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La ricerca di Alexandre Salzmann: l'ombra che rivela la luce

Intervista a Carla Di Donato*

di Letizia Bernazza

L'ultimo volume di Carla Di Donato dedicato a Alexandre Salzmann è frutto di una ricerca seria e rigorosa. Ne consegue che il libro, edito nel febbraio scorso dall'editore Carrocci, merita attenzione da parte di coloro i quali hanno l'interesse a riflettere su studi laboriosi, meritevoli di essere conosciuti e riconosciuti. Abbiamo già avuto il piacere di ospitare qualche tempo fa - nella sezione Liberteatri della nostra rivista Liminateatri.it – l'intervento del Professore Franco Ruffini sulla precedente pubblicazione della Di Donato  L'invisibile reso visibile (Aracne Editrice, Roma, dicembre 2013, pp. 158, euro 18,00), incentrato sempre sulla figura di Salzmann. La mia decisione di tornare sull'argomento è guidata da una duplice necessità: approfondire il percorso creativo di un artista, che nel campo specifico della “luce in teatro”, è stato protagonista delle innovazioni sceniche del Novecento; rendere merito a un saggio ben articolato che nel, delineare la poetica dell'autore georgiano, offre al lettore la mappa complessa del periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento durante il quale esplode la carica rivoluzionaria delle avanguardie storiche. Sono questi due aspetti, a mio avviso, i punti di forza del libro: Carla Di Donato indaga la raffinata e originale ricerca di Salzmann - pioniere indiscusso di una concezione della luce che mira ad “illuminare” l'invisibile celato dietro il visibile, la zona d'ombra come via d'accesso alla conoscenza dell'Essere – e, al tempo stesso, tesse con precisione la fitta rete di rimandi e di connessioni con il contesto di riferimento dell'artista. Ne deriva che il volume è anche un affresco suggestivo e autentico delle relazioni che Salzmann ha saputo intrecciare con altri maestri della scena. Pur non prediligendo la ribalta e preferendo “all'esteriorità del proscenio” “l'interiorità del dietro le quinte”, egli nutre l'ammirazione di Artaud, Shaw, Craig, Rilke, Kandinskij, Buber, Nijinskij, Stanislavskij, Claudel, Pitoeff, Jouvet. E, malgrado, le prime collaborazioni di Salzmann con Adolphe Appia ed Emile Jaques Dalcroze presso l'Istituto di Hellerau, abbiano storiograficamente dato un ruolo di primo piano ai due maestri citati piuttosto che al “nostro innovatore della Luce”, la sua instancabile ricerca lo rende – come dichiara la Di Donato – “il motore segreto” degli avvenimenti della Storia del Teatro del Novecento. È questa la tesi centrale del libro e l'autrice la sostiene, la documenta e la sviluppa in maniera ineccepibile, spingendosi a ricostruire non solo i contesti nei quali Salzmann operò (dalla Georgia alla Russia, dall'Asia Centrale al Nord Europa), ma anche a investigare la relazione complessa di quella “sensibilità visiva”, risultato dell'elaborato processo del “saper vedere” oltre l'esteriorità delle cose, che condusse il nostro artista a entrare in contatto con  Georges Ivanovic Gurdjieff. L'incontro con il maestro armeno e con il suo insegnamento rappresenta per Salzmann l'ideale raggiungimento della messa in opera della sua autentica dimensione dell' “ombra”. Un'ombra che rivela la luce. Un'ombra che si nutre di un training instancabile sulle potenzialità nascoste dell'uomo e che soltanto alla fine è visibile come “prodotto”. Aspetto, quest'ultimo, irrilevante rispetto al processo, al viaggio, al lavoro su di sé, che, al contrario, rappresentano il vero e unico viatico per la conoscenza dello “sviluppo armonico dell'uomo”.

Perché ti sei interessata al lavoro di Alexandre Salzmann?

In buona sintesi, è stato il fascino dell'ignoto unito ad una biografia che già ad un primo colpo d'occhio appariva come la mappa di un secolo, nella storia del teatro, ad interessarmi all'inizio. Successivamente, di sicuro, una profondità, complessità ed unicità che lo distinguevano da altri personaggi considerati “marginali” o secondari.

