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Il Trittico dello Spaesamento

intervista a Roberta Nicolai *

di Letizia Bernazza

Ad aprile scorso, hai ripresentato al teatro Centrale Preneste di Roma Profanazioni, primo quadro del Trittico dello Spaesamento. Nudità è stato, invece, messo in scena in anteprima lo scorso 9 ottobre a Napoli all’interno del Festival Movimentale e poi replicato dal 12 al 14 ottobre sempre presso il teatro Centrale Preneste. L’uomo senza contenuto sarà la tappa finale. Le tre opere, sin dal titolo, traggono ispirazione dai testi di Giorgio Agamben. Nella tua visione di drammaturga e di regista, quale è l’idea centrale del progetto?
Già lavorando al Calderón nel 2007 e ad Anima nel 2009, vivevo una percezione interiore, a volte difficile da mettere a fuoco. Mi sembrava di comprendere, più emotivamente che teoricamente, cosa Pasolini aveva cercato nel teatro scrivendo il Calderón e, prima di lui, cosa aveva indagato Brecht. Sentivo che le loro ricerche parlavano alla mia e attivavano la coscienza artistica nell’analisi del suo fare. Mi trasmettevano una sorta di imperativo etico: declinare il proprio essere persona e farsi luogo, spazio e tempo di incontro, di fonti, segni, pensieri. Sentivo la responsabilità di riflettere sul teatro, di chiedermi cosa dovesse o fosse oggi o in che direzioni potesse trasformarsi. Senza dar voce a quella percezione, fare spettacoli per me non aveva più alcun senso. L’indagine, lo studio della materia teatro, dentro e fuori i confini tradizionali di un’arte antica, via via è diventata, per me, un quotidiano teatrale.
L’incontro con il pensiero di Agamben ha determinato una svolta.
Penso che il Trittico sia un modo per coltivare una riflessione sul teatro e sul pensiero artistico contemporaneo attraverso la pratica della scena. E, attraverso gli strumenti del pensiero, indagare e cercare le categorie, gli elementi propri del teatro, liberandolo dalla narratologia, dalla supremazia del testo scritto, dalle estetiche fictional, da dominazioni da parte di altre discipline e al tempo stesso considerarlo il luogo, il crocevia, in cui diversi segni realizzano una sintesi del tutto originale. Non posso fare a meno di pensare che in fondo Shakespeare, letto con occhi analitici, è uno scienziato del suo tempo e che la multimedialità è la sfida del Calderón di Pasolini. Guardo al teatro così. Non a un gioco di una società per il tempo libero, non a un gioco di nicchia o di famiglia, né a un mezzo di comunicazione, ma come il terreno di studio e di pratica che consente di esercitare la sfera razionale che discrimina e sceglie e quella fantastico-associativa che elabora e sintetizza la realtà in significati e senso attraverso una pratica che produce piacere. Il suo fare è frutto di menti individuali che passano, nel processo, al setaccio di forme di collettivizzazione. Forse è questo l’elemento che mi fa dire che il teatro è qualcosa di cui c’è un bisogno vero oggi nella nostra società, un’arte che ci consente di comporre i tasselli della coscienza personale e da lì contribuire a quella collettiva. Non una zona residuale ma esclusiva, un’azione pubblica, che realizza un lungo processo privato.
Il Trittico in fondo è un’azione: interrogare il mezzo, il teatro, e porre sotto analisi, razionale e sensibile, il suo destinatario, l’uomo di oggi.

Dichiari che ogni quadro <<è elaborato a partire da un procedimento teorico, una trasparenza, del testo filosofico con un nodo narrativo…>>. Quali sono i “nodi narrativi” centrali dei tre quadri?
Agamben è uno dei più acuti filosofi contemporanei. Il suo pensiero è lucido e poetico allo stesso tempo.
