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Lo sguardo sull’arte dell’attore/danzatore.
Attraverso alcuni libri sulla formazione.
di Alfio Petrini

Prima parte

Traduzione in lingua spagnola
di Dora Cortez

Alessandro Fersen Pina Bausch Donnellan Declan Jerzy Grotowsky
Alessandro Fersen
Pina Bausch
Donnellan Declan
Jerzy Grotowski (a destra)

 

 

1. Il drammaturgo scrive per l’attore/danzatore. Il suo referente diretto non è il pubblico, ma l’attore/danzatore. Scrive, pensando a lui. Gli mette a disposizione una tessitura di azioni fisiche organizzate in strutture, suggerendogli come i personaggi possano autodeterminarsi attraverso il loro comportamenti. Se il drammaturgo scrive per l’attore/danzatore, non può ignorare né i segreti né i problemi relativi alla sua arte, che ha come tema centrale il corpo.

Stupri, pedofilia, abusi, soprusi, menagement violento, mobbing, delusioni, frustrazioni, esclusioni, aggressioni, discriminazioni di ogni genere – chi più ne ha più ne metta - sono fatti di cronaca quotidiana. Si tratta di eventi che producono disagi, stress, disturbi della personalità, depressioni, traumi, patologie che lasciano segni indelebili nel corpo/mente dell’uomo contemporaneo. In alcuni casi provocano persino la morte, la fuga dalla realtà o il suicidio, come nel caso di France Telecom che ha messo in atto una sciagurata gestione del personale provocando, in un anno e mezzo, diciotto suicidi e alcuni tentati suicidi. L’autorità che si trasforma in autoritarismo, il piacere fisico che diventa edonismo, lo sviluppo sociale che non coincide con un reale progresso umano sono fattori che - assieme alla quantità attraente dei numeri (vendite, fatturato, ricchezza, successo) - incidono sulla qualità di vita dei cittadini, ai quali è negato di essere uomini, creature umane con un corpo e un’anima da tenere in buona salute.

Quanti sono gli imprenditori che considerano i lavoratori dipendenti un capitale prezioso da conservare per la prosperità aziendale? Quante sono i padri e le madri che fanno esercizio di autorità in funzione della crescita armoniosa e dello sviluppo fiorente dei loro figli? Quante scuole hanno insegnanti che sono educatori? E quanti sono i politici che lavorano per rendere un servizio ai cittadini? In una società materialistica e violenta come quella in cui viviamo, c’è poca anima, poca solidarietà, poca filìa. Valori fondamentali non sono fattualmente condivisi. Le persone, in larga misura, soffrono. Sono umiliate, ignorate, deluse, ferite nel corpo e nell’anima. E, si sa, quando l’anima soffre, anche il corpo soffre. E quando l’anima muore anche il corpo muore. Una parte delle persone umiliate e offese sopportano, reagiscono. Altre, se non cadono come corpi morti che cadono, appassiscono, perdendo tono, energia, voglia di vivere. Se non dominano il corpo, il corpo li domina e gli impedisce di fare quello che potrebbero e vorrebbero fare. Da amico il corpo diventa nemico. Questo, e molto altro, alimenta il male di vivere, che ha raggiunto la estensione della tragedia umana e che si riverbera sulla formazione delle nuove generazioni di attori/danzatori, e anche di drammaturghi, se applicano il lavoro sulle azioni fisiche alla scrittura drammaturgica.

Le patologie mettono in discussione la interezza dell’uomo a due dimensioni (materiale e immateriale). Alzano muri. Generano quelle resistenze sulle quali Grotowski ha detto parole estremamente chiare, indicando la strada per superarle e per vincerle. L’uomo fatto a pezzi è impossibilitato a compiere l’atto totale della creazione artistica e a determinare l’accensione delle pareti interne del corpo, pagando un prezzo alto sul versante della produzione di forme credibili. La questione, oltre a coinvolgere direttamente l’attore/danzatore e a chiamare in causa le scuole di teatro e di danza, interessa di rimbalzo anche il drammaturgo perché è all’attore/danzatore, liberato dal blocco della paura, che pensa quando scrive un testo linguistico. E non mi stancherò mai di dire che, prima di scrivere il testo linguistico, il drammaturgo deve scrivere il testo fisico che sarà rintracciato e utilizzato dall’attore/danzatore nel momento in cui elaborerà una struttura fisica personalizzata in funzione dell’autogestione del processo organico.

La presenza di centinaia di scuole di teatro e di danza imporrebbe una riflessione sulla qualità delle azioni formative in campo; ma nessuno la fa. Tutto va bene. Una cosa vale l’altra e tutte finiscono in un grande calderone della formazione. Una cosa è certa: il teatro non ha bisogno di attori, registi o drammaturghi, ma di uomini. Invece di formare gli artisti, bisognerebbe formare gli uomini. Ma questo è un altro discorso.

La rivoluzione teatrale del Novecento, eliminando la pedagogia diffusa tipica dell’Ottocento secondo la quale l’attore apprende per contatto, ha reso impraticabile la formazione articolata per materie e per generi, sulla quale tuttavia si attarda la maggior parte delle scuole pubbliche e private del terzo millennio. I motivi d’impraticabilità sono fondamentalmente due. Primo, se manca l’ambiente di riferimento delle famiglie d’arte, le materie non trovano più una organica integrazione. Secondo, la pratica ignora l’uomo totale: in altri termini, separa ciò che invece dovrebbe essere considerato in modo organico e unitario.

I contenuti e le metodiche riguardanti l’arte dell’attore del Novecento non sono entrati nei programmi didattici delle scuole di teatro. Al cadere delle prime foglie autunnali sui muri delle città appaiono manifesti che mettono in fila una serie di paroline magiche, specchietti per le allodole che garantiscono la risoluzione di ogni tipo di problema e garantiscono la migliore formazione. Le direzioni didattiche reclutano insegnanti tra attori e registi che, non trovando lavoro, si riciclano come sedicenti maestri di impostazione della voce, comportamento scenico, movimento ritmico, psicotecniche e tendono a fare un’offerta molto abbondante di materie d’insegnamento, puntando sulla quantità piuttosto che sulla qualità del progetto formativo. Mi pare di poter dire che la formazione si muova, in generale, verso un sistema frantumato d’insegnamento. Tanti insegnanti per tante lezioni separate e distinte. La formazione che fa a pezzi la didattica, fa a pezzi anche l’uomo. Quando si tengono separate cose che invece dovrebbero essere affrontate in modo unitario, s’ignora, come ho detto, l’uomo nella sua interezza. Non ci vogliono dieci o venti insegnanti per lavorare con un gruppo di attori/danzatori, i quali hanno poco da imparare e molto da disimparare. Ci vuole un maestro. Un maestro, coadiuvato da un paio di collaboratori, che - tanto per fare un esempio banale -, non insegnerebbe mai la danza fondata sugli stilemi coreografici, quando il discente sta lavorando sulle azioni fisiche e sull’autogestione dei processi organici. Non insegnerebbe al giovane attore/danzatore a guardarsi fuori, quando sta imparando a guardarsi dentro. Non favorirebbe l’esteriorità della forma alla organicità delle forme. Giorgio Taffon (Dramma.it, Rubriche, aprile 2010) ricorda puntualmente che “I maestri del Novecento teatrale, i Padri fondatori, ci hanno insegnato che in scena occorrono assolutamente due condizioni dell'agire: la precisione e il controllo, e assieme la capacità di essere autonomi e originali e inventivi, pur nell'ambito predeterminato della partitura”. Precisa inoltre che “non c’è separazione tra teatro agito e teatro danzato” e che nel teatro danzato “è la tecnica delle azioni fisiche a primeggiare”.

