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Chiedi chi era Francesco

Intervista a Andrea Adriatico

di Stefania Chinzari

 

Biciclette e portici. San Luca in cima alla collina. Turtlèin e lasagne. Le due torri. Lucio Dalla e lo Zecchino d'oro. La stazione ferroviaria più importante d'Italia. L'università più antica d'Europa. Eco, il Dams e Andrea Pazienza. Tutt'al più Pantalone, ecco…

Per quanto si sfogli l'album delle figurine, Bologna resta sempre la grassa, la dotta. Magari la rossa. Ma come si fa pensarla come alla nostra Tienanmen, alla Budapest o alla Praga del Mediterraneo?

<<Sembra impossibile, è vero. Ma tra il 1977 e il 1980, Bologna è stata davvero un crocevia della morte. Durante tutto il 1977 la città vide sfilare migliaia e migliaia di studenti del Movimento, fino all'uccisione di Francesco Lorusso, durante gli scontri dell'11 marzo. Da lì partì la guerriglia e il ministro degli interni Cossiga, d'accordo con il sindaco, mandò i blindati per cercare di tenere sotto controllo la situazione. I carri armati! Poi ci furono la resa dei conti con il PCI, la chiusura di Radio Alice e la repressione, l'inizio degli anni di piombo. A fine giugno del 1980 partì proprio da Bologna l'aereo di Ustica: 81 morti e anni di silenzio e coperture imbarazzanti. E siamo arrivati al 2 agosto, con la strage alla stazione ferroviaria. Può bastare?>>.

Può bastare.

 

 

Andrea Adriatico, regista di cinema e di teatro, autore e giornalista, creatore di Teatri di Vita, a Bologna ci è arrivato da studente qualche inverno dopo, durante di anni della Pantera e la città, ricorda, era ancora militarizzata. <<La lapide di Francesco Lorusso a via Mascarella, in piena città universitaria, era per noi tutti un punto di passaggio inevitabile. Ci sono ancora i fori dei proiettili che gli hanno sparato>>.

A Bologna, città d'adozione, Adriatico ha dedicato un trittico l'anno scorso, per ricordare i 900 anni del libero Comune. Ora, da regista attento al presente, attratto dalla storia e dalla documentazione, affascinato dalla marginalità e dalla solitudine, da autore che negli anni ha attinto tanto ai grandi maestri (da Pasolini a Koltès a Mishima o Beckett) quanto alla contemporaneità (la guerra dei Balcani, l'Olocausto, la Uno bianca, l'Aids) ha visto nei 40 anni dalla morte di Francesco Lorusso un pretesto ineludibile per <<mettersi in rapporto con pezzi di memoria, frammenti di autobiografia e necessità di chiedere aiuto al teatro per capire e non dimenticare>>.

Il suo nuovo lavoro si intitola Chiedi chi era Francesco , è andato in scena a Teatri di Vita proprio l'11 marzo scorso, è appena passato per Roma e sarà presto in tournée. Per la drammaturgia Adriatico ha chiesto ancora una volta la collaborazione di Grazia Verasani, scrittrice e autrice di libri, cinema e canzoni ( Quo Vadis Baby, Maternity Blues, Mare d'inverno…) bolognese doc, che ha ambientato lo spettacolo in una radio, nella serata di commemorazione del quarantennale della morte di Francesco Lorusso: tre telefonate, molto diverse, di tre attori che sono realmente in giro per la città e che compaiono solo in video, in una sorta di cinema di strada, e che compongono un ritratto di quegli anni complessi e quasi dimenticati. Fino all'ultima telefonata.

 

 

Chi è il ragazzo che chiama la radio?

  Uno che di Francesco Lorusso e di tutta quella storia non sa nulla. Prima di lui telefona un uomo che possiamo identificare in Beppe Ramina, allora dirigente di Lotta Continua e fondatore di Radio Città del Capo, poi personaggio chiave del mondo gay nazionale, che era a fianco di Lorusso proprio durante la sparatoria e che sarà al funerale di Francesco. Uno di quelli che arringarono una piazza piena all'inverosimile contro il PCI e i suoi dirigenti, totalmente avversi al Movimento.