Nel suo testo Profanazioni ogni uomo è in dialogo con un dio intimissimo e personale che è in lui la personalizzazione di ciò che lo supera e lo eccede, cioè l’impersonale. Il dialogo di ogni uomo con sé rivela, sostiene Agamben, che ognuno è più e meno di se stesso. Il che comporta che l’uomo non è soltanto Io e coscienza individuale ma che, dalla nascita alla morte, convive con un elemento impersonale, pre-individuale. L’uomo, il vivente che Agamben descrive e auspica, è un essere a due fasi, è una tensione tra una parte non ancora individuata e vissuta e una parte già segnata dalla sorte e dall’esperienza individuale. In questa visione ogni uomo è, in qualche modo, il progetto di se stesso, progetto a cui collaborano gli elementi esterni. Felicità e gioco diventano terreno di resistenza politica. È a partire da questi nuclei del pensiero che Profanazioni, primo quadro del Trittico, indaga l’archivio fisico ed emotivo dell’identità individuale.
L’individualità è unicità. Per il primo quadro ho percepito istintivamente che dovevo guardare all’origine, molto lontano, ad una sacralità arcaica, al mito. Cercare un’immagine forte e chiara, apparentemente semplice, univoca, che potesse essere poi declinata in tutti i segni e significati disseminati dal tempo che da esse ci separa. La scelta del mito, il Minotauro, è arrivata improvvisamente e non l’ho più messa in discussione. Il Minotauro è unico, diverso, ha un solo corpo e due nature, vive in una casa unica, fatta di pareti e corridoi, linee. Il mondo di fuori può solo entrare e non uscire. Tutto questo, nella sua originarietà, racconta una condizione quotidiana, la nostra percezione della realtà, così distante da divenire virtuale.
Mi ritorna in mente Giannantoni, il professore di filosofia con il quale ho discusso la tesi di laurea, che per spiegare la filosofia greca, portava immagini ed esempi per far comprendere quanto particolare e legata al punto di osservazione fosse la visione della realtà da parte dei primi filosofi. C’è un legame tra quella spinta conoscitiva che parte dal guardare il reale da uno scoglio - con il mare, apparentemente infinito, davanti a sé - e la nostra percezione dell’infinito mondo, raggiungibile e irraggiungibile, così vicino e così lontano. Un senso di spaesamento…
In Nudità la condizione umana viene interrogata da Agamben a partire dalla tradizione giudaico-cristiana. Le due sunan di Dio, la creazione e la salvezza, diventano i due compiti della vita di ogni singolo uomo: fare (poiesis = creazione) e salvare la propria creazione. Cogliere nella vita individuale le due azioni di Dio, fare e salvare, rende l’uomo al tempo stesso creatura e creatore. Il punto di connessione delle due azioni si realizza proprio nella creatura, nella sua natura di essere insalvabile e il rapporto temporale tra le due azioni si apre ad una circolarità. La creatura è tutta nella categoria della possibilità nella tripla accezione di poter fare, non poter fare e poter non fare. Nudità indaga il mondo del possibile, il mondo creaturale, in cui l’uomo agisce come creatore e creatura, in cui la nudità è un evento che non si realizza mai pienamente e il peccato originale è un fatto che continua ad accadere nella vita di ogni uomo. Questo universo intellettuale ha richiesto che Nudità, secondo quadro del Trittico, indagasse l’identità personale all’interno delle relazioni profonde e, inevitabilmente, mi ha ricondotto a Kafka.
E siccome la nudità è, nel testo di Agamben, nuda corporeità, quella di un organismo che ha superato la soglia estetica, la creatura colta nel suo carattere di cosa effimera, finita, contingente, dopo l’esclusione dall’Eden, all’interno del corpus kafkiano ho scelto La Metamorfosi. Ne La Metamorfosi la fine è contenuta nell’inizio. Le cinquanta pagine che seguono il più famoso incipit della letteratura del Novecento, non sono che il ritardo, lo spreco che ci separa dall’inevitabile conclusione. Il tempo è materia del racconto ed è un tempo circolare, fine e inizio si avvolgono l’una sull’altro. Tale circolarità si riflette nel dispositivo della famiglia, del ricordo comune, dell’identità individuale che si costruisce all’interno delle dinamiche relazionali e affettive. Il luogo in cui tutto questo sembra accadere non è la testa ma il cuore, un organo enigmatico in cui il tempo non ha nessuna linearità né possibilità di essere spazializzato.