La scelta della scuola, del maestro, della metodologia di lavoro non è né neutra né indifferenziata. Una scuola di teatro non è uguale ad un’altra scuola, un maestro ad un altro maestro, tanto meno un maestro ad un insegnante. Uno stage sulla mimesi non equivale a uno stage sulla biomeccanica o sui processi organici. Bisogna saper distinguere: individuare le differenze in base alle strategie che si vogliono mettere in atto e ai risultati che si vogliono ottenere. Il trucco - ha raccontato Grotowski -, non è necessario per recitare. Se un attore vuole usarlo, nessuna norma può impedirglielo e nessuno può dare per scontato il crollo dell’architettura su cui si regge il punto di vista che l’ha indicato come superfluo. Va bene il viso truccato, il viso non truccato o la maschera, a condizione che si comprenda la relazione tra scelta e risultati conseguibili. La pratica corrente tende a far passare il valore di una formazione buona per ogni tipo di teatro, che non tiene conto di un dato di fatto fondamentale, e cioè che ci sono contenuti e approcci metodologici diversi per diverse proposte formative per diversi tipi di teatro destinati a diversi pubblici. E’ importante allora che il giovane attore/danzatore non solo goda della libertà di scelta, ma sia consapevole della opportunità e della finalità della scelta.

Quanti sono, oggi, i maestri riconosciuti? Esiste un’offerta pubblica differenziata di formazione professionale, consapevole dei problemi relativi alla trasmissione del sapere? Perché la formazione dell’attore guarda soprattutto verso lo spettacolo d’intrattenimento, contravvenendo al principio fondamentale del pluralismo fattuale che dovrebbe tenere in buona considerazione anche altre forme di teatro? La quantità corrisponde alla qualità? Guardando verso oriente si continua a citare Stanislawskij come maestro di psicotecnica e del lavoro sulla memoria emotiva, trascurando l’intuizione finale relativa alle azioni fisiche, raccolta e perfezionata da Grotowski, che ha sempre riconosciuto il suo debito nei confronti del maestro russo. Sul versante occidentale si continua a citare Strasberg o a rilanciare in termini antagonistici Meisner senza dire che la formazione americana è un ritorno rimasticato della psicotecnica stanislavskiana. E’ difficile disegnare un quadro nazionale della proposta formativa. Mi limito a guardare la formazione attraverso alcuni libri di recente pubblicazione, cercando di ricavarne alcune linee di tendenza.

2. Meisner è stato, assieme a Lee Strasberg e a Stella Adler, uno dei fondatori del Group Theatre che ha poi abbandonato per fondare una nuova scuola e un nuovo metodo. “Ai tempi del Group Theatre - scrive Meisner -, gli attori facevano quelle che venivano chiamate improvvisazioni. Erano delle descrizioni verbali e generiche di quella che ci sembrava più o meno la nostra situazione nella commedia. In pratica, raccontavamo quel che ci ricordavamo della storia usando parole nostre. Alla fine decisi che erano un’assurdità originata solo dall’intelletto” (Sulla recitazione, Dino Audino Editore, 1994.). Intuizione giusta, che tuttavia non trovò una adeguata soluzione operativa. Dopo l’uscita dal Group Theatre, Meisner decise di creare un esercizio per gli attori in cui non ci fosse nulla d’intellettuale: “Volevo eliminare tutto il lavoro di testa, togliere la manipolazione mentale per accedere al nucleo da cui partono gli impulsi”. Le fondamenta dell’insegnamento sono date dalla realtà della ripetizione. Secondo Meisner è questo il senso della realtà che genera la verità scenica. E quale sia questo senso lo spiega chiedendo agli allievi se lo stanno ascoltando. Figuriamoci! Un coro di risposte affermative. Certo che ascoltano il maestro, il quale insiste per sapere se fingono, oppure se ascoltano veramente. La rassicurazione è fuori discussione, ma l’affermazione secondo la quale la realtà dell’azione stia in quel ‘veramente’ suscita forti perplessità. Sento, quindi ascolto? Purtroppo non è così. Chi ci assicura che gli allievi ascoltino veramente e dicano la verità? Non nego che abbiano sentito le sue parole, ma non sono certo che le abbiano ascoltate. E come si fa ad ascoltare veramente? Questa è la vera questione. Gli allievi, invitati ad ascoltare quante automobili passano per la strada, rispondono: ‘nessuna’, ‘ho sentito un aereo’, ‘non riuscivo a sentire le macchine’, ‘i rumori erano confusi, non sono riuscita a distinguere i rumori delle macchine’. E’ evidente che prima hanno fatto finta di ascoltare il maestro. Quella che era stata indicata come realtà dell’azione era in realtà un guscio vuoto, una piaggeria, un atto di volontà, una parola che mente. Se non sono stati in grado di ascoltare veramente un’automobile, quante parole del maestro avranno veramente ascoltato sulla questione della realtà dell’azione? Poche o nessuna. In un caso e nell’altro la realtà dell’azione risulta decisamente inafferrabile.

Ripetere, ecco la seconda regola sulla quale Meisner sposta l’insegnamento: “Ripetere ciò che sento dire m’impedisce di lavorare con la testa” . Se ripeto, il cervello non funziona. Se ripeto, compio un atto che non ha niente d’intellettuale. Hai i capelli lucidi, hai i capelli lucidi, hai i capelli lucidi, hai i capelli lucidi…. “No, grida il maestro, non dovete aggiungere inflessioni. E’ meccanico, è inumano, ma è la base per qualcosa, commenta all’indirizzo di una coppia di attori. E’ vuoto, è inumano, vero? Eppure c’è qualcosa: c’è una connessione. Si stanno ascoltando a vicenda, giusto? Questa è la connessione. E’ una connessione generata dal reciproco ascolto, ma che non ha nessuna qualità umana – non ancora”. Dicendo “non ancora”, Meisner mi pare che rinvii al dialogo emotivo come effetto del contatto verbale. Se ripeto, non lavoro con la testa. E va bene, non uso la ragione. Però, se non lavoro con la testa, con che cosa lavoro? Dovrei lavorare con il corpo, con il corpo/mente, partendo dalle azioni fisiche, ma Meisner non è in grado di apprezzare il valore della lezione finale stanislawskiana. Non lavoro con la testa, non lavoro con il corpo: allora, con che cosa lavoro? Ripeto le frasi perché lo ha stabilito il direttore della scuola? Meisner, con la tecnica del ripetere senza inflessioni coglie l’importanza dello stimolo, ma si arena sul terreno dell’attività fisica (non dell’azione fisica) quale è la meccanica ripetizione della frase ‘Hai i capelli lucidi’. La tecnica della ripetizione è dunque inumana e inorganica a tutti gli effetti.

Meisner è insoddisfatto. Apporta una variazione al metodo di lavoro. Passa dal ripetere ciò che sento al ripetere ciò che dico: esemplifica il passaggio con un esercizio in cui chiede soldi in prestito ad un allievo. Ripete la richiesta cinque o sei volte. Poi, all’interlocutore muto grida in faccia ‘Sei uno spilorcio’. Spiega che il rifiuto ha innescato un impulso che proviene direttamente dalla ripetizione e che la frase ‘Sei uno spilorcio’ è stata generata da questo impulso. Il dato importante è la scoperta dell’impulso. Ma invece di soffermarsi sul valore di questo dato, rivolge attenzione alla reazione verbale. Chiede un prestito e critica il silenzio dell’interlocutore attribuendogli un significato negativo. Chi tace acconsente, oppure non dice niente? Entrambe le affermazioni non rispondono a verità. L’attore che tace comunica con il corpo che pensa, che parla anche quando non produce suoni articolati o inarticolati. Quindi, il problema è che Meisner non ha ascoltato il silenzio dell’interlocutore. Lo ha ignorato, concentrando l’interesse sul passaggio da una battuta (‘Mi fai un prestito?’) a un’altra battuta (‘Sei uno spilorcio’) e restando prigioniero della parola.

