EditorialeIn itinereFocus Nuove arti visive e performative A sipario aperto LiberteatriContributiArchivioLinks
         
       
 

Dal fango alla luce. Intervista a Elena Guerrini

di Letizia Bernazza

È il 12 novembre del 2012. La zona centro meridionale della provincia di Grosseto è colpita da una prepotente alluvione. Il bilancio è pesantissimo: sette morti e un ferito grave. Risultato dell'esondazione del fiume Chiarone, del canale presso il lago di Burano (vicino a Capalbio) e del crollo di un ponte sul fiume Albegna (nei pressi di Marsiliana). A causa dell'esondazione dei corsi d'acqua, diversi paesi della zona risultano completamente allagati. I danni ai terreni agricoli non si contano. Strade e infrastrutture rese completamente inagibili per giorni. Colpito anche il patrimonio culturale: crollano un bastione rinascimentale e un tratto delle vecchie mura a Magliano. La Procura della Repubblica presso il Tribunale di Grosseto avvia le indagini per fare luce sulle responsabilità penali. Resteremo in attesa. Sicuramente per molto tempo. Questa, una breve cronaca dei fatti. Quel 12 novembre, tornavo a Roma dall'Umbria.

Le notizie che ascoltavo alla radio erano inquietanti. Tra i centri più colpiti, Albinia nel comune di Orbetello. Il giorno dopo, sento al telefono Elena Guerrini. Un'amica oltre che un'attrice che seguo con interesse da quando l'ho scelta tra i protagonisti del mio volume Frontiere di Teatro Civile. Quel giorno, anche lei non era in Toscana. Era partita per una tournée nel Nord Italia e per poco è riuscita a mettersi in salvo. Passa qualche mese. Un giorno Elena mi chiama e mi invita ad assistere a un primo studio del suo nuovo spettacolo #dellalluvione . Mi dice che presenterà il lavoro ad Albinia, dentro la sua casa alluvionata a un gruppo ristretto di spettatori-amici, con i quali negli ultimi anni ha condiviso il suo percorso artistico e la sua poetica. Il tempo di organizzarmi e vado. Mi accoglie una cittadina, Albinia appunto, in cui gli abitanti, con le loro forze e con l'aiuto di molti volontari (“gli angeli del fango”), da subito hanno cercato di ricostruire, di sistemare, di spazzare via il fango che aveva ricoperto le loro abitazioni, i loro negozi, i loro garage. All'interno di molti di essi c'è ancora il livello raggiunto dall'acqua documentato sui muri. Un metro e mezzo. Resto sconvolta. Poi, mi reco a casa di Elena. Sosto nel bellissimo giardino pieno di alberi da frutto visibilmente segnato dalla terribile piena. Con me la giornalista Donatella Borghesi. Conversiamo e aspettiamo che Elena ci inviti ad entrare. Nell'attesa riceviamo un breve documento. La frase iniziale mi colpisce molto: <<Cerco il cuore con questo lavoro, viviamo in un momento storico e politico in cui con il cuore dobbiamo trovare le risposte decisive per il futuro dell'umanità, a partire dalle nostre personali e interiori rivoluzioni>>. Non faccio in tempo a terminare di leggere tutto. Poco dopo veniamo invitate ad entrare. La porta del garage si spalanca.