Approfondendo alcuni elementi già presenti in Profanazioni, il secondo quadro si è andato strutturando a partire da una serie di dualità: stare e fare, possibilità e azione, geometria e caos. È, di fatto, il quadro intermedio ed è come se se le linee essenziali del primo e i toni del terzo, dovessero trovare al centro una zona di deflagrazione, di fusione chimica… Proprio perché quadro intermedio (come intermedio è Gregor Samsa, sospeso tra uomo e insetto) lavora sull’incompiuto, sull’attraversamento, sulla creatura e sulla sua natura insalvabile. Qui la narrazione è emotiva, il tempo/ritmo del racconto, ma anche il singolo agire dell’attore, è materia organica. La geometrizzazione è il tentativo continuamente messo in campo dalla ragione per dominare il caos dell’esistenza. La percezione del tempo nelle relazioni familiari, la relazione affettiva primaria, si configura come un’immagine arabescata con tratti di simmetria e di asimmetricità, in cui l’asimmetria è il risultato residuale di assi portanti: figlio-madre, figlia-padre. È un 2 che prevede un 4. Il quadrato è una figura ricorrente nello spettacolo, in forma di scatole quadrate e di movimenti scenici che tracciano lati, diagonali o individuano sezioni. Il caos è sempre in agguato e attacca la geometrizzazione. Che l’indagine sul tempo scenico fosse la chiave per approcciare tali relazioni è stato chiaro da subito e ha determinato la scelta del cast in cui i genitori sono due giovani attori poco più che adolescenti e i figli due attori sulla soglia dei quaranta anni.
Il percorso di lavoro è stato molto lungo. Ho tenuto tre laboratori: a Roma, Ladispoli e Caserta. Ognuno con una classe composta da 12-18 attori di età compresa tra i 18 e i 45 anni. Attraverso i laboratori ho individuato il cast che, oltre a Michele Baronio, vede in scena tre attori alla prima esperienza con me: Arianna Veronesi, Rosa Palasciano e Valerio Peroni.
Ne L’uomo senza contenuto il panorama di riferimento diventa storico-critico, culturale e inevitabilmente più chiaramente politico. L’approdo a Sartre è stato immediato. La trattazione di Agamben investiga lo stato di salute e di decadenza della nostra cultura. Le origini della decadenza attuale Agamben le individua nell’epoca dei lumi facendo della nostra contemporaneità l’esito storico di un lungo processo di decadenza. Quest’analisi riverbera nell’esistenza individuale. Ed è qui che intuisco la commistione con Infanzia di un capo di Sartre. Ogni singolo individuo appare dentro una personale camera delle meraviglie. Quale lo scambio possibile tra l’Io e la coscienza culturale? Oggi, all’inizio di questo percorso mi sembra che l’indagine possa e debba muoversi sui rapporti tra Storia (con la S maiuscola) e storia (individuale). Il tempo è l’elemento costante dell’indagine del Trittico. È il tempo sul piano della performance ed è il tempo sul piano della storia a dialogare all’interno di un contesto che in realtà, dai fatti storici del Novecento, ci fanno vivere sotto shock.
Il terzo quadro è tra L’uomo senza contenuto di Agamben e Infanzia di un capo di Sartre.
Debutterà a giugno 2013 al Napoli Teatro Festival-sezione Fringe ed il lavoro sulla drammaturgia è all’inizio. Ho trovato, nel racconto di Sartre, un materiale denso che mi permette di mettere in dialogo la soggettività con la storia personale, dall’infanzia all’accettazione che la propria identità venga definita dalla cultura.