In altri termini, l’interpretazione del silenzio come rifiuto comunicato attraverso la battuta dipende dal condizionamento del teatro dialogico, che cerca solo la parola per dire la battuta, pur non essendo scontato che il silenzio debba essere interpretato come rifiuto del prestito e che questo rifiuto (cioè il significato) debba essere trasmesso con la parola. Il silenzio potrebbe produrre un gesto o un suono inarticolato, oppure un altro silenzio, riempito per esempio dalla diffidenza suscitata dalla insicurezza per la restituzione del denaro o dalla valutazione delle disponibilità finanziarie o dalla sorpresa generata dalla richiesta improvvisa del prestito. Insomma, i significati del silenzio riempito potrebbero essere tanti e tante potrebbero essere le successive risposte verbali o non verbali da mettere in relazione alla necessità della comunicazione, a condizione che si comprenda: primo, che stare in silenzio è un’azione fisica; secondo, che l’azione fisica debba essere opportunamente specificata e circostanziata; terzo, che lo stimolo è esterno e che produce pertanto un impulso. Da questo fatto nasce un interrogativo che Meisner ha lasciato senza risposta. Se per dire il dicibile basta dire una parola o una frase esplicita, come si fa a comunicare l’indicibile? Se per il dicibile la tecnica del dialogo emotivo può essere applicabile, per l’indicibile, l’invisibile e l’impalpabile appare decisamente inadeguata. In sostanza Stanislawski si poneva la stessa domanda quando dichiarava la propria insoddisfazione per i risultati che il metodo produceva sui testi linguistici complessi che chiamava di poesia (i grandi classici). Oggi sappiamo che la centralità dell’azione fisica posta alla base del processo organico è determinante ai fini della comunicazione dell’indicibile.

3. In Italia una linea di ricerca simile a quella del maestro americano è stata portata avanti per molto tempo da Alessandro Fersen: uomo di cultura, regista apprezzato, autore di scritti pregnanti sulle questioni scottanti del suo tempo, al quale è stata dedicata di recente Una giornata di studio e un libro. (“Ora fluente - Del teatro e del non teatro”, Paola Bertolone, Titivillus 2009).

Come Meisner, il maestro italiano fonda l’attività formativa sulla psicotecnica stanislawskiana. Più tardi l’abbandona, teorizzando una terza via che sta tra Brecht e Stanislawskij e mettendo in pratica tecniche del controllo e tecniche dell’abbandono che hanno rappresentato un passo avanti rispetto alla psicotecnica, ma che lo hanno tenuto legato - come Meisner - al teatro di parola e all’area psicologica della ricerca. Fersen ha dedicato l’ultima parte della sua vita al mnemodramma e ai processi di trance che si sono rivelati più adatti alla performance che al teatro. In questo ambito “la sua ricerca si radica nello psichismo, non in contrapposizione al corporeo ma piuttosto al suo confine, cioè nelle manifestazioni pulsionali e nelle immagini emotive del corporeo, dove nasce l’elaborazione della cultura, dove ha sede il laboratorio della memoria”.

4. In un altro libro di recente pubblicazione l’attore finisce sul lettino dello psicanalista (L’arte dell’attore, Mariagiovanna Hansen, Edizioni EDUP, Roma 2008 ), creando un pasticcio che suscita un indomito stupore. Un po’ di oriente psicotecnico, un pizzico di tradizione occidentale, una citazione del Dalai Lama mescolata a alcuni riferimenti a Fromm, Freud e Lacan, un po’ di Ginger, qualche esercizio, molta psicologia, e la scuola di teatro è fatta. Nella prefazione si teorizza la “assunzione di moduli operativi che devono necessariamente integrarsi con la struttura di base psicologica dell’allievo” e si aggiunge che “le improvvisazioni possono in alcuni casi investire in modo distruttivo meccanismi di difesa eretti talvolta a protezione di un Io fragile”, il che vuol dire che necessitano di “una guida psicologica affidata a mani esperte”. Nel corpo del libro la responsabile della Scuola di teatro si affretta a dichiarare la propria fede nella psicoterapia come percorso da consigliare a chiunque senta l’esigenza di conoscersi per evolversi e per esprimere la propria creatività. Con i richiami alla psicotecnica e alla memoria emotiva siamo nella migliore delle ipotesi al primo Stanislawski mal digerito. Che la maggior parte dei corpi degli aspiranti attori siano gravati da patologie più o meno gravi è vero; che i giovani abbiano bisogno di un maestro riconosciuto per superare le ben note resistenze è altrettanto vero; ma che le patologie debbano essere risolte con l’acquisizione di una “abitudine all’analisi” non è suffragato dalle tesi sperimentali di uno solo dei grandi maestri del ‘900. Al contrario è stata accertata la centralità del lavoro sulle azioni fisiche.

Certo, il teatro può avere anche una funzione terapeutica, ma che c’entra il teatro terapeutico per gruppi di laureandi in psicologia o per persone con disturbi di personalità con l’arte dell’attore? E perché mettere insieme arte e psicologia, chiamando in causa Grotowski e Brook che non hanno mai fatto uso di pratiche psicologiche o psicanalitiche?

5. Anche la formazione propinata ai ragazzi delle scuole di danza appare falsa, fuorviante e inorganica. La maggior parte degli insegnanti fonda l’azione formativa sulla centralità degli arti e sul gesto mimetico. Tutti gli esercizi prevedono una regola tassativa: tenere il busto eretto. Finalità: la sensibilizzazione dei diversi punti articolati delle braccia. Stesso ragionamento per gli arti inferiori. Povero Decroux! La scoperta della centralità del tronco è finita sotto il carro armato di una ricerca indirizzata verso i livelli alto, laterale, basso degli arti superiori, fondata sull’esperienza del movimento alternato delle braccia. Una pratica che prepara all’uso degli arti in funzione di un’arte imitativa. Le braccia cadono dall’alto verso il basso come le foglie d’autunno, le braccia si alzano e si abbassano per indicare il volo degli uccellini, le mani e i piedi spingono per far saltare le rane: e così tutti i bambini ripetono gli stessi gesti e gli stessi movimenti. Il culmine dello stereotipo, legato allo stilema coreografico, è raggiunto con ‘i passi degli animali’ (Silvia Perelli, Insegnare danza ai bambini, Dino Audino Editore, Roma, 2007). Passo della tigre: un passo ogni due tempi: un passo elegante (che vuol dire elegante?) e cauto (che vuol dire cauto?), meno pesante dell’elefante ma ugualmente deciso (che vuol dire deciso?). E per l’incedere del cacciatore della tigre si suggerisce l’appoggio prima dell’avampiede e poi del tallone. E così di questo passo con i passi del cavallo e delle formiche. Tali gli adulti, tali i bambini.

Nell’ottocento si teorizzava la poesia delle braccia e delle gambe. Oggi, dopo Decroux, Grotowski, Jooss e Baush, tanto per citare alcuni grandi maestri, si dovrebbe insegnare a tenere dritta la spina dorsale e rilassati i muscoli laterali che la sostengono; a considerare il tronco come centro del corpo e della produzione di energia; a lavorare sulle azioni fisiche e sui processi associativi per sviluppare veramente la creatività individuale e di gruppo, la organicità, la differenza e la conseguente originalità. Si dovrebbe insegnare che non c’è un modo, ma mille modi di essere elegante, cauto, deciso; che prima di stabilire come si cammina bisogna stabilire perché si cammina e dove si cammina, ovvero individuare la necessità che spinge l’essere umano a camminare, il bisogno che ha di muoversi e di agire. La società della barbarie galoppante ha bisogno di bambini che scimmiottano gli adulti; di adolescenti pronti a praticare l’edonismo in età adulta; di giovani legati alle convenzioni e agli stereotipi.