L'altro ragazzo, invece, è ignaro di tutto. Come tantissimi giovani con i quali mi sono trovato a parlare nei mesi scorsi. Chiama la radio quasi per caso, perché ha un problema con la fidanzata e si trova catapultato nella Storia, in un ritratto della sua città inimmaginabile, in cui apprende che a via Zamboni ci sono stati i carri armati.

Lo spettacolo è una celebrazione di quegli anni o un tributo nostalgico?

Né l'una né l'altro: il titolo dello spettacolo, che è ispirato a Roberto Roversi, non è un tentativo di nostalgia per il passato, ma la necessità di ricordare un ragazzo che, con tutte le sue contraddizioni, ha provato a credere in un mondo diverso, ed è morto a 25 anni.

La morte di Francesco Lorusso è uno spartiacque?

La sua morte è la radice del nostro presente. I carabinieri che furono accusati della sua morte furono poi prosciolti, ma il suo assassinio ha innescato gli anni di piombo, il rapimento Moro, la fine di una certa sinistra e di ogni ideologia, gli anni del berlusconismo e di quel che è seguito. Francesco viene ucciso di schiena, dallo Stato, come Cucchi, Giuliani e altri. Per me il suo essere ucciso alle spalle, significa una cosa ancor più drammatica: il suo omicidio è il tradimento, la messa a morte di quel diritto al sogno e all'utopia che è stato l'ideale di una intera generazione.

 

 

Vuoi dire che oggi non si sogna più?

Voglio dire che i giovani oggi sembrano condannati a non contemplarlo più, il sogno, a doversene tenere a distanza. Ma se non possono nemmeno più iscriversi alla facoltà che desiderano, perché ci sono i test a crocette e i numeri chiusi… cosa possono sognare se ci prendiamo il diritto di decidere a priori anche il loro futuro?

L'incubo più temibile del presente?

Mi trovo spesso a riflettere sulle parole di Elie Wiesel sull'Olocausto, quando ci mette in guardia sul fatto che le SS erano affermati professionisti e non diavoli circondati di fiamme; o a ripensare alle facce sbigottite degli ebrei che nel Pianista di Polanski salgono sui treni per Auschwitz, totalmente increduli… Nel '77 c'erano scontri continui, ma la gente era coinvolta, consapevole, schierata. Oggi assistiamo piuttosto inebetiti alla violenza diffusa, dalla Cecenia ai migranti che annegano nel Mediterraneo, dagli attentati continui alla morte di Giulio Regeni: l'assenza di polarità e di presa di posizione di molti mi induce oggi a temere che ci si possa illudere sul fatto che certi orrori non possano ripetersi.

A quali progetti stai lavorando?

In tournée, oltre a Chiedi chi era Francesco, ci sarà durante la stagione anche il mio spettacolo da A porte chiuse di Sartre che è dedicato proprio a Regeni e che sarà tra l'altro anche a Roma, dal 17 al 24 novembre.

Sul fronte cinematografico, invece, dopo quattro anni di ricerche, sta per partire la lavorazione di Gli anni amari, il film che insieme a Varasani e Stefano Casi ho scritto sulla storia di Mario Mieli, icona del movimento LGBT, fondatore del F.U.O.R.I. morto suicida nel 1983, di cui Feltrinelli ha appena ripubblicato Elementi di critica omosessuale , la sua tesi di laurea, un libro ancora oggi importantissimo. Gli anni che racconteremo sono ancora quelli…

 

 

Perché proprio i primi anni Ottanta?