Poi si chiude rapidamente. Il primo studio dello spettacolo parte da qui, dal Museo del Fango, La piena. Atti di Devozione Domestica . Nello spazio, avvolto da una dolce melodia, sono disseminati piccoli e grandi oggetti trasportati dall'alluvione. Cavallucci di legno, pinne, pentole, lavagne, sedie… Alcuni trovati da Elena nel suo giardino, altri raccolti in vari luoghi della cittadina. L'oggetto si fa tramite di un teatro che vuole entrare in contatto con quanti hanno vissuto la terrificante esperienza. La materialità e la normalità dell'oggetto, che invoca il suo statuto quotidiano, usuale, diventa memoria, simbolo di un dolore che ha bisogno della condivisione e del confronto con l'intera comunità per trovare espressione nello spazio teatrale. Al piano di sopra, con molte stanze ancora piene di fango, Elena dà avvio alla sua visione teatrale, frutto degli incontri avuti con i bambini, le donne, gli anziani, gli insegnanti del posto. Le loro voci, i loro racconti, le loro paure si inscrivono sul corpo e sulla voce dell'attrice, la quale ne fa un racconto dirompente. Per quanto fosse uno studio iniziale e, dunque, ancora da mettere a punto, in esso ho riconosciuto la forza del teatro. L'umanità che quest'ultimo riesce ad esprimere quando l'interprete ha la capacità di far rivivere sulla propria pelle, con il lavoro diligente d'attore, la storia e le storie di altre donne e uomini, diventando testimone e narratore delle vicende di una comunità. Nel caso di Elena di una comunità di appartenenza perché ad Albinia è cresciuta, ha vissuto la sua adolescenza e dove tutti la ricordano ancora “come la figlia della maestra”. E, infatti, credo che Elena si sia incamminata sul percorso vero dell'attore-Narratore, di quella figura cioè che vuole e sa esercitare la strada dell'identificazione e della distanza, di chi riesce a farsi interprete della collettività, entrando con responsabilità e autenticità nella vita e nei racconti di chi la abita, pur mantenendo quella distanza che sa esprimere la fluida alternanza tra il dentro e il fuori del “proprio” vissuto e del “loro vissuto”. Il racconto degli abitanti di Albinia, attraverso il contatto diretto, con Elena che – casa per casa – registra le loro storie e le loro testimonianze, si fa voce, intreccia altre voci, diventa emozione, silenzio, rabbia. Un coro che interrompe la solitudine e diventa all'improvviso un dirsi e un farsi universale di parole, di azioni, di gesti, di ricordi per cui l'alluvione di Albinia si trasforma – come afferma Elena Guerrini - <<nella storia di ogni luogo e di ogni disastro: terremoti, inondazioni, incendi, catastrofi naturali a cui non riusciamo a dare spiegazioni>>. Dopo qualche mese, sento l'urgenza di chiedere a Elena a che punto è il suo lavoro e le rivolgo alcune domande:

Dallo scorso aprile, come si è evoluto il tuo futuro spettacolo? E, soprattutto, come si è trasformato il rapporto testimonianza-testo?

Intanto, ho continuato ad ascoltare i racconti della gente di Albinia. Sono ritornata più volte nelle loro case. Quasi quotidianamente mi sono fermata in strada a conversare con chi l'alluvione l'ha vissuta sulla propria pelle; ho partecipato ai consigli comunali e ho raccolto le numerose testimonianze degli “angeli del fango”. Poi, siccome viviamo nell'era di internet, ho messo insieme i commenti postati su Facebook, quelli su Twitter, ho visto molti video amatoriali e i servizi andati in onda sulle reti nazionali e locali. Mi sono confrontata con giornalisti e amministratori del territorio, mentre dentro di me arrivavano le suggestioni e le parole di Antonio Neiwiller (quelle, ad esempio, raccolte in Per un teatro clandestino : <<Che senso ha se solo tu ti salvi. Bisogna poter contemplare, ma essere anche in viaggio. Bisogna essere attenti, mobili, spregiudicati e ispirati. Un nomadismo, una condizione, un'avventura, un processo di liberazione, una fatica, un dolore, per comunicare tra le macerie>>); di Anton Cechov (in particolare, un passo de Il gabbiano : << Adesso io so… io capisco Kostia che nel nostro lavoro poco importa se recitiamo o scriviamo, l'essenziale non è la gloria non è il lustro non è ciò che sognavo ma la capacità di soffrire… Sappi portare la tua croce e abbi fede. Io ho fede e questo mi allevia il dolore, e quando penso alla mia vocazione non ho paura della vita… su quella che è la nostra passione e la nostra vocazione teatrale o di scrittori testimoni di un'epoca>>), e poi testi di Jung, versi della Merini, di Mariangela Gualtieri, fotogrammi di Underground di Kusturica. Ma, senza alcun dubbio, credo che lo spettacolo si sia evoluto anche osservando il “reale Museo del Fango”, vale a dire quello della nostra cultura, della nostra società ormai allo sbando, gretta e insensibile, dove i Teatri chiudono, mentre aumentano talk show e trasmissioni di cucina. Non a caso, l'ultima parte del mio lavoro termina con un karaoke da far cantare al pubblico, accompagnato da un'orchestrina televisiva. È il chiaro segnale di dove siamo arrivati. Una delle riflessioni che ho fatto va, infatti, proprio in tale direzione: un evento tragico nella società dello spettacolo viene affrontato non con dignità e rispetto, bensì mescolandolo a ricette, scoop e gossip giornalistici. Anche per questo, credo, ho sentito la necessità di proteggere #dellalluvione. A differenza dei miei precedenti spettacoli che presentavo in pubblico già in fase di studio, questo lo sto custodendo gelosamente con la volontà di non esporlo a tutti i costi prima di aver raggiunto una buona qualità drammaturgica e attoriale. Il mio lavoro di Narr-attrice è di vivere le storie e di raccontarle sul campo: sul palco o attraverso un libro. Mostrare ciò che non si ha interesse a disvelare. Non mi limito soltanto a raccontare. Le storie le vivo, le interpreto, divento i personaggi che incontro. La libertà è un'esperienza che richiede grande impegno personale, capacità di stare insieme, contaminarsi e con-dividere. Investigare i temi cruciali del nostro tempo, le “zone calde”, pericolose. Anche se si tratta di storie scomode, con il dubbio di non riuscirci e la paura di dissipare la credibilità, di disperdere il dolore di un parto, che è curiosità e allegria per una nuova partenza.