Per lo studio presentato a Napoli ho lavorato sulle cerniere che, in un tradizionale trittico pittorico, agganciano materialmente un pannello all’altro e ho immaginato che Lucien, unico personaggio del Trittico a possedere un nome, inizi la sua avventura dalla perdita dell’altra parte di sé, la gemella di Profanazioni. La lacerazione gli impedisce il sapere di sé, non sa più neanche se è maschio o femmina, né sa che il vestito celeste che indossa se l’è messo per gioco, per simulare quel femminile che si era rivelato virtuale e inafferrabile. La domanda <<Chi sono io?>> è rimasta viva. Ora più che mai, l’incapacità della risposta avvolge il soggetto in un’inquietante alternanza di sonnolenza e violenta appropriazione del mondo.

Come hai risolto il concetto di “trasparenza”, vale a dire la sovrapposizione di un testo con un altro, nella scrittura scenica?
Trasparenza può sembrare un concetto freddo, un procedimento razionale. Ma la filosofia non è mai stata per me solo ragionamento. Sperimento una soglia, quando tutto il materiale è ingurgitato e spesso durante l’assimilazione, in cui il pensiero entra in un contatto profondo con l’emozione. A livello drammaturgico procedo per gradi, stadi, elaborando schemi successivi in cui mano a mano che entro più in profondità nel pensiero, è lo stesso pensiero a diventare immagini e testo. È simile ad una traduzione tra due lingue, ma molto più divertente.
L’associazione principale (Minotauro, La Metamorfosi, Infanzia di un capo) è frutto di intuizione a cui seguono mesi di verifiche teoriche e pratiche. La parte teorica si compone di approfondimenti: ad esempio dei contesti storici, delle biografie degli autori, di link reali o anche azzardati. È studio insomma, per come lo intendo. Fonti-ombra, visive, filmiche, altre filosofie, poesia entrano nel lavoro a volte casualmente, arrivano da sole. Altre volte le cerco. Costruisco la mia camera delle meraviglie. È qualcosa di molto personale, individuale, in cui cerco di far entrare più mondo possibile.
Nella pratica, lavoro a tavole sinottiche sulle quali annoto, via via, le associazioni tra i nodi teorici, quelli narrativi, il testo vero e proprio (quello che sarà verbalizzato dagli attori, lo chiamo appunto materiale verbale) le azioni, gli spostamenti degli oggetti o i movimenti scenografici, i suoni, la musica, il video - quando lo prevedo o serve - e le azioni. Solo i costumi li discuto da zero o quasi con Andrea Grassi. Ma spesso i colori di cui devono essere le stoffe li so già.
Queste tavole compongono nel loro insieme una sorta di storyboard. Per Profanazioni lo storyborad era esattamente ciò che poi è lo spettacolo, scena per scena. Era stato completamente elaborato a tavolino ed era un insieme di tavole di disegni, in cui avevo preventivamente annotato la struttura, l’articolazione e i tempi dello spettacolo. Mi aveva fatto da tracciato la scelta musicale, anche questa ultimata prima dell’inizio delle prove e me la lasciavo scorrere sotto la rilettura dello storyboard, immaginando, sequenza dopo sequenza, cosa sarebbe potuto diventare in seguito all’incarnazione degli attori.
Per Nudità il procedimento è stato diverso e lo storyboard si è distaccato di più dalla messa in scena, ma dipende chiaramente dalla diversa materia di cui sono fatti i due quadri, la materia di Nudità è espressamente emotiva e l’emozione impone variabili e zone opache.
I primi mesi di prova non solo hanno modificato lo storyboard ma hanno fatto emergere l’esigenza di codificare in maniera via via più precisa (partendo da elaborazioni semiotiche) lo svolgersi dell’azione, i segni della scena e come questi entrano ed escono dalla composizione. Il lavoro in sala, unito allo studio delle trattazioni di Anne Ubersfeld, hanno trasformato la struttura delle tavole. E su queste nuove tavole, con nuove suddivisioni più dettagliate dei segni scenici, ho rianalizzato Nudità, rivedendo sequenza dopo sequenza, la ripresa video girata a giugno. Ora il lavoro sulle tavole è arrivato a saturazione, nel senso che dal foglio “scalpita” per tornare sulla scena, sporcarsi e forse modificarsi di nuovo. È arrivata a consapevolezza una polarità di cui rendere conto, una conciliazione forse impossibile: conciliare la struttura dell’opera, in un approccio se vogliamo semiologico e strutturalista, con l’organicità, il flusso organico dell’azione e della parola dell’attore in scena.