Perché nell'83, con la scoperta dell'Hiv cambiano drasticamente anche i comportamenti: le zuccheriere nei bar sono sostituite dalle bustine, arriva il sentimento invasivo del sospetto per l'altro. E non si è fermato più. Poi Mieli e Lorusso sono legati, perché anche Mieli partecipò al funerale di Francesco, strappando il microfono a Dario Fo che parlava a quella folla oceanica: era vestito da pecora e cominciò a belare, urlando ai presenti che di lì a pochi metri c'erano a piazza Maggiore centinaia di poliziotti chiamati a proteggere i partecipanti del congresso eucaristico. La repressione, disse, era appena cominciata. I sogni morirono in quei giorni.

 

Il teatro politico di Andrea Adriatico

di Paolo Ruffini

<<Se lei se ne va in giro, a quest'ora e in questo posto, vuol dire che desidera qualcosa che non ha, e questa cosa, io, gliela posso dare; perché se io sono in questo posto da molto più tempo di lei e per molto più tempo, e persino quest'ora che è l'ora dei rapporti brutali fra gli uomini e gli animali non mi caccia via di qui, è perché io ho quello che ci vuole per soddisfare il desiderio che mi passa davanti: è come un peso di cui mi devo liberare su chiunque, uomo o animale, passi davanti a me>>.

(Bernard-Marie Koltès, Nella solitudine dei campi di cotone ).

 

Avvezzo da tempo a cogliere il senso profondo, quasi intimo degli eventi che apertamente hanno una evidenza ‘pubblica', Andrea Adriatico continua a tessere quel fil rouge in alcuni suoi lavori scenici, quella trama di senso di un racconto sghembo orientando di volta in volta il suo obiettivo su fatti o accadimenti che segnano tragicamente non solo il nostro Paese. È un percorso a latere, tangenziale allo strillo conclamato del concetto di impegno che certo teatro fa di mestiere, un percorso che pone l'accento invece sul discorso del e nel tempo che viviamo e quanto questo riesca a trattenere la sconcertante attualità di quegli eventi di cui si parla, anche sulla distanza, ma non per questo meno pregna di significato, anzi. Pertanto, diremmo, il teatro di Adriatico si fa carico di allocare in una sfera meno eclatante, fuori dagli strombazzamenti degli slogan l'incontro con lo spettatore, quasi parlando direttamente alla persona, toccano corde inconsuete, entra in relazione senza mediazioni artificiose. Così, dopo aver frequentato Thomas Brasch ed Ernest Toller, con incursioni nella scrittura di Tondelli o Pasolini, dopo l'assoluto silenzio dello spettacolo Solo e le ‘derive' in un realismo scontornato nelle storie della ‘Uno bianca'; oppure dopo spettacoli come Ferita.

 

Sguardo su una gente dedicato ad Adolf Hitler o film (perché il nostro parallelamente al teatro pensa anche in termini cinematografici) che si immettono nel sociale storico con lucida compassione , ad esempio + 0 – sesso confuso. Racconti di mondi nell'era Aids o anche Torri, checche e tortellini sulla presa del Cassero a Bologna da parte della comunità gay, eccolo giungere (inevitabilmente) agli anni di piombo e marcare di nuovo un territorio che gli è proprio. Quello della perifrasi storica che ancora solleva domande. Chiedi chi era Francesco già dal titolo sembra accompagnare lo spettatore non avvezzo ai rivolgimenti degli anni Settanta su di un piano confidente, tant'è che la struttura stessa dello spettacolo ha una architettura narrante multi percettiva ma sempre in rapporto ‘uno a uno' con chi guarda. La scenografia rimanda a una stanza di una radio al tempo presente (qualcuno ricorderà Radio Alice), con spazi obliqui e tangenziali che lasciano intravedere la cabina di regia, ma allo stesso tempo è funzionale grazie alle sovraimpressioni delle immagini e dei filmati che in modo ‘sgranato' riportano il mondo di fuori in quella stanza. Al microfono abbiamo una speaker ormai adulta, grazie a lei che ne è stata una dei protagonisti tornano alla memoria i fatti dell '11 marzo 1977, quando Francesco Lorusso, giovane studente e militante di Lotta Continua , veniva ucciso a Bologna da un colpo d'arma da fuoco durante una manifestazione. Sparato da un carabiniere, che fu successivamente prosciolto, quel fatto rimane sospeso nei ricordi di alcune figure che hanno vissuto quei momenti, che hanno conosciuto Francesco e che ora leggono la distanza da quella tragica stagione del Movimento del '77 con la necessità di tornare a parlarne. U n colpo di pistola lascia il fumo in scena, c'è un corpo riverso che così rimane per tutto il tempo.