6. “Teoria e tecniche per vincere il blocco dell’attore e risolvere i problemi della recitazione” è il sottotitolo rassicurante del libro del regista inglese Declan Donnellan (L’attore e il bersaglio, Dino Audino Editore, Roma 2007). Il blocco, si sa, impedisce al talento di manifestarsi: “Il talento circola in modo naturale, come il sangue. Dobbiamo solo rimuovere il grumo che lo ostruisce”, scrive Donnellan. Ciò che è facile a dirsi non è altrettanto facile a farsi, anche in considerazione del fatto che più si cerca di “uscire dall’impasse, più si peggiorano le cose” e anche perché nella situazione di blocco si prova un profondo senso d’isolamento. Tra le cause del blocco, si sa, ci sono il luogo in cui si lavora, l’atmosfera difficile nel gruppo, il cattivo rapporto con il regista o l’autore, ma anche quelle resistenze sulle quali Grotowski ha pronunciato parole inequivocabili, provocate dai traumi o dalle lacerazioni della vita quotidiana. Donnellan premette che bisogna “distinguere tra ciò che possiamo cambiare e ciò che non possiamo cambiare”, precisa che l’attore ha uno scarso controllo su ciò che viene da fuori di lui, mentre su ciò che proviene da lui stesso “può avere un controllo sempre maggiore” e conferma la tesi, ormai consolidata, secondo la quale si debba lavorare dall’interno verso l’esterno, e non fare nulla per l’esterno. Lo stimolo è esterno, ma serve a lavorare verso l’interno con la tecnica delle azioni fisiche e con l’autogestione dei processo organico.

E’ possibile insegnare a recitare? La recitazione è un mistero. Nessuno ha la bacchetta magica per risolvere i problemi relativi all’arte dell’attore. Forse ai giovani in formazione bisognerebbe dire che il migliore maestro è colui che non ha niente da insegnargli, ma che ha la capacità di metterlo nelle condizioni d’imparare a disimparare. Per esempio: a non pompare i sentimenti. Ma per non pompare sentimenti è essenziale non trattare il personaggio come organismo vivo, ma come un lessema, quale è effettivamente. Purtroppo, la formazione per generi, la santificazione delle tecniche che implicano la dipendenza del soggetto attore dal soggetto regista, la pratica mortale della trasformazione della parola scritta in parola parlata, la tendenza alla mimesi sono le cause che determinano il fenomeno di contiguità tra la “prima natura” (l’imitazione degli adulti) e la “seconda natura” (l’imitazione della realtà). Su questo versante si finisce per “sentire” il personaggio, appiccicandogli addosso descrizioni, sentimenti e psicologie.

Al lavoro sui sentimenti Donnellan dedica un capitoletto intitolato “Cosa prova il mio personaggio”. La risposta rivolta all’attrice che deve interpretare Giulietta è la seguente: “E’ pericoloso per Irina chiedersi cosa sta provando Giulietta. La domanda appare ovvia e anche generosa, ma non fa che soffocare lo spirito. La domanda è contaminata dalla sottile vanità di poter essere totalmente sicuri di ciò che proviamo. Ma se non posso essere certo di cosa provo io, come posso essere certo di cosa Giulietta potrebbe provare?” Conclusione: la domanda “non ha alcuna risposta pratica”, perciò è inutile che Irina se la ponga. E allora, cosa deve fare l’attrice? Deve ricorrere al “bersaglio”.

Dopo aver dichiarato che “l’impulso dell’attore è legato a due specifiche funzioni del corpo: i sensi e l’immaginazione”, e chiarito che “sono la prima antenna per esplorare il mondo esterno”, Donnellan introduce il tema del “bersaglio”, precisando prima di tutto quello che non è. “Il bersaglio non è né un obiettivo, né un desiderio, né un progetto, né una ragione, né un’intenzione, né uno scopo, né un punto di focalizzazione, né una motivazione”, essendo le motivazioni derivazioni del “bersaglio”. “Il bersaglio può essere reale o immaginario, concreto o astratto, ma la prima regola infrangibile è che, sempre e senza eccezione, ci deve essere un bersaglio”. E fa alcuni esempi: Metto in guardia Romeo - Prendo in giro la Balia – Apro la finestra. La natura del bersaglio cambierà di volta in volta. La scelta è enorme. Ma senza il bersaglio, l’attore non può fare assolutamente nulla, in quanto il bersaglio è per l’attore fonte di vita”. Ciò che dà lo riceve in cambio, come l’amore, che è energia. Il bersaglio dove sta? Sta all’esterno. Quand’è che esiste? Esiste prima ancora che l’attore ne abbia bisogno. Invece di sentire, cosa deve fare l’attore? Deve vedere il bersaglio. Come? In modo specifico e dettagliato. Non una volta per tutte, e sempre allo stesso modo. Il bersaglio è mobile e modificabile, è in continua trasformazione, sempre in azione. Il bersaglio è come il cibo, nutre l’attore e lo carica di energia. Non esiste “una risorsa interna di energia”, perché “tutta l’energia deriva dal bersaglio”, ripete Donnellan. L’energia dipende dall’attenzione rivolta al bersaglio. Tanto più vediamo in palcoscenico, tanto più vedono gli spettatori. Contrariamente: “tanto più sentiamo, tanto più inutili risulteranno le parole e tanto più descrittivamente sentimentale e psicologica risulterà l’interpretazione”.

Donnellan prende le distanze dai santoni americani (Strasberg, Meisner e Hagen) che hanno fondato l’insegnamento sul trasferimento dei sentimenti e colloca il bersaglio al centro dell’arte della recitazione, precisando che “l’attore non può recitare un verbo senza il complemento oggetto”. Prendi il verbo essere, ci dice: “Irina non può recitare il fatto di essere felice, triste o arrabbiata”, se non a rischio di produrre cliché, forme morte, algide e respingenti. “L’attore può recitare soltanto i verbi - aggiunge -, a condizione che questi dipendano da un bersaglio, che è una sorta di complemento oggetto, una cosa specifica, vista o percepita, e in qualche misura desiderata”, che spinge l’attore a partire da se stesso: non per se stesso, non per l’esterno.

Sulla questione della divisione del tempo - determinata dalla paura che assale l’attore bloccato -, Donnellan dice che la paura divide il tempo presente in “due falsi livelli temporali” che si chiamano passato e futuro. E’ in questi luoghi che si rifugia e prospera la paura: “governa il futuro in forma di ansia e il passato in forma di senso di colpa”. Ne consegue che la paura si cura soltanto con il presente. E il migliore presente è ovviamente il bersaglio, il complemento oggetto, non il verbo, non l’azione fisica pura.

Sempre sul tema del blocco Donnellan dedica un capitolo molto interessante alla “posta in gioco” che “serve a offrire la migliore via di fuga liberatoria”. Dopo aver precisato che “le poste in gioco non sono qualcosa di vago e di confuso, anzi sono specifiche e sempre appaiate”, prefigura – prendendo in esame Giulietta - la necessità della divisione di “uno” (scapperò con Romeo) in “due” (scapperò con Romeo, non scapperò con Romeo), cioè in una coppia di valori opposti e contrari. Si tratta di una regola di rilevante interesse che libera energia vitale, aiuta l’attore ad uscire dal blocco, incide favorevolmente sulla credibilità e sulla imprevedibilità delle forme.

Con le modalità di lavoro sulla recitazione che hanno come protagonista assoluto il bersaglio Donnellan dice che l’attore è quello che “interpreta”. Con le modalità di lavoro sull’arte dell’attore fondata sul metodo delle azioni fisiche si può dire che l’attore è quello che fa e che il personaggio è quello che gli fa fare l’attore e il regista. C’è una differenza tra le due metodiche di lavoro? Credo di sì. La prima mi sembra soprattutto funzionale alle forme di teatro fondate sul principio di discorsività, mentre la seconda alle esigenze del teatro che s’ispira al principio della totalità, cioè all’atto totale dell’attore. Un atto che è un evento. Un evento che regala lo stupore della trasformazione del corpo. Un corpo che produce pensiero e afferma la dualità della natura e della cultura umana. Una dualità che riconosce valore al sapere e al non sapere, che trova sostanza nella miscela linguistica eterogenea, che si manifesta attraverso la pluralità del linguaggio, che intreccia comunicazione chiara e comunicazione oscura.