Il lavoro sulle tavole porta con sé costantemente una riflessione strutturale e nell’ultimo anno a partire da queste sta emergendo un tentativo di elaborazione di un sistema di notazione del teatro.

Trasparenza e corpo degli attori. Durante le prove e nella messa in scena finale quali sono state le scelte che hai fatto per tenere insieme i nuclei teorici fondanti dei testi di Agamben e la loro “traduzione” in azioni, gesti, espressioni degli interpreti, affinché lo stesso concetto di trasparenza si traducesse nello spazio del teatro, come un luogo di incroci, attraversamenti e segni tangibili dell’essere umano calato nel suo tempo?
Arriva il momento in cui gli attori sono necessari per continuare a lavorare. Lo dico perché non è scontato. Non è scontato che questo lavoro diventi uno spettacolo. A volte ho pensato che sarebbe sorprendente se si esaurisse diversamente senza diventare necessariamente uno spettacolo. Ma comunque arriva il momento in cui lavorare diventa impossibile senza gli attori. Quando inizio a lavorare con gli attori, ho sempre un materiale scenico iperdettagliato, non un copione. Percepisco la distanza abissale che separa i loro corpi e le loro menti dal flusso di possibile che sta nella mia mente e nel mio corpo. Io ho lavorato diversi anni come attrice e la percezione di cui parlo è fisica, reale. In quel primo momento so che devo lavorare perché si incontrino o meglio perché tutto diventi loro, degli attori, personale ed organico. È un lavoro che richiede molta generosità e umiltà, che lavora sulla consegna, che mette altri nella condizione di essere i primi artefici della magia. So di avere di fronte un lavoro lunghissimo. Per il quale dovrò servirmi di ogni mezzo (e di ogni metodologia) acquisito o elaborato. In primo luogo, parto dall’osservazione dei loro corpi e di come la loro voce si connette a quel corpo. Poi creo brecce, spostamenti, che possano sorprenderli e attraverso la sorpresa lasciar entrare l’inconosciuto, altre parti di sé. È un lavoro di scoperta continua e di arresti e di frustrazioni continui.
Nella messa in scena voglio mentire il meno possibile, far sembrare ogni soluzione semplice. Un segno semplice per un processo molto complesso e tortuoso, semplice come il gesto di Dio verso Adamo nella Cappella Sistina. Quello che mi interessa è l’organicità. Il teatro è dal vivo e quindi lavoro su ciò che è vivo. Spesso, quasi sempre, creo sequenze di movimento che sono la trascrizione di un testo in un corpo. Lo chiamo lavoro sul testo, anche se la sequenza è silenziosa. È il terreno primo e privilegiato di incontro tra me e gli attori. So che il materiale verbale, il testo vero e proprio, si dovrà appoggiare al quel corpo via via trovato e costruito con ore e ore di ripetizione di sequenze di movimento. È un procedimento circolare: testo1-corpo-testo2. Raramente testo1 e testo2 coincidono. Parallelamente e separatamente intanto lavoro sul suono e sulla voce. Utilizzo molta musica. Anche proponendo agli attori di ascoltarla. Cerco di far cogliere loro la musicalità del mio mondo, di alimentare la loro sensibilità e portarla verso la mia. Solo così spero che possano poi essere semplici nel dire cose complesse.