Adriatico torna a parlarne, dunque, adottando l'espediente della radio, alveo immateriale, si direbbe non teatrale ma invece fortemente evocativo, che consuma il sentimento nel filtro di una condizione mediata dal tempo, appunto, e nel tempo di una trasmissione radio; gli attori sono ripresi live all'esterno (e che noi vediamo nelle proiezioni sulle pareti), sono ‘interrogati e si interrogano' sull'accaduto nel loro atto testimoniale, quasi fugacemente, con riserbo, ancora non del tutto riconciliati con la Storia che li riguarda. Il teatro che Adriatico orchestra è un oratoria rovesciata, a metà fra L'istruttoria di Peter Weiss e una dolente ballata con le sue parole d'ordine, la sua colonna sonora che ci riporta a Claudio Lolli e a un immaginario in bianco e nero. Siamo al giorno dell'anniversario della morte di Lorusso, siamo al giorno che ha segnato la vita di molti, e in questa occasione ecco la radio che dà voce a quanti in quel momento sono stati attivi, a quanti il tempo del riflusso non ha scalfito l'animo. In quel dolente, si diceva, andamento nella vita.

Ci sono il dramma non consumato nelle facce dei protagonisti sintonizzati alla radio che ripensano e ipotizzano, ricostruiscono le vicende con un incedere da indagine di quei giorni, e rammemorano una biografia come tante, quella di Francesco, fatta di impegno, mondo contadino e studi universitari. Tra le figure con le quali si entra in diretta al telefono anche un giovane, uno nato dopo, uno di questo tempo che ha lasciato alle spalle lo splendore e l'orrore di quelle guerriglie urbane e che in ‘confidenza' lamenta la perdita di un amore; è preso da questa storia ascoltata alla radio, si chiede quale utopia abbia potuto portarsi via una vita come quella di Francesco mentre lascia trasparire un'inaspettata affezione. Gli attori sono misurati e straordinariamente pertinenti, veri, reali come del reale ne disegna il tratto soggettivo Massimo Recalcati, guidati da una regia che di quella sfera ‘intima', della loro presenza in controluce ne trae forza visionaria. E i piani, si diceva, si sovrappongono, le informazioni e le immagini s'assommano distillando ricostruzione poetica con il reperto, archeologia degli anni Settanta, scontornando gli scatti fotografici su Francesco Lorusso. Nel frattempo la redazione informa che un incendio sta portandosi via un Cie. Ma questa è un'altra storia, altre resistenze, altri soprusi. Un altro tempo. È davvero così? Chiedi chi era Francesco è uno spettacolo potente e lieve, commovente e lucido, ha la forza dell'archivio, ha un pensiero politico che lo sostiene.

 

 

Chiedi chi era Francesco

uno spettacolo di  Andrea Adriatico

drammaturgia  Grazia Verasani

con Olga Durano, Francesca Mazza, Gianluca Enria, Leonardo Bianconi, e con Francesco Martino e Davis Tagliaferro

scene e costumi Andrea Barberini

cura scenotecnica Giovanni Santecchia, Carlo Strata, Francesco Zanuccoli

cura organizzativa Saverio Peschechera

foto di scena Michele Tomaiuoli

crediti fotografici di Michele Tomaiuoli

Teatro Vascello, Roma, dal 17 al 19 ottobre 2017