 

 

 

La mirada sobre el arte del actor

Por Alfio Petrini

Através de los libros de la formaci ó n .

Primera parte.

Traducci ón Dora Cortez Villanueva

 

1.- El dramaturgo percibe el personaje, pero se dirige al actor/bailar í n. Su referente directo es el actor/ bailar í n, no el publico. Escribe, pensando en él. Le pone a disposici ó n una textura de acciones f í sicas organizadas en estructuras, sugiriéndole c ó mo los personajes puedan autodeterminarse através de su comportamento. Si el dramaturgo escribe para el actor/bailar í n, no puede ignorar ni los secretos ni los problemas relativos a su arte.

Violaciones, pedofilia, abusos, atropellos, management violento, mobbing –quién da menos y quién da más- son hechos de cr ó nica cotidiana. Se trata de eventos que producen molestias, estrés, disturbios de la personalidad, depresi ó n, traumas, patolog í as que dejan signos indelebles en el cuerpo/mente del hombre contemporaneo. En algunos casos hasta provocan la muerte, la fuga de la realidad o el suicidio, como en el caso de France Telecom que ha puesto en acci ó n una desventurada gesti ó n del personal provocando, en a ñ o y medio, dieciocho suicidios y algunos tentativos de suicidio. La autoridad que se trasforma en autoritarismo, el placer f í sico que se vuelve hedonismo, el desarollo social que no coincide con un real progreso humano son factores que –junto a la atractiva cantidad de numeros (ventas, facturado, riqueza, éxito)inciden sobre la cualidad de vida de las personas, a quien es negado de ser hombres, creaturas humanas con un cuerpo y un alma en buena salud. ¿ Cuántos empresarios consideran sus trabajadores un capital precioso para la prosperidad empresarial? ¿ Cuántos padres y madres ejercen su autoridad para un crecimiento armonioso y un floreciente desarrollo de sus hijos? ¿ Cuántas escuelas tienen maestros que son educadores? ¿ Y cuántos son los pol í ticos que trabajan para servir a los ciudadanos? En una sociedad materialista y violenta como en la que vivimos, hay poca alma, poca solidaridad. Valores fundamentales no son de hecho divididos. Las personas sufren mucho. Son humilladas, ignoradas, desilusionadas, heridas en cuerpo y alma. Y, se sabe, cuando el ama sufre también el cuerpo sufre. Y cuando el alma sufre todo el cuerpo muere. Una parte de las personas humilladas y ofendidas soporta, reacciona. Otras, si no caen como cuerpos muertos que caen, marchitan, pierden tonicidad, energ í a, ganas de vivir. Si no dominan el cuerpo, el cuerpo los domina y les impide de hacer lo que podr í an o quisieran hacer. De amigo, el cuerpo se vuelve enemigo. Esto y mucho más alimenta el mal de vivir, que ha llegado a ser una extensi ó n de la tragedia humana y que se refleja en la formaci ó n de las nuevas generaciones de actores/bailarines y de dramaturgos. Las patolog í as ponen en discusi ó n la entereza del hombre de dos dimensiones (material e in material). Alzan muros. Provocan aquellas resistencias sobre las que Grotowski ha dicho palabras extremadamente claras, indicando el camino para superarlas y vencerlas. El hombre despedazado está imposibilitado para cumplir el acto total de la creaci ó n artistica y a determinar combusti ó n de las paredes internas del cuerpo, pagando un precio alto en lo que se refiere a la producci ó n de formas cre í bles. La cuesti ó n, además de interesar directamente el actor/bailar í n y a llamar en causa las escuelas de teatro y de danza, interesa de rebote también al dramaturgo porque, como he dicho, es el actor/bailar í n, liberado del bloqueo del miedo, que piensa cuando escribe un texto lingu í stico.

La existencia de centenares de escuelas de teatro y danza impondr í a una reflexi ó n sobre la cualidad de la acci ó n formativa en campo. Una cosa es cierta: el teatro no necesita actores, directores o dramaturgos, sino hombres. En lugar de formar artistas, se necesitar í a formar hombres. Pero éste es otro tema. La revoluci ó n teatral del s. XX, eliminando la pedagog í a difundida t í pica del s. XIX seg ú n la cual el actor aprende por contacto, ha vuelto impracticable la formaci ó n articulada por materias y por géneros, sobre las cuales todav í a pierde tiempo la mayor parte de las escuelas p ú blicas y privadas del tercer milenio. Los motivos de impractibilidad son fondamentalmente dos. Primero, si falta el ambiente de referencia de las familias de arte, las materias no encuentran más una integraci ó n orgánica. Segundo, la práctica ignora al hombre total: o sea, separa lo que en cambio deber í a ser considerado en modo organico y unitario.

Los contenidos y las metodicas que se refieren al arte del actor del s. XX no entraron en los programas didácticos de las escuelas de teatro. Cuando empiezan a caer las primeras hojas del oto ñ o, sobre los muros de la ciudad aparecen manifiestos que ponen en fila una serie de palabras mágicas, se ñ uelos para ingenuos que garantizan la soluci ó n de cualquier tipo de problema. Las direcciones didácticas reclutan docentes entre actores y directores que, no encontrando trabajo, se reciclan como sedicentes maestros de impostaci ó n de la voz, comportamento escénico, movimento r í tmico, psicotécnicas y tienden a presentar una oferta muy abundante de materias, concentrandose en la cantidad más que en la cualidad del proyecto formativo. Creo de poder afirmar que la formaci ó n se mueve en general hacia un sistema triturado de ense ñ anza. Tantos docentes para tantas lecciones separadas y distintas. La formaci ó n que despedaza la didáctica, despedaza también el hombre. Cuando se separan cosas que deber í an ser afrontadas en modo unitario, se ignora el hombre en su entereza. No se necesitan diez o veinte docentes para trabajar con un grupo de actores/bailarines, que tienen poco que aprender y mucho que desaprender. Se necesita un maestro. Un maestro coadyuvado de dos colaboradores que, para poner un ejemplo banal, no ense ñ ar í a nunca la danza fundada sobre los estilemas coregraficos, cuando el alumno está trabajando sobre las acciones f í sicas y sobre la autosugesti ó n de los procesos organicos. No ensenar í a al joven actor/bailar í n a mirarse fuera , cuando esta aprendiendo a mirarse dentro . No estar í a a favor de la exterioridad de la forma sino de la organicidad de las formas. Giorgio Taffon ( Dramma.it, Rubriche, abril 2010) recuerda puntualmente que “los maestros del s.XX teatral, los Padres fundadores, nos han ense ñ ado que en escena se necesitan absolutamente dos condiciones para actuar: la precisi ó n y el control, y junto a ellas, la capacidad de ser aut ó nomos y originales y creativos, inclusive en el ambito predeterminado de la partitura. Precisa además que “no existe separaci ó n entre teatro actuado y teatro danzado” y que en el teatro danzado “es la técnica de las acciones fisicas a ocupar el primer lugar”.