E quali sono gli sviluppi sulla relazione oggetto-spazio-corpo dell'attore?

Cambio dieci personaggi in scena e sono sempre io l'interprete: cerco di essere in ogni momento precisa e concentrata. Anche il lavoro sulla danza si è evoluto e il pezzo centrale di cinque minuti sulla canzone 10.000 Scuse di Tiziano Ferro, porta al lavoro un respiro leggero, contemporaneo. Le parole che avevo raccolto si sono inglobate nel testo e le testimonianze di una persona sono diventate di tutti. Ogni giorno, entrano altre parole, sebbene il linguaggio sia diventato il mio e sia portatore di un dolore:<<I disastri ci insegnano qualcosa?>>, <<No, nulla s'è imparato dai disastri passati, se ogni volta si ricomincia daccapo>>, come afferma Impera, la mia vicina di casa. Mi chiedi degli oggetti.  Ad oggi, essi sono la memoria del Museo del Fango. Un omaggio a il Libro di devozioni domestiche di Bertolt Brecht. Il rapporto oggetto-attore-spazio è ancora in divenire, è una ricerca. Ogni oggetto porta verso una memoria, una parola. Gli oggetti recuperati sono un incipit: un abito da sposa o da festa permette una danza, un suono di carillon richiama un'infanzia perduta.

Hai dichiarato: <<Con questo spettacolo/progetto, mi faccio pioniera di un atto politico e comunitario, che è pericoloso e scomodo, ma anche divertente, portatore di speranza e seme di rinascita, rivoluzione e cambiamento>>. A distanza di qualche mese, pensi possa essere ancora così e quale è stata ad oggi la risposta della tua “comunità di appartenenza”?

Intendendo come comunità quella locale, penso che il tema sia sentito, profondamente. C'è l'interesse a parlarne, perché esiste la sensazione, la paura, di qualcosa che può tornare. C'è, tuttavia, anche una voglia di rinascita. La volontà di porsi delle domande e di andare oltre. Di spingersi, cioè, verso quella suggestione di cui parla la Merini, “il fango che diventa luce”. Vale a dire di una riscoperta di noi stessi e di ciò che ci circonda, del desiderio di parlare delle nostre “alluvioni interiori”, di ciò che ci succede, del “fango” in noi e fuori di noi, dell'ambiente che rispecchia il nostro essere profondo. Jung, non a caso, definisce l'alluvione come viatico per la riscoperta dei propri luoghi e della propria anima. Una visione che è un sogno o una realtà avvenuta nella sua vita. In tutti i casi, una dimensione che ho condiviso pienamente e nella quale ho ritrovato similitudini e affinità con la mia esistenza e il mio sentire. Ma anche con l'intera comunità del luogo. Dopo l'alluvione, molte persone sono tornate nei paesi d'origine, magari da posti lontani in cui vivevano, riallacciando così dialoghi e relazioni. Come del resto ho fatto io. Per quanto riguarda, invece, la comunita' teatrale, gli amici–artisti con cui mi confronto, posso confessare che è stato interessante condividere un dolore che diventava creazione: nel teatro/casa alluvionata, le persone che sono venute a vedere le prove, sfidando lontananza e scomodità, hanno cercato l'incontro e la parola prima dell'evento spettacolare. Hanno visto e udito il mio sentire e si sono fatti abitanti di quei luoghi, seppure per un solo giorno o per poche ore.


@Foto di Andrea Bastogi