Salzmann mi ha attirata sin da subito in quanto personalità prismatica, sfuggente eppure cruciale. Sempre al crocevia di incontri, relazioni, eventi, connessioni ed invenzioni del primo trentennio del Novecento; mi appariva sicuramente misterioso a causa di una mancanza oggettiva di informazioni e di ricostruzioni della sua vita ed opera, ma al tempo stesso “illuminato” da una potente aura: quella di Artaud. Devo dichiarare infatti che il primo a sottopormi questo nome – Alexandre Salzmann – fu il Professore Franco Ruffini (di cui sono stata prima allieva, poi dottoranda di ricerca, nonché collaboratrice alla didattica presso il Dams dell'Università di Roma Tre), il quale se ne era occupato durante il suo lavoro per il noto volume I teatri di Artaud (Il Mulino, Bologna) e ne era rimasto profondamente colpito ed incuriosito. Una volta confermata una pressoché totale assenza di bibliografia su Salzmann, partì proprio da lì il mio viaggio, ovvero la graduale riemersione di un vasto continente, attraverso lo scandaglio di un solo personaggio. Durante il mio primo periodo di ricerca a Parigi, nel 2003, il nipote vivente, il Dr. Alexandre de Salzmann (omonimia voluta) mi consegnò Il Teatro Cinese - un volumetto del suo antenato e opera sconosciuta agli esperti di settore - in cui Salzmann conduceva una puntuale, acuta ed interessante analisi dell'attore (e del teatro) cinese, attraverso il quale l'autore centra, mettendolo a nudo, ciò che è oggettivamente “degenere” e “morto” nell'attore (e nel teatro) occidentale. Ad una prima lettura mi risultò subito evidente che nelle parole di Salzmann riecheggiava Artaud ed in particolare un brano del testo Un atletismo affettivo dove il lettore, qualora lo avesse posto in parallelo con il frammento de Il Teatro Cinese , appunto, si sarebbe trovato di fronte ad una sostanziale identità di contenuti, espressi certo con parole diverse. Dunque, l'influenza di Salzmann su Artaud – i due hanno sicuramente avuto contatti diretti e/o indiretti a Parigi negli anni Venti-Trenta anche attraverso René Daumal – è soltanto una delle molteplici connessioni e “fioriture” che la sua opera ebbe nell'arco di tutto il Secolo, possiamo dire, e che mi attirò inevitabilmente verso l'esplorazione, la ricostruzione e l'analisi del suo lavoro.

Come è nato il tuo studio e come si è articolato?

Il mio studio è nato nell'autunno del 2002 dietro una esplicita richiesta da parte di Franco Ruffini - con cui mi ero laureata presso il DAMS di Roma Tre - di condurre una ricerca su questo personaggio, il cui nome veniva sempre citato, ma che era rimasto sostanzialmente sconosciuto. Una prima fase di indagine ha avuto luogo sul territorio italiano, tra le biblioteche universitarie di Milano e di Torino, ma rapidamente si è esaurita rendendo necessario ricostruire “il continente Salzmann” secondo molteplici direttrici: una ricerca a tutto campo sul web per individuare l'esistenza di possibili archivi e/o fonti bibliografiche e di eventuali eredi. Ciò mi ha condotto alla collaborazione diretta con l'erede vivente e dunque all'avvio di una ricerca sul campo che si è svolta in Francia, dove nel frattempo, a Parigi, Alexandre Salzmann et le théâtre du XXeme siècle , era diventato l'argomento della mia tesi di dottorato in Teatro ed Arti dello Spettacolo presso La Sorbonne Nouvelle, progetto che è stato poi selezionato per il Premio Vinci, ricevendo la borsa di studio per tesi in co-tutela dell'Università Franco-Italiana. Ho quindi condotto ricerche approfondite direttamente presso l'archivio privato del Dr. Alexandre de Salzmann, che possedeva una casa-museo, ai miei occhi, fonte di un “tesoro” ineguagliabile, disseminato in più ambienti, stanze, corridoi, saloni, che custodivano l'opera di Alexandre Salzmann. Naturalmente, in Francia ho consultato diversi archivi pubblici e privati, oltre a collezioni presso la BNF, la Bibliothèque Jacques Doucet, ma anche in Svizzera a Neuchâtel, e in altre biblioteche private quale quella dell'Istituto Gurdjieff (cui ho avuto accesso grazie al Dr. De Salzmann), dove ho potuto approfondire la sezione dedicata a Gurdjieff e incontrare Peter Brook.

