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Le amanti del Teatrino Giullare : una messinscena di grande poesia che sa
“scuotere le zolle di terra della nostra realtà”
Intervista a Giulia Dall'Ongaro e a Enrico Deotti*

di Letizia Bernazza

Ho avuto l'occasione di vedere l'ultimo lavoro del Teatrino Giullare il 10 settembre scorso a Roma a Short Theatre. Inserito nel complesso e ben articolato progetto sulla scrittrice e drammaturga austriaca Elfriede Jelinek (Premio Nobel per la Letteratura nel 2004), curato da Elena Di Gioia (per conoscere nel dettaglio le linee guida del Focus-Festival dedicato a un'autrice, purtroppo, poco conosciuta in Italia, rimando i lettori alla mia intervista alla stessa Di Gioia pubblicata nella sezione “Contributi” di Liminateatri.it), Le amanti è uno spettacolo che arriva dritto al cuore. Sia per la perizia di Giulia Dall'Ongaro e di Enrico Deotti di interpretare il testo della Jelinek, sia per la loro capacità attoriale di restituire l'essenza di una tessitura drammaturgica che insiste sulla precarietà e le sofferenze dell'amore che sembrano essere per le due protagoniste – Brigitte e Paula - l'unica via d'uscita a un'esistenza vuota e priva di stimoli.

 

Ho voluto condividere con le due anime del Teatrino Giullare, Giulia Dall'Ongaro e Enrico Deotti, la genesi de Le amanti (replicato al PimOff di Milano dal 13 al 15 dicembre 2015) e le motivazioni che li hanno spinti a mettere in scena il romanzo della Jelinek. Prima del progetto di Elena Di Gioia, non conoscevo in profondità l'opera della scrittrice austriaca né la forza delle sue opere in grado, come afferma la stessa Di Gioia, << di scuotere le zolle di terra della nostra realtà, affondando nell' epica del linguaggio e della rappresentazione e costringendo a sporcarsi le mani rovistando tra queste zolle>>.

Sono convinta che il Teatrino Giullare abbia saputo davvero “sporcarsi” le mani con la singolare capacità di penetrare i <<tunnel sotterranei della parola>> del romanzo originario fino a restituirne la straordinaria visionarietà, ma anche la delicata e - al tempo stesso feroce – “composizione” di un Mondo in cui è come se la vitalità dell'amore non bastasse più a rinverdirne sogni e speranze, lacerati entrambi dall'“insensatezza” della vita lavorativa e dalla crudeltà delle relazioni umane.

Il Teatrino Giullare fa proprio il “tarlo” della Jelinek di aprire “tunnel sotterranei” per rendere manifesti corpi, voci e parole che diano un senso all'esistenza dei protagonisti e, forse, alla nostra.

Come nasce l'esperienza del Teatrino Giullare e qual è la vostra poetica?

Nasce ai tempi dell'Università durante il corso di Drammaturgia tenuto da Giuliano Scabia con una rivisitazione dell' Alcesti di Euripide che ha segnato l'inizio di un percorso che ha attraversato alcuni classici latini e greci, canovacci della Commedia dell'Arte e poi la drammaturgia contemporanea (Beckett, Bernhard, Pinter, Koltès, Scabia, Jelinek). Siamo sempre stato attratti dal rapporto tra voce e materia, parola e meccanismo teatrale, attori veri ed attori artificiali, linguaggio e visione, ma il nostro interesse principale è l'ascolto del testo, l'indagine sulla natura più intima delle parole con strumenti di nostra concezione.

L'idea di mettere in scena Le amanti , da cosa è scaturita?

Da molto tempo le nostre letture frequentavano Jelinek e quando Elena di Gioia ci ha chiesto per il Focus di lavorare su un testo abbiamo scelto Le amanti perché è un romanzo unico per la straordinarietà del linguaggio, la concatenazione delle immagini e delle parole e, per la sua natura, per la forza della voce narrante, ci sembrava particolarmente adatto ad una messinscena.

