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La città di plastica. Nel giardino dei sogni

di Silvia Resta e Francesco Zarzana

con Claudia Campagnola

scene Camilla Grappelli e Francesco Pellicano

suono David Baritoni

regia Norma Martelli

di Letizia Bernazza

Tre protagoniste, tre storie, tre voci. Tre testimonianze differenti, ma emblematiche, che diventano un coro unanime contro le violenze subìte dalle donne. In Iran, come in Afghanistan o in Kenya, è la sofferenza di chi non ha ancora il diritto di poter scegliere la propria vita e di vivere decorosamente la propria libertà, a segnarel'andamento della messinscena.

Un andamento dal ritmo armonico, ben sostenuto dall'attrice Claudia Campagnola che riesce a infondere vitalità, corpo e respiro, alle inchieste giornalistiche di Silvia Resta e alla drammaturgia di Francesco Zarzana. Quando l'interprete - in apertura e in chiusura de La città di plastica - si cala nei panni di Neda, basta il suo sguardo luminoso che cerca quello dello spettatore a trasmettere l'emozione e la pietà che tutti noi abbiamo provato guardando in diretta la morte della ragazza diffusa da un video amatoriale su Internet dopo le proteste seguite alle elezioni presidenziali iraniane del 2009 e duramente represse dalle autorità. La giovane, il cui nome in persiano significa “voce” o “chiamata”, diventa il simbolo della contestazione contro il governo del presidente Ahmadinejad e del mancato riconoscimento della vittoria di Hosein Musavi invalidata da brogli elettorali. Una ninna nanna, che è anche una preghiera di morte, nello spettacolo fa da sottofondo a quel 20 giugno del 2009 in cui la studentessa di filosofia, in compagnia del suo insegnante e fidato amico Hamid Panahi, decide di partecipare alla giornata di protesta. È allegra e spensierata Neda, eppure basta poco per spezzare il suo entusiasmo. Mentre percorre il lungo viale Kargar di Teheran tra la folla sterminata di manifestanti, un membro dei Basij , la milizia armata, le spara e la uccide con gelido cinismo.

Neda brucia dal dolore. Muore in poco meno di due minuti soffocata dal suo stesso sangue che le fuoriesce a fiotti dalla bocca e dal naso, malgrado il rapido tentativo di un medico di soccorrerla. Le parole pronunciate con fermezza dall'attrice, rivolta frontalmente verso la platea, e la sua gestualità sempre molto misurata, ma dall'energia incontenibile, danno forza alla rabbia per la fine ingiusta della ragazza. Un'icona di una generazione che non vuole arrendersi e la cui voce nella messinscena diventa un tutt'uno con quelle originali dei manifestanti giunte al mondo intero nonostante i vani tentativi del regime di censurarle. Il teatro si fa testimonianza, diventa denuncia, esprime emozioni e sentimenti. A molti, operazioni del genere sembrano superflue, doppioni poco efficaci di reportage trasmessi in tv o letti sui giornali. Tuttavia mi chiedo: quanti hanno visto in tv documentari seri sulla recente storia dell'Iran? Quante persone comuni hanno potuto leggere sui quotidiani, ad esempio, le storie di molte donne afghane suicide per sfuggire alla schiavitù dei matrimoni combinati? Il teatro certamente non deve avere l'obiettivo di sostituirsi ad altri media. Il teatro è arte, relazione. È catturare l'attenzione dello sguardo “vivo” di chi si predispone all'incontro con l'altro da sé. È provocare re-azioni. È assistere a un evento straordinario per superare i limiti della quotidianità e per guardare con altri occhi il Mondo reale, spesso manipolato, distorto, iper-rappresentato dai media. Quando poi il teatro riesce a favorire la capacità reciproca di ascoltarsi, nell'alchemica relazione attore-spettatore, credo stimoli anche l'atteggiamento critico dello spettatore. Partecipando a La città di plastica e ascoltando i racconti di Hanifa e di Rose, dopo quello di Neda, attraverso le azioni, il respiro e l'energia dell'attrice, sono entrata in empatia con delle storie e con delle donne. La vicenda di Hanifa, ustionata per reagire al sopruso di un uomo non scelto, e la testimonianza di Rose, che dal Kenya subisce per pochi dollari e concimi killer la propria morte recandosi ogni giorno nelle serre sul lago Neivasha a tagliare rose, hanno risuonato a lungo dentro di me. Ho pensato alla grande “città di plastica” dal profumo di morte e non di rose, alle multinazionali che su quel fiore, simbolo d'amore, sacrificano vite in nome del profitto, al coraggio di Hanifa, Rose, Neda. Ho pensato alla necessità del Teatro, <<… che rimane teatro, anche se è teatro d'insegnamento>> come amava ripetere Bertolt Brecht.

Lo spettacolo - presentato dal 18 al 23 dicembre scorso al Teatro Ambra alla Garbatella di Roma – verrà replicato prossimamente a Modena.

Foto di Valerio Faccini