 

La elecci ó n de la escuela, del maestro, de la metodolog í a de trabajo, no es ni neutra ni indeferenciada. Una escuela de teatro no es igual a otra, o un maestro igual a otro maestro, sobre todo un maestro no es igual a un docente. Un stage sobre la m í mesis no equivale a un stage sobre la biomec á nica o sobre los procesos organicos . Se requiere saber distinguir: individuar las diferencias en base a las estrategias que se quiere poner en acto y a los resultados que se quiere obtener. El maquillage, sosten í a Grotowski-, no es necesario para actuar. Si un actor quiere usarlo, nada puede imped í rselo y nadie puede dar por descontado el derrumbe de la arquitectura sobre la que se basa el punto de vista que lo ha indicado como superfluo. Esta bien el rostro maquillado, el rostro sin maquillage o la máscara, con la condici ó n de que se comprenda la relaci ó n entre la elecci ó n y los resultados conseguibles. La regular práctica tiende a hacer pasar el valor de una buena formaci ó n por cada tipo de teatro que no tiene en cuenta de un hecho fundamental, que hay contenidos y criterios metodol ó gicos diversos para diversas propuestas formativas, para diversos tipos de teatro destinados a diversos publicos. Es importante entonces que el joven actor/bailar í n no solo goce de la libertad de elecci ó n sino que sea consciente de la oportunidad y de la finalidad de la elecci ó n. ¿ Cuántos son hoy los maestros reconocidos? ¿ Existe una oferta p ú blica diferenciada de formaci ó n profesional, consciente de los problemas relativos a la transmisi ó n del saber? ¿ Por qué la formaci ó n del actor mira sobre todo hacia el “ espect á culo de entretenimiento ” contradiciendo el principio fundamental del pluralismo, que deber í a tener en buena consideraci ó n también otras formas de teatro? ¿ La cantidad corresponde a la cualidad? Mirando hacia oriente se continua a citar Stanislawski como maestro de psicotécnica y del trabajo sobre la memoria emotiva , olvidándose de la intuici ó n final relativa a las acciones f í sicas recogida y perfeccionada por Grotowski, que ha sempre reconocido su deuda con el maestro ruso. En el occidente se continua a citar Strasberg y a lanzar en término antagonista Meisner sin decir que la formaci ó n americana es un retorno remasticado de la psicotécnica stanislawskiana. Es dif í cil dise ñ ar un cuadro nacional de la propuesta formativa. Me limito a observar la formaci ó n a través de algunos libros de publicaci ó n reciente, buscando de recavar algunas l í neas de tendencia.

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2.- Meisner ha sido, junto a Lee Strasberg y a Stella Adler, uno de los fundadores del Group Theatre que abandon ó después para fundar una nueva escuela y un nuevo método. “En los tiempos del Group Theatre –escribe Meisner-, los actores hac í an esas que ven í an llamadas improvisaciones. Eran descripciones verbales y genéricas de aquella que nos parec í a mas o menos nuestra situaci ó n con la comedia. En práctica contábamos con lo que nos recordábamos de la historia usando palabras nuestras. Al final decid í que eran una absurdidez originada s ó lo del intelecto” ( Sulla recitazione, Dino Audino Editore, 1994). Justa intuici ó n que no obstante no encontr ó una adecuada soluci ó n opertiva. Luego de dejar el Group Theatre, Meisner decidi ó crear un ejercicio para los actores donde no existiera nada de intelectual: “Quer í a eliminar todo el trabajo que se hace con la cabeza, quitar la manipulaci ó n mental para acceder al nucleo de donde parten los impulsos”. Las bases de la ense ñ anza son dadas por la realidad que genera la verdad escénica. Y cuál sea este sentido lo explica preguntando a los alumnos si lo estan escuchando. Imaginémonos. Un coro de respuestas afirmativas. Claro que oyen al maestro, que insiste en saber si fingen o si escuchan verdaderamente. La aseguraci ó n ni siquiera se discute, más la afirmaci ó n segun la cual la realidad de la acci ó n esté en aquel ‘verdaderamente' suscita grandes perplejidades. ¿ Oigo, o sea, escucho? Por desgracia no es as í . ¿ Quién nos asegura que los alumnos verdaderamente digan la verdad? No niego que hayan o í do sus palabras, más no estoy seguro que las hayan escuchado. ¿ Y c ó mo se hace para escuchar de verdad? Esta es la cuesti ó n. Los alumnos invitados a escuchar cuántos coches pasan por la calle, responden. ‘ninguno', ‘he o í do un avi ó n', ‘no lograba o í r los coches, ‘los ruidos eran confusos, no lograba distinguir los ruidos de los coches'. Es evidente que antes han fingido escuchar al maestro. La que hab í a sido indicada como realidad de la acci ó n era en realidad una cáscara vac í a, una adulaci ó n, un acto volontario, una palabra que miente. Si no eran capaces de escuchar verdaderamente un coche, ¿ cuántas palabras del maestro habrán verdaderamente escuchado sobre la cuesti ó n de la realidad de la acci ó n? Pocas o ninguna. En un caso o en otro, la realidad de la acci ó n resulta decididamente inaferrable.

Repetir , ésta es la segunda regla sobre la que Meisner desplaza la ense ñ anza. “Repetir lo que siento decir me impide de trabajar con la cabeza. Si repito, cumplo un acto que no tiene nada de intelectual. Tienes el cabello brillante, tienes el cabello brillante, tienes el cabello brillante, tienes el cabello brillante… “No, grita el maestro, no deben agregar inflexiones. Es mecánico, es inhumano, pero es la base de algo, comenta dirigiéndose a una pareja de actores. Es vac í o, es inhumano, ¿ verdad? Y sin embargo, hay algo: hay una conexi ó n. Se estan escuchando uno al otro, ¿ es as í ? Esta es la conexi ó n. Es una conexi ó n generada de la escucha rec í proca, pero que no tiene ninguna cualidad humana –no todav í a”. Diciendo “no todav í a”, Meisner reenv í a al dialogo emotivo como efecto del contacto verbal. Si repito, no trabajo con la cabeza. Muy bien, no uso la raz ó n. Pero si no trabajo con la raz ó n, ¿ con qué trabajo? Deber í a trabajar con el cuerpo, con el cuerpo/mente, a partir de las acciones f í sicas, pero Meisner no es capaz de apreciar el valor de la lecci ó n final stanislawskiana. No trabajo con la cabeza, no trabajo con el cuerpo, ¿ entonces con qué trabajo? ¿ Repito las frases porque lo ha establecido el director de la escuela? Meisner, con la técnica del repetir sin inflexiones coge la importancia del est í mulo, pero se vara en el terreno de la actividad f í sica (no de la acci ó n f í sica ) como la mecánica repetici ó n de la frase ‘Tienes el cabello brillante'. La técnica de la repetici ó n es entonces inhumana e inorgánica en todos los sentidos.

Meisner está insatisfecho. Aporta una variaci ó n al método de trabajo. Pasa del repetir lo que siento al repetir lo que digo , y ejemplifica el pasaje con un ejercicio donde pide dinero prestado a un alumno. Repite la pregunta cinco o seis veces. Luego, al interlocutor mudo le grita ‘eres un taca ñ o'. Explica que el rechazo ha provocado un impulso que proviene directamente de la repetici ó n y que la frase ‘eres un taca ñ o' fue generada por este impulso. Pero en lugar de detenerse en el valor de este dato, dirige la atenci ó n a la reacci ó n verbal. Pide prestado y critica el silencio de su interlocutor, atribuyéndole un significado negativo. Quien calla otorga, se dice, o bien, quien calla no dice nada, pero ambas afirmaciones no son verdaderas. El actor que calla comunica con el cuerpo. Entonces, el problema es que Meisner no ha escuchado el silencio del interlocutor. Lo ha ignorado, concentrando su interés en el pasaje de una parte. (‘ ¿ Me prestas dinero?') a la otra parte (‘Eres un taca ñ o') quedando prisionero de la palabra. En otros términos, la interpretaci ó n del silencio como rechazo comunicado através de la parte depende del condicionamiento del teatro dial ó gico, que busca solamente la palabra para decir la parte, no dando por descontado que el silencio debe ser interpretado como rechazo del préstamo y que este rechazo (o sea, el significado) deba ser transmitido con la palabra. El silencio podr í a producir un gesto o un sonido inarticulado, o bien producir otro silencio, lleno, por ejemplo de la desconfianza suscitada de la inseguridad por la restituci ó n del dinero o por la evaluaci ó n de la disponibilidad financiera o por la sorpresa generada por la petici ó n improvisa del préstamo. En fin, los significados del silencio que habla podr í an ser tantos y tantas podr í an ser las sucesivas respuestas verbales o no verbales que pueden relacionarse con la necesidad de la comunicaci ó n, con la condici ó n que se comprenda, primero, que estar en silencio es una acci ó n f í sica; segundo, que la acci ó n f í sica deba ser oportunamente especificada y circunstanciada; tercero, que el est í mulo es externo y que por lo tanto produce un impulso. De esto nace una interrogante que Meisner ha dejado sin respuesta. Si diciendo el decible se requiere solo una palabra o una frase expl í cita ¿ c ó mo se puede comunicar el indecible ? Si para el decible la técnica del dialogo emotivo puede ser aplicable, para el indecible , el invisible y el impalpabile aparece decididamente inadecuada. En sustancia, Stanislawski se pon í a la misma pregunta cuando declaraba la propria insatisfacci ó n por los resultados que el método produc í a sobre los textos lingu í sticos complejos que llamaba de poes í a. Hoy sabemos que la centralidad de la acci ó n f í sica puesta en la base del proceso organico es determinante a fines de la comunicaci ó n del indecible.