Ma la seconda e terza fase di indagine si sono andate consolidando producendo nel tempo una serie di articoli - che attestano le varie fasi della ricerca - pubblicati in riviste specializzate in Italia e in Francia, frutto di un'espansione capillare del lavoro, dovuta al progressivo incremento della documentazione e dunque alla scoperta di territori, dinamiche ed interrelazioni che richiedevano la mia attenzione ed un necessario quadro complessivo, o anche un vero e proprio close-up . Questa fase del lavoro è stata condotta di persona o attraverso il web, interrogando e raccogliendo le testimonianze della figlia di Salzmann, Nathalie; esperti e studiosi dell'area gurdjieffiana (da James Moore a Paul Taylor al Presidente della Gurdjieff Foundation di New York); studiosi e ricercatori georgiani, oltre al direttore del Museo Nazionale di Belle Arti e del Museo del Teatro dell'Opera di Tbilisi, l'Ambasciata di Georgia presso la Santa Sede et alia . Inoltre, un segmento importante del lavoro si è svolto presso l'Istituto Grotowski di Wroclaw, in Polonia, dove ho condotto una ricerca a tutto campo presso l'Archivio, giungendo a scoprire una corrispondenza inedita di Peter Brook con Grotowski, relativa ad un progetto di collaborazione, durante la fase di preparazione (1976) del film Incontri con Uomini Straordinari ispirato all'omonimo libro di Gurdjieff, di cui effettivamente nessuno era a conoscenza. Questo ha poi dato spunto ad una sezione importante della successiva conversazione vis-à-vis con Peter Brook. Inoltre, l'incontro e la conversazione a Parigi con Ludwik Flaszen, l'“avvocato del diavolo” e consulente letterario di Grotowski, subito dopo quella con Peter Brook, ha contribuito a dare una definizione ancora più completa alla ricerca.

In conclusione, il lavoro è cresciuto in maniera esponenziale secondo una ricerca “globale” che mirava alla ricostruzione completa della vita e dell'opera di questa personalità unica. Tale obiettivo è stato raggiunto, producendo, da un iniziale “buco nero” su Salzmann, un'imponente mole di documenti inediti, sia testuali che visuali. Infatti, il frutto di questa ricerca è confluito prima nella tesi di dottorato Alexandre Salzmann et le théâtre du XXeme siècle , in tre volumi (pp. 1626), in co-tutela presso l'Università La Sorbonne Nouvelle-Paris III e Roma Tre, sotto la supervisione dei due direttori di tesi Georges Banu e Franco Ruffini, poi nella mia prima monografia L'invisible reso visibile con la prefazione di Alessandro Pontremoli.

Qual è, secondo te, l'innovazione più grande di Salzmann?

Più che altro direi che l'opera di Salzmann è innovativa in sé e costituisce un livello unico dell'“Awareness” o del “corpoedessenza” di cui parla Grotowski nella sua intervista su Gurdjieff nel “Dossier H” a questi dedicato. Concepire e realizzare una luce in quanto soglia dell'invisibile e via d'accesso all'Essere ed “imporla” sulla scena all'intero panorama degli artisti e riformatori inquieti del Novecento - ricordiamo che la lista degli invites illustres dello spettacolo-capolavoro Orfeo ed Euridice (1913) comprende tutti, da Stanislavskij a Diaghilev/Nijinskij, da George Bernard Shaw a Rainer Maria Rilke, da Pitoeff a Jouvet, Uday Shankar, Kafka, Thomas Mann, Martin Buber e così via - e rende concreto l'aver guardato per la prima volta allo strumento primario delle nostre “esperienze visive” in termini non solo teatrali, ma assoluti o universali. Come la musica, che, non a caso, è il principio guida del "pentagramma luminoso" concepito, inventato e realizzato da Salzmann ad Hellerau: una luce in grado cioè di riprodurre con un'intensità assoluta, ovvero di suonare, dal nero totale al bianco più accecante (dal Do maggiore al Do minore), ogni singola tonalità dello spettro cromatico, passando per le più sottili ed infinite variazioni e modulazioni di tono. Per proseguire il parallelo con Grotowski, Salzmann, sulla base di una conoscenza sperimentale (uno scienziato ante-litteram?), ha guardato per primo alla luce come veicolo, ed è stato in grado di realizzarla in una sala teatrale "illuminante", ovvero emanatrice di luce, all'interno di ciò che è stato definito dagli spettatori illustri dell'epoca una vera e propria cage de lumière , in cui lo spazio stesso veniva creato e definito dalla luce e gli spettatori avevano la percezione di trovarsi immersi in un “bagno di luce”, in un unico ambiente, senza soluzione di continuità tra area per gli attori ed area per gli spettatori, come in un "vascello teatrale". Quest'ultima definizione proviene da Paul Claudel, che “battezza” la Sala di Hellerau, di cui Salzmann è responsabile, un “atelier”, associando quindi per la prima volta, questo termine, che avrà una così ampia eco e rilevanza in tutto il secolo, Charles Dullin in testa, ad un'esperienza teatrale. Questo gli fu suggerito proprio dal lavoro sullo spazio scenico compiuto da Salzmann nella Grande Salle di Hellerau, a partire dalle concezioni teoriche di Appia, alle quali, posta un'iniziale omogeneità di visione, donò un apporto creativo ed inventivo assolutamente originale e riconoscibile: si veda appunto la messa in scena di L'Annuncio fatto a Maria di Paul Claudel, la cui regia porta la firma di Alexandre Salzmann. Ma il suo imprinting è presente chiaramente già nell' Orfeo ed Euridice di Gluck dove il raggio di luce - personaggio (Eros) fu solo il climax di una “rivoluzione della visione” in teatro.