Per Profanazioni, in cui Agamben parla della tensione tra il soggetto e la parte non conosciuta di sé come una pratica mistica quotidiana, la prima trascrizione è stata di duplicare il soggetto perché il gioco scenico fosse il terreno di questa tensione tra i due personaggi, Uno e Lo stesso o tra l’uomo e il suo Genio, la tensione interna di cui Agamben parla. Traduce un sentimento diffuso e ci mette in contatto con la sfera del possibile, ciò che possiamo essere, diventare e anche ciò che possiamo non essere, la nostra natura e identità profonda con la quale dobbiamo tenere un dialogo costante. Affonda nella nostra condizione effimera. Il teatro è il suo terreno d’indagine privilegiato in questo senso. Le azioni, i giochi, gli scambi, le cure tra Uno e quell’altro se stesso che è sempre lui, che compongono Profanazioni, sono possibili e fugaci. I due si capiscono e poi si perdono, alimentano la loro relazione come Michele e Enea (Michele Baronio e Enea Tomei, i due attori di Profanazioni) oltre che come Uno e Lo stesso e la lasciano scorrere nel tempo contratto dello spettacolo. Mi interessava che loro si confrontassero con il concetto di rendere felice il proprio Genio e che in scena questo concetto si traducesse con il darsi la felicità reciprocamente, che il fatto di essere due in uno potesse far scoprire loro tratti di sé e che questa scoperta fosse la felicità. Per questo in Profanazioni, verso la fine, c’è un sipario verde che scende dall’alto e che crea un piccolo teatro nel teatro. È il loro destino e la natura di Michele e di Enea, nello spettacolo che stiamo guardando, è il loro essere attori.
Lo statuto dell’attore è centrale nella mia analisi e nella mia ricerca scenica. L’attore è portatore di organicità, è una piattaforma dell’umano. Il suo carattere, se osservato secondo le categorie del tempo, qualità e quantità, è la variabilità. La variabilità e l’organicità dell’attore contaminano, si riflettono in tutti gli oggetti della scena. È l’attore che conferisce organicità ad un oggetto, a una luce, a modificarne la durata, il peso, il ritmo. A volte la materia e la forma. Allo stesso tempo però l’attore è inserito nel mio sistema di segni che gli sottraggono valore semico, nel senso che non dipendono interamente da lui, ma che a lui vengono riconsegnati. In qualche modo è tutto legato ad una tensione, potrei addirittura dire ad un conflitto in cui c’è sempre un resto, qualcosa che resta fuori, che non viene del tutto ricompreso, qualcosa di inevitabilmente opaco, non verbalizzabile, non razionalizzabile, forse addirittura non comprensibile.
In questo scarto, in questo residuo, vedo e riconosco l’uomo. Non diversamente da Agamben che definisce l’uomo contemporaneo una mancanza, un’erranza.


*Roberta Nicolai è drammaturga, regista e direttore artistico. Dirige il Triangolo Scaleno Teatro di Roma. Al lavoro di creazione personale (Orlando furioso, 2001, Sala Umberto, Roma; Circus Kafka Show, 2003, Teatro Furio Camillo, Roma; Il castello, 2004, Palladium, Roma; Un altro Calderón, 2007, Teatro Vascello, Roma; Anima, 2009, Teatro Furio Camillo e Palladium, Roma; Profanazioni, 2010, Romaeuropafestival 2010, Cantieri Temps d’Images, Roma), dal 2005, affianca la cura e la realizzazione di progetti dedicati alla scena contemporanea: teatrinvisibili (monitoraggio e convegno 2005/06), Teatri di Vetro. Festival delle arti sceniche contemporanee (cinque edizioni dal 2007 al 2011), OFFicINa, Cantiere di creatività contemporanea della Regione Lazio (vincitore per due bienni: 2008/09 e 2010/11 del bando Officine culturali della Regione Lazio). Nel 2011 vince il premio Kilowatt-Ubulibri come migliore giovane curatore della scena contemporanea per essersi distinta per la qualità del proprio lavoro, per le idee messe in campo e per la forza della propria proposta artistica. Laureata in filosofia. Dopo una formazione artistica basata sulla pluralità degli insegnanti e degli insegnamenti, lavora presso compagnie teatrali e fa esperienza di pratiche di teatro in luoghi non convenzionali. Sperimenta continuativamente la didattica teatrale all’interno della propria compagnia e in contesti diversi: in campi rom, in Africa, dal 1990 al 2008 in moltissime scuole del territorio di Roma. È docente di recitazione presso il Centro Internazionale La Cometa dal 1998 al 2003 e il Centro Sperimentale di Cinematografia nel 2003.