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3.- En Italia, una l ínea de b ú squeda similar a la del maestro americano ha sido llevada a cabo durante mucho tiempo por Alejandro Fersen: hombre de cultura, director apreciado, autor de ricos escritos sobre las cuestiones candentes de su tiempo, al que ha sido dedicada recientemente Una jornada de estudio y un libro ( Ora fluente –Del teatro e del non teatro, Paola Bertolone, Titivillus 2009). Como Meisner, el maestro italiano funda la actividad formativa en la psicotécnica stanislawskiana. M á s tarde la abandona, teorizando una tercera vía que est á entre Brecht y Stanislawski y poniendo en pr á ctica técnica del control y técnica del abandono que han representado un paso adelante respecto a la psicotécnica, pero que lo han tenido ligado –como Meisner- al teatro tradicional y al area psicol ó gica de la b ú squeda. Fersen ha dedicado la ú ltima parte de su vida al mnemodrama y a los procesos de trance que se revelaron m á s adaptos a la performance que al teatro. En este á mbito “su b ú squeda radica en el psiquismo, no en contraposici ó n al corp ó reo sino m á s bien a su confín, o sea, en las manifestaciones pulsionales y en las im á genes emotivas del corp ó reo, donde nace la elaboraci ó n de la cultura, donde tiene sede el laboratorio de la memoria”.

4.- Un poco de oriente psicotécnico, una pizca de tradici ó n occidental, una cita del Dalai Lama mezclada a algunas referencias de Fromm, Freud y Lacan, un poco de Ginger, alg ú n ejercicio, mucha psicología y la escuela est á lista. En otro libro de publicaci ó n reciente el actor termina en el div á n del psicoanalista ( L'arte dell'attore, Mariagiovanna Hansen, Edizioni EDUP, Roma 2008), creando un enredo que suscita un estupor ind ó mito. En el prefacio se teoriza la “asunci ó n de m ó dulos operativos que debe necesariamente integrarse con la estructura de base psicol ó gica del alumno” y se agrega que las improvisaciones pueden en algunos casos interesar en modo destructivo mecanismos de defensa puestos como protecci ó n de un Yo fr á gil”, lo que quiere decir que necesitan de “una guía psicol ó gica confiada en manos expertas”. En el cuerpo del libro la responsable de la Escuela de teatro se apresura a declarar la propia fe en la psicoterapia como un camino aconsejable para quien sienta la exigencia de conocerse para desarrollarse y para expresar la propia creatividad. Con las invocaciones a la psicotécnica y a la memoria emotiva estamos a la mejor de las hip ó tesis en el primer Stanislawski mal digerido. Que la mayor parte de los cuerpos de los aspirantes a actor estén cargados de patologías m á s o menos graves es verdad; que los j ó venes tengan necesidad de un maestro reconocido para superar las bien conocidas resistencias , es cierto; pero que las patologías deban ser resueltas con el adquirir “una costumbre al analisis” no es respaldado de la tesis experimental de ninguno de los grandes maestros del s. XX. Al contrario, ha sido acertada la centralidad del trabajo sobre las acciones f í sicas.

Cierto que el teatro puede tener una funci ó n terapéutica, pero ¿ qué tiene que ver el teatro terapéutico para grupos de recién graduados en psicolog ía o personas con problemas de personalidad con el arte del actor? ¿ Y por qué poner juntos arte y psicología, llamando en causa Grotowski y Brook que nunca hicieron uso de pr á cticas psicol ó gicas o psicoanalíticas?

5.- También la formaci ó n dada a los j ó venes de las escuelas de danza aparece falsa, desviadora e inorg á nica. La mayor parte de los maestros funda la acci ó n formativa sobre la centralidad de las extremidades y el gesto mimético. Todos los ejercicios preveen una regla tajante: tener el busto rígido. Finalidad: la sensibilizaci ó n de los diferentes puntos articulados de los brazos. El mismo razonamiento para las extremidades inferiores . ¡ Pobre Decroux! El descubrimiento de la centralidad del cuerpo termin ó bajo el carro armado de una b ú squeda dirigida hacia los niveles alto, lateral y bajo de las extremidades superiores, fundada en la experiencia del movimento alternado de los brazos. Una pr á ctica que prepara al uso de las extremidades en funci ó n de un arte imitativa. Los brazos caen de arriba hacia abajo como las hojas del oto ñ o, los brazos se levantan y se bajan para indicar el vuelo de los p á jaros, las manos y los pies empujan para hacer saltar las ranas: y así todos los ni ñ os repiten los mismos gestos y movimientos. El colmo del estereotipo, ligado al estilema coreografico se llega con ‘los pasos de los animales'( Silvia Perelli, Insegnare danza ai bambini, Dino Audino Editore, Roma, 2007 ). Paso del tigre: un paso cada dos tiempos: un paso elegante ( ¿ qué quiere decir elegante?) y cauteloso ( ¿ qué quiere decir cauteloso?), menos pesado del elefante pero igualmente decidido ( ¿ qué quiere decir decidido?). Y para el paso del cazador del tigre se sugiere primero el apoyo de la parte delantera del pie y luego del tal ó n. Y lo mismo con los pasos del caballo y de las hormigas. De tales adultos, tales ni ñ os.

En el s. XIX se teorizava la poesía de los brazos y de las piernas. Hoy, después de Decroux, Grotowski, Jooss y Baush, para citar algunos grandes maestros, se debería ensenar a tener derecha la espina dorsal y relajados los musculos laterales que la sostienen; a considerar el tronco como centro del cuerpo y de la producci ó n de energía; a trabajar sobre las acciones físicas y sobre los procesos asociativos para desarrollar verdaderamente la cretividad individual y de grupo, la organicidad, la diferencia y la originalidad. Se debería ense ñ ar que no hay un modo, sino miles de modos de ser elegante, cauteloso, decidido; que antes de establecer por qué se camina y d ó nde se camina, o sea, individuar la necesidad que empuja al ser humano a caminar, la necesidad que tiene de moverse y de actuar. La sociedad de la barbarie galopante necesita ni ñ os que imiten a los adultos; de adolescentes listos a practicar el hedonismo en edad adulta; de j ó venes ligados a las convenciones y a los estereotipos.