Come avete lavorato sul testo? Quali i punti cardini che vi hanno guidato verso lo spettacolo finale?

L'adattamento del romanzo segue il principio caro all'autrice della dissociazione tra corpo e voce.
La Voce dell'autrice, i Personaggi ed il Lettore sono i vertici del triangolo giocoso e provocatorio composto da Jelinek nella scrittura del romanzo che abbiamo trasposto sul palcoscenico come la Narratrice, i Personaggi, lo Spettatore. Il romanzo dunque prende la forma del racconto scenico illustrato in cui la voce narrante, che entra ed esce da pensieri, teste, corpi altrui e propri, si accompagna a quadri visivi che echeggiano un panorama iconografico vicino all'autrice e popolato da personaggi senza possibilità di libera azione, inscatolati nella loro vita limitata e nella cornice verde del bel paesaggio austriaca.
È nel magazzino dell'umanità che si spiegano le parole argute, precise, danzanti del romanzo in un processo di deformazione che esalta, grazie alla distanza e alla negazione di ogni psicologismo, la luce della realtà.

Voce e visioni sono gli aspetti salienti del vostro allestimento. In un'ambientazione che mi ricorda molto la concezione del “mostruoso” della condizione umana della scrittrice ungherese Agota Kristof, pensate che - anche per la Jelinek – non ci sia più alcuna meta se non l'abisso del vuoto rispetto a un'esistenza terribilmente senza senso che quasi non vale la pena di vivere?

No. Anche se la vita delle protagoniste scivola in una terrificante inerzia verso il malcontento, e anche se i sogni quando si realizzano si rivelano in tutta la loro misera insignificanza, il romanzo, ed il racconto teatrale, sono condotti con il sorriso.

La vostra compagnia ha debuttato con l' Alcesti di Euripide al corso di Drammaturgia di Giuliano Scabia al D.A.M.S. di Bologna. In che modo avete coniugato la costante della vostra ricerca teatrale, fondata “sull'idea di attore artificiale” e “di esplorazione dell'espressività del limite fisico”, con le fisionomie dei protagonisti del romanzo?

Ho trovato molto raffinato e denso di significati il rapporto che avete istituito tra l'attore e gli oggetti: non soltanto con le innumerevoli scatole di cartone che popolano lo spazio scenico dalle quali appaiono e scompaiono grottesche figure, incapaci di agire se non per procurare dolore a Brigitte e a Paula. Ma anche e soprattutto l'invenzione di fantocci a misura umana, alter-ego delle creature che popolano il romanzo. Quanto c'è in tutto questo della scrittura della Jelinek?

Nella scelta degli strumenti da utilizzare per concretizzare i personaggi che dovevano necessariamente avere una natura diversa rispetto alla voce dell'autrice-narratrice, abbiamo deciso di costruire due simulacri a dimensione naturale delle protagoniste per permetterci di trattarle e maltrattarle in scena come Jelinek le tratta e le maltratta nel romanzo. Gli altri non sono che teste o parti chiuse nel loro piccolo ambiente dal quale non potranno mai uscire, tentando di concretizzare quella sorta di deposito di esistenze in letargo sentimentale descritto da Jelinek.

Ultima questione: il linguaggio che utilizzate spazia dal comico al grottesco. È il risultato naturale della stessa scrittura “deformante” dell'autrice che rode con prepotenza le già fragili basi dei rapporti umani?

Si. Sono registri, o forse meglio sguardi, già presenti nella scrittura del romanzo e abbiamo cercato di esaltarli teatralmente per evidenziare la crudeltà dei rapporti tra le persone, l'insensatezza della vita lavorativa, la retorica sull'amore.

*Per conoscere più da vicino il Teatrino Giullare, si consulti il sito: www.teatrinogiullare.it

 

@Foto per gentile concessione de Teatrino Giullare