E il suo rapporto con la scena del Novecento?

Salzmann, come anticipavo, è un “protagonista paradossale” del primo trentennio del Novecento. Sempre al crocevia di protagonisti, avvenimenti, relazioni, intreccia tensioni, problematiche e personalità-chiave di questo Secolo, lasciando in ogni occasione una traccia indelebile e duratura.

A partire da Kandinskij, con cui condivide la ricerca per l'aspetto spirituale dell'arte (linea, colore, superficie, spazio), oltre che la partecipazione alle conferenze di Rudolf Steiner, le lezioni all'Accademia di Belle Arti di Monaco, le prime esperienze dell'avanguardia tedesca quali la fondazione dell'associazione culturale “Phalanx”, il cabaret Die Elf Scharfrichter (sul modello dello Chat Noir parigino), il Teatro di Marionette ed il teatro d'ombre, Salzmann inanella una serie di collaborazioni, sovente triadi creative, con Dalcroze/Appia, Hébertot/Lugné-Poe, infine Gurdjieff/De Hartmann, per citare solo le principali, che fanno della sua biografia un ritratto. Occorre cioè, di volta in volta, ricostruire e collegare capi, direzioni e traiettorie per cogliere il senso dell'intero percorso, spesso non lineare, univoco ed evidente, ma sempre coerentemente “rivelatore” di un'essenza: come quella al centro della sua conversazione con Artaud – “in una terribile notte di febbraio” a Parigi tra la gare Saint Lazare e Place de l'Alma – in cui, alla lingua perduta del teatro, di cui Artaud è in cerca in quel periodo, risponde che "il segreto di quella lingua è nella poesia, la vera poesia e non la poesia dei poeti, e che alcune danze sacre contengono il segreto di quella poesia". Queste parole saranno destinate ad avere una eco ed un effetto, inopinabile e decisivo per il teatro del Novecento.

Salzmann predilige il processo al prodotto, la zona d'ombra alla zona di luce. Mi puoi spiegare tale passaggio, facendo riferimento al concetto di  bounce , quel “salto” che sta dietro il movimento “visibile” del  balancê?

Salzmann in realtà predilige l'effetto ottenuto, in quanto è da lì che si basa e che parte tutto il suo lavoro. Quando scrive, per il programma delle prime Festspielhaus nel 1912 ad Hellerau, il suo bell'articolo Luce, Luminosità, Illuminazione , lungi dall'addentrarsi in contorte elaborazioni teoriche, spiega cosa significa materialmente avere esperienze visive, e come avviene la percezione dell'occhio umano della luce, dei colori e delle sfumature di toni, cromi, ed intensità luminose, con esempi semplici e chiari, comprensibili a tutti, e non solo a tecnici o addetti ai lavori.

Il suo testo Il Teatro Cinese è anch'esso basato sull'osservazione oggettiva delle condizioni materiali, delle tecniche e dei processi dell'attore orientale, che Salzmann restituisce con una chiarezza e concretezza espressiva totali. Ed è esattamente sul prodotto, lo spettacolo, che l'analisi di Salzmann si fa più penetrante e pungente.

Per spiegare in un solo movimento, o atto, il senso dell'opera di Salzmann e il suo ruolo nella scena del Novecento, nel libro ho scelto di avvalermi di una figura che proviene dalla danza: il bounce , appunto. Movimento di rimbalzo, tra i due estremi, capi, costituisce il motore segreto del movimento ed insieme ciò che lo rende riconoscibile, lo rivela.