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6.- “Teoría y técnica para vencer el bloqueo del actor y resolver los problemas de la actuaci ó n” es el título del director inglés Declan Donnellan ( Declan Donnellan, L'attore e il bersaglio, Dino Audino Editore, Roma 2007) . El bloqueo, se sabe, impide al talento de manifestarse. “El talento circula en modo natural, como la sangre. Debemos s ó lo remover el grumo que lo obstruye”, escribe Donnellan. Lo que se dice f á cil no es tanto facil de hacerse, sobre todo en consideraci ó n del hecho que m á s se busca de “salir del estancamiento m á s se empeoran las cosas” y también porque en la situaci ó n del bloqueo, se sabe, est á el lugar en donde se trabaja, la atm ó sfera difícil en el grupo, la mala relaci ó n con el director o el autor, m á s también aquellas resistencias sobre las que Grotowski ha pronunciado palabras inequivocables, provocadas por traumas o laceraciones de la vida cotidiana. Donnellan antepone que se necesita “distinguir entre lo que podemos cambiar y lo que no podemos cambiar”, precisa que el actor tiene un escaso control sobre lo que proviene fuera de él, mientras sobre lo que proviene de él mismo “puede tener un control siempre mayor” y confirma la tesis, ya consolidada, segun la que se deba trabajar desde el interior hacia el exterior, y no hacer nada por el exterior.

¿ Es posible ense ñ ar a actuar? La actuaci ó n es un misterio. Nadie tiene la varita m á gica para resolver los problemas referentes al arte del actor. Tal vez a los j ó venes que reciben formaci ó n se necesitaría decir que el mejor maestro es quien no tiene nada que ense ñ arles, sino la capacidad de ponerles en la condici ó n de aprender a desaprender. Objetivo estratégico fundamental: no exagerar los sentimientos. Y para no exagerar los sentimientos es esencial no tratar el personaje como organismo vivo, sino como un lexema, o sea, lo que es efectivamente. Por desgracia, la formaci ó n por géneros, la santificaci ó n de las técnicas que implican la dependencia del sujeto actor del sujeto director, la pr á ctica mortal de la transformaci ó n de la palabra escrita en palabra hablada, la tendencia a la mímesis son las causas que determinan el fen ó meno de contig ü idad entre la “primera naturaleza” (la imitaci ó n de los adultos) y la “segunda naturaleza” (la imitaci ó n de la realidad). En este pasaje se termina por “sentir” el personaje, atribuyéndole sentimientos y psicologías.

Al trabajo de los sentimientos Donnellan dedica un capítulo intitulado “Qué siente mi personaje”. La respuesta dirigida a la actriz que debe interpretar Julieta es la siguiente: “Es peligroso para Irina preguntarse qué esta probando Julieta. La pregunta es obvia y generosa pero sofoca el espíritu. La pregunta est á contaminada de la s ú til vanidad de poder ser totalmente seguro de lo que probamos. Pero si no puedo estar seguro de lo que pruebo yo, ¿ c ó mo puedo estar seguro de lo que podría probar Julieta?” Conclusi ó n: la pregunta “no tiene una respuesta pr á ctica”, por lo que es inutil que Irina se la ponga. Y entonces ¿ qué debe hacer la actriz? Debe recorrer al “blanco” (1) .

Luego de haber declarado que “el impulso del actor est á ligado a dos específicas funciones del cuerpo: los sentidos y la imaginaci ó n” y aclarado que “son la primera antena para explorar el mundo externo”, Donnellan introduce el tema del “blanco” precisando antes que todo lo que no es. “El blanco no es ni un objetivo, ni un deseo, ni un proyecto, ni una raz ó n, ni una intenci ó n, ni un fin, ni un punto de focalizaci ó n, ni una motivaci ó n”, siendo las motivaciones derivantes del “blanco”. El blanco puede ser real o imaginario, concreto o abstracto, mas la primer regla inquebrantable es que, siempre y sin excepci ó n, debe existir un blanco”. Y pone algunos ejemplos: Pongo en alerta Romeo – Bromeo con la ni ñ era - Abro la ventana. La naturaleza del blanco cambiar á de vez en vez. La elecci ó n es enorme. Pero sin el blanco, el actor no puede hacer absolutamente nada, en cuanto el blanco es para el actor fuente de vida”. Lo que da lo recibe en cambio, como el amor, que es energía. ¿ D ó nde est á el blanco? Esta en el exterior. ¿ Cuando existe? Existe todavía antes que el actor lo necesite. En lugar de sentir qué debe hacer el actor? Debe haber el blanco. ¿ C ó mo? En modo específico y detallado. No siempre y siempre en el mismo modo. El blanco es m óv il y modificable, est á en continua transformaci ó n, siempre en acci ó n. El blanco es como la comida, nutre al actor y le da energía. No existe “un recurso interno de energía”, porque “toda la energía proviene del blanco”, repite Donnellan. La energía depende de la atenci ó n que se da al blanco. M á s vemos en el escenario m á s veran los espectadores. Contrariamente: “M á s sentimos, y m á s in ú tiles resultar á n las palabras y m á s descriptivamente sentimental y psicol ó gica resultar á la interpretaci ó n”.

Donnellan toma distancia de los santones americanos (Strasberg, Meisner y Hagen) que han fundado la ense ñ anza en el transferimiento de los sentimientos y coloca el blanco en el centro del arte de la actuaci ó n, precisando que “el actor no puede decir un verbo sin el Objeto Directo”. Toma el verbo ser, nos dice: “Irina no puede actuar el hecho de ser feliz, triste o enojada”, sino con el riesgo de producir un cliché, formas muertas, algidas y rechazables. “El actor puede actuar solamente los verbos –agrega-, con la condici ó n que éstos dependan de un blanco, que es una especie de Objeto Directo, una cosa específica, vista o percibida, y en cualquier modo deseada”, que empuja al actor a partir de sí mismo: no por s í mismo, no por el exterior.

Sobre la cuesti ó n de la divisi ó n del tiempo –determinada del Miedo que asalta al actor bloqueado, Donnellan dice que el Miedo divide el tiempo presente en “dos falsos niveles temporales” que se llaman pasado y futuro . Es en estos lugares que se refugia y prospera el Miedo: “gobierna el futuro en forma de ansia y el pasado en forma de sentimento de culpa”. Obtiene que el Miedo se cura solamente con el presente . Y el mejor presente es obviamente el blanco, el Objeto Directo, no el verbo, o sea la acci ó n física. Siempre en el tema del bloqueo Donnellan dedica un capítulo muy interesante a la “puesta en juego” que “sirve para ofrecer la mejor vía de fuga liberatoria”. Luego de haber precisado que “las puestas en juego no son algo vago ni confuso, sino que son específicas y siempre emparejadas”, prefigura –tomando en examen Julieta en “dos” (escaparé con Romeo, no escaparé con Romeo), o sea en una pareja de valores opuestos y contrarios. Se trata de una regla de interés relevante que libera energía vital, ayuda al actor a salir del bloqueo, incide favorablemente sobre la credibilidad e imprevedibilidad de las formas.

Con la modalidad de trabajo sobre la actuaci ó n que tienen como protagonista absoluto el blanco, Donnellan dice que el actor es el que “interpreta”. Con la modalidad de trabajo sobre el arte del actor fundada en el método de las acciones físicas se puede decir que el actor es el que hace y que el personaje es el que lo hace ser actor y el director. Hay una diferencia entre las dos metodologías de trabajo? Creo que sí. La primera me parece sobre todo funcional a las formas de teatro fundadas sobre el principio de discursividad mientras la segunda a las exigencias del teatro que se inspira al principio de la totalidad, o sea al acto total del actor. Un acto que es un evento. Un evento que regala el estupor de la transformaci ó n del cuerpo. Un cuerpo que produce pensamiento y afirma la dualidad de la naturaleza y de la cultura humana. Una dualidad que reconoce valor al saber y al no saber, que encuentra sustancia en la amalgama linguística heterogénea, que se manifesta através de la pluralidad del lenguaje, que entrelaza comunicaci ó n clara y comunicaci ó n oscura.

(1) Tiro al blanco es un deporte, ejercicio o juego que consiste en lanzar con un arma o alguna cosa a un punto predeterminado, el blanco.