Se era una sfida è stata superata. E di tutte le tragedie shakespeariane, il Tito Andronico, probabilmente composta a più mani e cronologicamente collocata per prima, è quella che più si offre alle sfide. Sanguinaria ai limiti dell’inverosimile, procede per accumulazione di sangue, violenza, tradimenti, sacrifici inutili e vendette efferate, persino di cannibalismo. Come se non avendo tra le mani una storia reale, fatta di riferimenti certi e personaggi esistiti, si volesse dare la stura alle peggiori pulsioni dell’animo umano e a quello che generano, ma in modo straripante, disordinato, ininterrotto.
Guardate cosa siete in grado di fare e capite chi siete.
Per questo, credo, sul programma di sala si legge di un “ambiente perturbante”, qualcosa che nel momento stesso in cui ci provoca orrore, ci ricorda che, sotto sotto, nel fondo più nero della nostra coscienza, un po’ ci appartiene. Può essere che nei nostri sogni notturni, in un dormiveglia libero da giudizi, censure, responsabilità e sensi di colpa, ci siamo visti tagliare la lingua a qualcuno, mozzargli le mani, arrostirlo sul rogo e darlo in pasto a un congiunto avvertito soltanto a digestione avvenuta.
Ma, visioni a parte, è vero che noi, appartenenti a questa razza dannata, siamo dei mostri.

Non è il caso di dettagliare sui quotidiani aggiornamenti dal mondo. È invece il caso di dire che i quotidiani aggiornamenti dal mondo potrebbero essere un bel deterrente. Confrontarsi con la realtà più brutale fino a farne teatro richiede una bella dose di azzardo e coraggio. Innanzitutto per scongiurare l’accusa sempre lì dietro l’angolo di strumentalizzare un presente troppo presente nella nostra cronaca giornaliera, gravido di terrore e foriero di angoscia e ira compressa.
Il coraggio lo ha avuto Davide Sacco, trentacinquenne regista di questo Tito Andronico rititolato Titus. Why don’t you stop the show? che ha debuttato al Teatro Quirino Vittorio Gassman il 30 settembre scorso, con una buona compagnia mediamente giovane e ben calibrata, che ha visto nel ruolo di Titus, Francesco Montanari, giusto nel rendere la contraddizione di condizione e carattere di questo condottiero possente e fragile, indolente e feroce, straziato e capace della più disumana vendetta, pregustata su una grottesca “tavola della pace”.

Il rischio incombente della regia era duplice: precipitare nel grandguignolesco, rivisitato in chiave splatter, oppure ricorrere ad artifici retorici e a un simbolismo strategico che avrebbe inevitabilmente indotto le domande: perché Tito Andronico se poi non sai fare Tito Andronico? Perché lanci la pietra e tiri indietro la mano? Perché ti esponi se poi non affondi?
Sarebbe stato un peccato, un’occasione sprecata, un atto di coraggio buttato alle ortiche, scambiato per hybris giovanile o scaltra operazione pseudocommerciale.
Invece lo spettacolo si è retto molto bene in equilibrio tra l’epica tragica restituita con buona temperatura emotiva e un distanziamento che, calata la maschera, interpella.
Quanto siamo assuefatti all’orrore. Perché “si permette quello che non si vuole”, che non si stima, che si disprezza. Chi ha il coraggio di sventolare bandiere di pace quando non si è fatta nessuna giustizia (vedasi il lamento tacitiano “avete fatto il deserto e lo chiamate pace”).
Bene, questa è la domanda da cui si comincia e un po’ fa impressione.
Fa parte della tragedia e arriva da Titus, il reduce di guerra benvoluto dal popolo che ha lasciato sul campo nemici e amici e ora, vittorioso e infelice, “cerca un motivo per non piangere”.
Fa il suo ingresso in scena dalla platea, tra le braccia ha un sudario che ormai è parte dell’iconografia quotidiana, portato come un’offerta, un pegno di pace alla quale non crede, dietro di sé il bottino di guerra, schiave e schiavi pronti a tradire, a tramare e salire sul carro del vincitore anche laddove la vittoria è estorta e consegnata al più stolto dei pretendenti, il più capriccioso, umorale, ridicolo.

Il Saturnino a cui dà vita un divertente e divertito Guglielmo Poggi, sorvegliato e adeguatamente sintonizzato sull’idiozia dei governanti incapaci. Succube della consorte, più matrigna che moglie devota, l’ex regina dei Goti in forsennata carriera è interpretata da Marianella Bargilli, brava nell’evocare non so quanto intenzionalmente certe parlamentari che regalano finte borse griffate.
Significativa la scelta di fare di Aronne, il moro da lei amato, un personaggio femminile affidato a Claudia Grassi, la schiava fedele e innamorata, di cui tutti sanno tranne il cornuto, unica complice disposta a tutto come “soltanto le donne sanno essere”.

Sono licenze che non disturbano e trovano un contrappunto nell’adattamento a firma dello stesso regista che non teme espressioni come “striscia di terra”, “centomila bambini morti” o “nessuno può arrogarsi il diritto di dire io sono la vittima”.
Potrebbe forse Lavinia, la figlia di Titus alla quale hanno tagliato la lingua e mozzato le mani, una Beatrice Coppolino giustamente allegorica nel rappresentare con suoni gutturali l’afasia della vittima. Potrebbe. Ma chi ha ragione di gridare la propria ingiustizia, non ha la parola. Anche questa, una bella metafora.
Le scene di Fabiana Di Marco sfondano la quarta parete e arrivano fino in platea, come a invaderci e travolgerci nella stessa spirale di violenza che si rappresenta, fino a inghiottirci. Siamo avvertiti.
Titus. Why don’t you stop the show?
da William Shakespeare
adattamento e regia Davide Sacco
con Francesco Montanari, Marianella Bargilli, Guglielmo Poggi, Claudia Grassi, Beatrice Coppolino, Ivan Olivieri, Jacopo Riccardi, Giuliano Bruzzese, Filippo Rusconi, Enrico Spelta, Matilde Pettazzoni
scene Fabiana Di Marco
costumi Alessandra Benaduce
luci Luigi Della Monica
musiche originali Davide Cavuti
produzione Compagnia Molière, Teatro Quirino.
Teatro Quirino, Roma, dal 30 settembre al 12 ottobre 2025.