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Donne che sognarono cavalli

di Letizia Bernazza

 

Tutto si svolge in un interno. Chiuso. Ed è lì - in un appartamento dove si incontrano tre coppie - che via via emergono conflitti, nutriti da una violenza nascosta sempre pronta ad esplodere.

Stiamo parlando di Mujeres soñaron caballos (nella traduzione italiana, Donne che sognarono cavalli ), pièce dell'autore argentino Daniel Veronese - classe 1955, tra i drammaturghi più rappresentativi del teatro argentino del periodo post-dittatura - rappresentata dal regista Roberto Rustioni all'Angelo Mai di Roma. Mujeres soñaron caballos viene dato alle stampe nel 2000 nel volume La Deriva (Buenos Aires, Adriana Hidalgo) e viene messo in scena per la prima volta nella primavera del 2001 presso il Teatro San Martín. Lo stesso spazio in cui Daniel Veronese apprende, dalle “mani” di Ariel Bufano e Adelaide Mangani, l'arte della manipolazione “di marionette per adulti” che lo porterà nel 1989 a fondare – insieme a Ana Alvarado, Emilio García Wehbi  e Paula Nátoli – El Periférico de Objetos. Un progetto importante, in grado di offrire agli spettatori uno sguardo espressivo nuovo ed originale su alcuni temi centrali della cultura contemporanea, mai disgiunti dal contesto politico del Paese sudamericano , come la crudeltà, la sopraffazione, la tortura, la colpa e il suicidio. Il 1990 segna l'inizio del suo tour teatrale. Veronese porta sulle scene l' Ubu roi e affida al proprio lavoro il profondo rifiuto contro le convenzioni, prendendo spunto dai nuclei portanti dell'”assurdità dell'esistenza” di Alfred Jarry misti, nella tela drammaturgica, ai toni – iconoclasti – del grottesco e del fraintendimento dell'autore francese. Da qui, poi, procede ad esplorare l'universo di Beckett, Hoffmann e Müller senza trascurare i riferimenti a Kafka, Deleuze e Guattari. La “periferica volontà” di investigare spazi “altri” è un monito a entrare nell'intimo di un “ pensiero di transito”, “ibrido”, per sviscerare le contraddizioni d el XX secolo. <<Il teatro>>, spiega Veronese nel suo Automandamientos ( una dichiarazione di poetica teatrale, semplice ed efficace, pubblicata sempre nella raccolta La Deriva ), <<è un luogo di instabilità e di squilibri che suscita domande piuttosto che risposte>>. Un luogo “altro” in cui lo stesso impiego dei burattini e la loro animazione sono funzionali a indagare un mondo espressivo che può trascendere “l'apparenza naturale del reale” e ricondurre lo spettatore a una sorta di “grado zero”, originario, autentico. La “distruzione”, violenta e trasgressiva, dei codici comuni del linguaggio teatrale, trova - nel periodo de El Periferico – l'humus creativo per le opere successive. Donne che sognarono cavalli ne è la prova. Quell'andare oltre il “corso naturale” degli eventi dona alla narrazione drammaturgica un andamento mai lineare: i costanti sfasamenti spazio-temporali delle vicende raccontate contribuiscono a contrassegnare lo stesso spaccato umano. I protagonisti sono gli uni contro gli altri, i rapporti sono fatti di cose “non dette”, di dialoghi mancati, di enigmi esistenziali che sovrastano la cruda insofferenza di un interno familiare infernale. Roberto Rustioni riesce a dare una lettura molto intensa del testo di Veronese. Il regista coglie le atmosfere “inquietanti” dell'autore argentino e i toni da “commedia nera” che serpeggiano tra le relazioni delle tre coppie. Tutti, infatti, sono sull'orlo del precipizio: serrati dentro un salotto con le pareti foderate di giornali, si attaccano e si sfidano senza sosta, ora con sommessa (e solo apparente) tranquillità, ora con bestiale ferocia. L'azienda di famiglia è fallita. Uno dei fratelli si è sentito in diritto di svenderla e non ha informato gli altri due; un altro, malato di tumore, non ha alcuna voglia di condividere con loro la propria malattia; un altro ancora non ha rivelato alla moglie di essere figlia di desaparecidos. Insomma, i rapporti intersoggettivi non esistono più e le singole fisionomie sono frantumate da insuccessi e mancanza di memoria. Le tre mogli, non meno dei tre mariti, vivono vite frustranti: ci sono una casalinga scontenta, una improbabile sceneggiatrice, una ragazza priva di passato. Ad avvolgere i personaggi una bolla di inesorabile solitudine che trova, soltanto nella rivalsa, nel sospetto e nelle bugie, una possibile via d'uscita. La più credibile tra gli interpreti è Maria Pilar Perez Aspa (Bettina). L'attrice sa restituire le sfumature della scrittura di Veronese, calandosi con abilità nei panni della casalinga inappagata che, tuttavia, non esita ad accusare suo marito di aver ucciso il loro pony. I toni e le azioni di Maria Pilar Perez Aspa non sono mai sopra le righe anche quando gli scambi di battute con gli altri attori slittano repentinamente in furibondi attacchi verbali. E mentre per l'intera durata dello spettacolo, si aspetta di consumare un riso alla turca mai pronto (altro elemento dell'impianto drammaturgico che conferisce una costante sospensione alla storia narrata), si arriva al finale. Sarà Lucera (Valeria Angelozzi) a compiere la mattanza conclusiva. Si libera dei malvagi familiari, eliminandoli a revolverate e aprendosi così una possibile via di fuga. Quella libertà incarnata dalla figura simbolica del cavallo, l'“oggetto-mezzo”, eterogeneo, “destabilizzante” e onirico (e non, dunque, come si vorrebbe far credere alla ragazza, un animale impazzito che ha causato la morte dei suoi genitori) per oltrepassare la soglia di una realtà, ancora attuale, cinica e spietata. La stessa cui si riferisce Veronese quando afferma: <<Oggi c'è un nuovo tipo di violenza nell'aria. La vedo. La sento dentro di me e dentro molte persone. Per questo ho deciso di scrivere. Il teatro è un terreno di riconoscimento e di dissezione di questi sentimenti censurati ed amorali che non ci permettono di esprimerci completamente>> (Daniel Veronese, Mujeres soñaron caballos in teatrelliure.com).      

 

Donne che sognarono cavalli  

di Daniel Veronese

adattamento e regia Roberto Rustioni  

con Valeria Angelozzi, Maria Pilar Perez Aspa, Michela Atzeni, Paolo Faroni, Fabrizio Lombardo,  

Valentino Mannias  

assistente alla regia Soraya Secci  

scene e costumi Sabrina Cuccu  

assistente scenografo Sergio Mancosu  

luci Matteo Zanda  

foto Alessandro Cani  

Angelo Mai, Roma, dal 9 al 12 marzo 2017