentuano per l'intera durata dello spettacolo la progressiva emarginazione di Doriano cui fanno da contrappunto le musiche poetiche di Cristian Carrara in armonia con l'essenzialità dell'impianto scenico e dei costumi di Ermanna Montanari.

Il principale pregio di Slot Machine : Marco Martinelli ed Ermanna Montanari sono riusciti a stimolare la riflessione degli spettatori su un tema di grande attualità (ricordiamo che Slot Machine era già stato presentato a Spoleto nel 2014 come opera lirica sperimentale e si intitolava, prendendo spunto dall'ancora attuale romanzo di Dostoievskij, Il giocatore ), consegnandoci un lavoro che con la sua poesia e con la forza del linguaggio “vero” del Teatro è in grado di insegnarci che la bellezza dei nostri cuori non va mai svenduta e che soltanto noi possiamo decidere <<… da chi e da che cosa lasciarci afferrare>>.

 

Slot Machine

di Marco Martinelli

ideazione Marco Martinelli, Ermanna Montanari

con Alessandro Argnani

musica Cristian Carrara

spazio scenico e costumi Ermanna Montanari

luci Enrico Isola, Danilo Maniscalco

fonica Fabio Ceronio

allestimento scenico a cura della squadra tecnica del Teatro delle Albe Fabio Ceroni, Luca Fagioli, Enrico Isola, Danilo Maniscalco

regia Marco Martinelli

produzione Teatro delle Albe – Ravenna Teatro in collaborazione con Olinda

Angelo Mai, Roma, dal 27 al 29 aprile 2016

@foto di Davide Baldrati