Per questo, il bounce può essere una chiave di lettura molto utile per interpretare Salzmann, personaggio che sovente ha deliberatamente scelto nel suo percorso professionale e personale di agire da motore segreto e da “sponda” (ovvero di rimanere nell'ombra) rispetto a una figura in primo piano (in piena luce) e di prima grandezza (Appia, Gurdjieff, e così via), in rapporto alla quale di volta in volta per un lettore/osservatore solo nella relazione costante, ovvero nel “rimbalzo” e nel salto tra i due capi, è possibile cogliere i contorni e il significato dell'opera stessa.

Quale ruolo ha avuto per l'attività di Salzmann il rapporto con Gurdjieff?

La Scienza della Luce di Salzmann è confluita ad un certo punto nella Scienza del Movimento di Gurdjieff. In tal modo, nel rapporto con Gurdjieff, Salzmann ha trovato il proprio “luogo della vita”. Come, quando e perché questo è avvenuto, è spiegato e documentato ampiamente nel libro.

 

Il tuo libro si conclude con una testimonianza di Peter Brook. Puoi raccontarci il senso delle parole di un maestro, legato anche lui profondamente all'insegnamento di Gurdjieff?

Questa scelta è stata determinata dalla volontà di chiarire come e quanto il valore dell'opera di Salzmann sia pervenuto fino a noi e sia valido ancora oggi. Ho incontrato Peter Brook a Parigi nel giugno del 2006. Peter Brook mi ha generosamente donato un prezioso contributo per la mia ricerca. Ricostruendo, in quell'occasione, il percorso di Salzmann come “genio della luce e cercatore di verità”, oltre a tracciare un quadro completo sulle origini, collegamenti ed influenze profonde del valore della sua opera per la scena del XX secolo, Brook ha ricostruito in poche, ma essenziali frasi, il senso della tradizione contemporanea di due maestri del "lavoro su di sé": il primo, Grotowski, dell'attore in quanto uomo, il secondo, Gurdjieff, dell'uomo in quanto attore, prendendo spunto dall'episodio finora totalmente inedito e qui finalmente svelato dell'audizione (andata male) a Cieslak svoltasi a Parigi nella primavera del 1976 per il ruolo di Gurdjieff adulto nel film Incontri con Uomini Straordinari . Nel tracciare un quadro di due universi e mondi, in cui “ organicità” e “ verticalità sono le parole chiave, Brook mi ha fatto dono di una testimonianza di particolare rilievo per la teoresi della scena del Novecento. Non è perciò nient'affatto casuale che egli stesso sia così profondamente legato all'insegnamento di Gurdjieff, come anche a quello di Jeanne de Salzmann, la moglie di Alexandre, attraverso la quale Brook ha conosciuto il lavoro del marito, che è stato artefice non per caso di una luce intesa come veicolo per un livello più sottile, più elevato dell'Essere. Com'è noto, Peter Brook è uno dei pochi grandi innovatori della scena del XX secolo tuttora vivente. Nel settembre 2014 ha donato il suo archivio privato al Victoria and Albert Museum di Londra (dove sarà reso disponibile al pubblico da novembre 2015 e presso cui, all'interno del progetto speciale lui dedicato, ho l'onore ed il piacere di collaborare con un team internazionale), riconoscendo così il valore incalcolabile della trasmissione e del perpetuarsi della memoria scritta ed orale, della memoria vivente, laddove è noto a tutti che: “le théâtre, c'est l'éphémère”. Nel suo intervento, in occasione della giornata di studi a lui dedicata nel maggio 2015 presso il Victoria and Albert Museum, Brook ha tessuto un discorso limpido e vivido, ribadendo alla nutritissima platea come la vera ricerca duri una vita intera e come chiunque si ponga in cerca dei princìpi in qualsiasi campo, condivida lo stesso territorio con tutti coloro che, benché apparentemente diversi, sono mossi dallo stesso impulso, imperativo, assoluto, che è alla base di tutto: “Search”/"Quête".

*Carla Di Donato , storica del teatro, è dottore di ricerca presso le Università di Roma Tre e Paris III/Sorbonne Nouvelle. Ha Pubblicato la monografia L'invisibile reso visibile (Aracne Editrice, Roma, dicembre 2013) e saggi su riviste italiane e straniere, quali “Teatro e Storia”, “Revue d'Histoire du Théâtre”, “Bulletin de la Societé Paul Claudel”.