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I volti di Il nome del figlio

Una riflessione “teatrale” sul film di Francesca Archibugi

di Giorgio Taffon

Ho visto il film di Francesca Archibugi, Il nome del figlio , ieri, domenica 26 gennaio: sala gremita, diverse risate, successo facilmente percepibile all'uscita, un'ora e mezza di immagini che scorrono via facili, immediate, senza che quasi me ne accorgessi. La sceneggiatura è di Francesca Archibugi, la regista, e di Francesco Piccolo, recente vincitore di Oscar e del premio Strega di letteratura. I due hanno rifatto in sceneggiatura il testo teatrale originale, Le prénome , di Alex De La Patelliére e Matthieu Delaport, distaccandosi poi dal successivo omonimo film francese del 2012 Cena tra amici . Il film è stato prodotto anche da Fabrizio Voglino e Paolo Virzì, la cui moglie Micaela Ramazzotti fa parte del casting, completato da Alessandro Gassmann, Valeria Golino, Luigi Lo Cascio, Rocco Papaleo, Marco Baliani, Manuela Mandracchia.

Sinceramente come formula drammaturgica il film non mi ha particolarmente avvinto: la resa dei conti, o il litigio profondo colmo di conflitti che esplode per una nonnulla, o la drammaturgia dell'epilogo, sono moduli molto sfruttati in teatro e, mutuati spesso dalla scena, presenti anche in cinema.

Eppure devo dire che lo sviluppo del semplice intreccio del film della Archibugi mi ha avvinto: esso consiste in un incontro a cena in casa di Betta (Valeria Golino), insegnante di scuola media, e Sandro (Luigi Lo Cascio), professore universitario di Letteratura Italiana, a cui partecipano Paolo Pontecorvo (Alessandro Gassmann), fratello di Betta, sua moglie Simona (Micaela Ramazzotti), incinta, e scrittrice potenzialmente di successo, e Claudio (Rocco Papaleo), amico d'infanzia della coppia di fratelli. Il passato ha unito quattro su cinque di loro, un passato che la regista propone scandendo il dipanarsi dell'intreccio (che consiste, nelle tre unità aristoteliche di micro e macro conflitti che si siusseguono durante la cena): il passato dei Pontecorvo (Gillo? Come memoria più o meno inconscia dei cineasti?), nella villa in Toscana presso la costa tirrenica, dove Paolo e Betta sono fortemente condizionati da un padre (Marco Baliani) molto severo, ebreo, di sinistra, uomo di successo nell'ambiente culturale. E il film si apre con un primo flashback dove i due fratelli giocano con gli amichetti Sandro e Claudio nel giardino della villa.

Cosa fanno da adulti i personaggi protagonisti? Paolo è agente immobiliare, benestante, piuttosto di destra, lo stereotipo dello sbruffone, buono d'animo, sempre in bilico fra scherzosità, superficialità, timidezza. La moglie Simona, molto bella, come su scritto, vuole emergere come scrittrice, forse per riscattare la sua provenienza “coatta” (Palocco, sulla Cristoforo Colombo): apparentemente svampita, in realtà sa bene cosa vuole, ed è molto acuta, pronta a s-mascherare gli altri. Sandro è un professore che “rompe” e irrompe col suo intellettualismo, è un umanista ma non rinuncia alla tecnologia e alle comunicazioni sociali di massa (da twitter, ai regali ai due figli di strumenti nuovissimi come un elicottero-drone che riprende vari momenti della burrascosa serata); abita con Betta e i due figlioletti in un appartamento in zona Pigneto, che a Roma è stata negli ultimi anni scelta da inquilini di sinistra, radical chic, intellettuali, artisti. Betta è una donna che si rivela essere insoddisfatta, ma che tenta di portare avanti il lavoro, e la famiglia, magari anche per puro senso sacrificale. Claudio è un musicista, single, che in finale di film rivelerà, quale colpo di scena, un'incredibile unione amorosa.

Nel film si presenta dunque una vera e propria tranche de vie , giocata come commedia sentimentale (definizione della Archibugi stessa): un pezzo di vita al presente, che si confronta con pezzi di vita del passato, in flash back, come a voler dire che la storia di quelle amicizie è lunga, radicata in molti anni di condivisione (a partire da quell'età della vita che molto ha sempre preso l'attenzione e la sensibilità della regista).

Certamente vengono sottolineati vizi e virtù di più sottoclassi sociali, in quel miscuglio di ceti eterogenei tipico della postmodernità, o del postcapitalismo. Eppure non credo che sia stato questo l'aspetto più convincente per me: non credo molto che le caratterizzazioni sociologiche sorreggano un prodotto della fantasia, né manicheismi ideologici. Come pure le sottolineature caratteriali dei personaggi non sono espresse in un linguaggio filmico particolarmente elaborato, o in una sottile e complessa ricerca psicologica, come d'altra parte il genere commedia vuole.

Eppure il film prende, e mi ha preso.

Uscendo dalla sala mi chiedo il perché, e trovo una risposta nella parola chiave: teatro ! Beninteso, il film non è una messa in cinema del testo teatrale, o una sorta di ripresa di una rappresentazione teatrale. Si fonda su una sceneggiatura fortemente drammaturgica, in cui con linguaggio filmico autonomo s'innestano i flash back memoriali e narrativi: ma questa scelta poteva essere deleteria per la realizzazione cinematografica per immagini.

Benissimo ha fatto dunque la regista Archibugi a scegliere attori fortemente “teatrali” e di formazione teatrale: da Lo Cascio a Gassmann, dalla Golino a Baliani, e così via. E benissimo ha fatto ad usare continuativamente lo zoom, cioè l'avvicinamento dello sguardo che a teatro non si può avere, se non appunto attraverso un binocolo, cioè delle lenti, cioè un manufatto (naturalmente un bravo attore può sempre attirare l'attenzione dello spettatore su un particolare della sua partitura fisica, in qualche modo “ingrandendolo”). Per cui è come se noi vedessimo i volti degli attori indipendentemente dalle azioni che svolgono (poche, essendo il film moltissimamente parlato, come ovvio). Il valore del film, a mio parere, è nell'imprimersi di quei volti, delle loro espressioni, dei loro occhi, molto espressivi, molto ben evidenziati dalla macchina, e molto ben evidenzi anti un intreccio di legami affettivi, sentimentali, di esperienze vissute: volti magnificamente credibili, che non possono non suscitare in noi spettatori il ricordo dei tanti volti che abbiamo incontrato nella nostra vita, essendo poi la vita fatta di intrecci di volti che si rispecchiano l'uno sull'altro, vicendevolmente. E il film si chiude con il volto nuovo di chi viene appunto alla vita, della creatura di Simona e Paolo, resettando qualsiasi altra categorizzazione culturale: la nascita, fatto naturale, comporterà poi una ri-nascita culturale, che speriamo possa essere sempre sorprendentemente nuova, libera, amorevole, per il cammino umano.