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Seminari di Drammaturgia (11)

Versi e versacci. La scrittura in versi e l'uso del linguaggio scurrile nella costruzione di un copione”.

di Alfio Petrini 

Giuseppe Manfridi ha tenuto una letio magistralis alla Casa dei Teatri in occasione dell'ottavo seminario di drammaturgia del Cendic. Titolo: “ Versi e versacci. La scrittura in versi e l'uso del linguaggio scurrile nella costruzione di un copione ”. La questione - posta da uno dei più importanti drammaturghi italiani di respiro europeo -, rivela una predilezione individuale, ma allo stesso tempo richiama l'attenzione su una pratica d'interesse generale riguardante la ricerca sul linguaggio. La cosa è importante , ma altrettanto importante il come della scrittura drammaturgica derivante dal processo di comunicazione.

A esemplificazione del suo ragionamento Manfridi introduce due materiali linguistici: la scena delle “orazioni che configgono” del “ Giulio Cesare” di Shakespeare, pronunciate da Bruto e Antonio sul cadavere del dittatore, e alcuni brani delle opere Alla greca ” e “ Decadenze ” di Steven Berkoff.

Manfridi sostiene con sottile capacità analitica che Bruto è un “intellettuale nascosto a se stesso”, impegnato a dare “spiegazioni del colpo di stato” di cui è stato uno dei protagonisti. Costretto a confrontarsi per la prima volta con il popolo, è convinto della necessità che si debba parlare come parla la gente comune. Questo convincimento appartiene a molti drammaturghi contemporanei, i quali ritengono che si debba “scrivere come si parla” e - di rimbalzo - che si debba “recitare come se magna”. E' un errore. Ed è l'errore che commette Bruto, anche se il popolo gli assegna un punto di vantaggio alla fine della sua orazione. Antonio attacca da un altro versante. Non “recita come se magna”. Recita in versi. Fonda la sua parola su una metrica inequivocabile che gli consente di battere la concorrenza e di recuperare lo svantaggio. Del resto la comunicazione primaria delle poesie, delle favole o delle filastrocche è sempre suffragata e irrobustita dalla presenza dei versi. Meglio, da una metrica che si ha anche in assenza dei versi. E' la metrica che conta.

A proposito di versi e di poesia, Manfridi - dopo Alfieri (“che ha spezzato l'endecasillabo”) e Metastasio (che “pensando di aver scoperto la tragedia, scoprì il melodramma”), cita Testori e Pasolini che “ripartirono da Alfieri” - , alimentando un tema ricorrente nei seminari che si sono finora svolti alla Casa dei Teatri: la poesia in teatro (data della scrittura in versi) e la poesia del teatro (data da quello che accade in scena, generata dal comportamento poetico che lo scrittore assume nell'atto di raccontare la sua storia attraverso l'uso di una metrica calzante e incalzante). Ma torniamo alla scelta che Shakespeare fa a beneficio di Antonio. Antonio parla in versi, usa endacasillabi, e appoggia una parte della sua orazione su un ritornello ( ‘ Ma Bruto è uomo d'onore' ). La prima volta che lo usa, “ci sfugge perché non lo conosciamo; la seconda volta lo riconosciamo; la terza volta lo cantiamo assieme lui”. Il che gli consente di fare un a parte illuminante: ‘ Incendio, se sei stato avviato, ora divampa'.

Dunque, una delle questioni centrali della scrittura drammaturgica è quella della metrica, in presenza o in assenza di versi. E' la “metrica del corpo”. E' “la metrica del respiro”. Essere poeti vuol dire possedere la capacità di fare una scrittura drammaturgica “che ci sta attorno”: e - di rimbalzo (sul versante dell'attore), - di avvolgere l'interlocutore con la parola parlata sostenuta da una metrica che abbia lo spessore della materialità e della immaterialità poste a fondamento dell' atto totale. La metrica è largamente usata nella contemporaneità. Anche le masse usano la metrica con il loro sloganeggiare negli stadi o per le strade delle grandi città.

Alla metrica che “sostiene qualunque tipo di proposizione linguistica” Manfridi accompagna il turpiloquio. Metrica e turpiloquio (questo inteso nel senso di sconcio, eresia, indecenza, cattivo gusto, parolaccia paradossale ed eccessiva, volgarità, smembramento fisico e metafisico, cannibalismo metaforico, eccetera eccetera) sono i pilastri su cui si regge o si può reggere un determinato modo di fare teatro, uno dei tanti, presumibilmente quello che attiene alla predilezione del nostro relatore, il quale ci ricorda che accanto ai grandi autori della drammaturgia di tutti i tempi - che rappresentano “la situazione” -, ci sono gli epigoni.

Steven Berkoff è un epigone di Shakespeare. Shakespeare è la situazione e Berkoff è il suo epigone, che si caratterizza per un “incalzare metrico” generatore di straordinari ritmi ed energie, utilizzati in funzione espressiva. La poesia non sta nel verso, ma nell'incalzare metrico (segnalato a volte dalla leggerezza delle barre trasversali) che rivela il divenire del comportamento poetico dello scrittore. “La parola è portatrice totale” del fatto che accade in scena. L'esempio che ci propone Berkoff è la uccisione di un personaggio da parte di un altro personaggio attraverso l'uso della parola.

E' possibile che la parola possa comunicare ciò che non può essere detto? Di certo, dice Manfridi, “la parola può dire tutto oltre il non-visto”. E aggiunge che “la scorrettezza della parola può essere utile a sviluppare le idee”, e a determinare il movimento del pensiero. La metrica e il turpiloquio sono, dunque, gli elementi linguistici che garantiscono qualcosa di “chiassoso, di rumoroso, di scorretto, di sconveniente che serve a colmare il vuoto”. Il che vuol dire in altre parole che il drammaturgo contemporaneo ha bisogno di possedere una forte “cognizione metrica del testo”.

In occasione di questo seminario Manfridi ha messo insieme due materiali linguistici - uno teorico e l'altro creativo (stralci di testi teatrali) -, componendo un testo di lotta che ha utilizzato in modo sapiente (da attore esperto) per elaborare un testo fisico con il quale ha conquistato il cuore e la mente degli uditori accorti.