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Il Festival Internazionale di Teatro Sens Interdits di Lione

di Letizia Bernazza

Memorie, Identità e Resistenze

Esattamente due anni fa, consegnavo ai lettori di Liminateatri la mia testimonianza sul Festival Sens Interdits di Lione.

Dopo aver pubblicato Frontiere di Teatro Civile (Editoria&Spettacolo, 2010), volto a investigare il fenomeno del Teatro Civile in Italia, mi ero recata nella città francese per sviluppare un Progetto Europeo con l'obiettivo di verificare l'esistenza di un Teatro capace di illuminare il nostro presente e prefigurare il nostro futuro in sintonia con i costanti mutamenti sociali e politici. Soprattutto, volevo capire se nella realtà europea ed extra europea si poteva parlare di Teatro Civile, individuando differenze e similitudini con il nostro Teatro Civile.

Purtroppo, la miopia delle istituzioni italiane preposte a favorire lo scambio culturale con altre realtà, mi ha impedito di concretizzare la mia idea. Tuttavia, non ho voluto arrendermi e quest'anno sono tornata a Lione per la terza edizione del Festival (23-30 ottobre). Mi auguro che dalla relazione istituita con il direttore artistico della ricca kermesse Patrick Penot e con i suoi collaboratori più stretti, Marc Lesage e Claudia Stavisky, nascano stimoli futuri.

Nell'ottica di evidenziare la forza e l'importanza della rassegna, pensata per dare voce a compagnie, registi, autori, attori, che ogni giorno nei loro Paesi costruiscono, con il Teatro, un'alternativa concreta per la libertà d'espressione, quest'anno ho voluto che la mia corrispondenza da Lione fosse più articolata.

Intanto, per definire le linee generali delle proposte drammaturgico-espressive ed evidenziare le motivazioni della grande adesione del pubblico lionese. Poi, per restituire ai lettori le mie impressioni su alcuni degli spettacoli ai quali ho partecipato: Bussy Monologues , delle egiziane Mona El Shimi e Sondos Shabayek; El Ano en que Nací , di una compagnia di giovanissimi attori cileni diretti dalla regista russa Lola Arias; Je suis , della russa Tatiana Frolova. Infine, per documentare direttamente con le parole di Patrick Penot il senso profondo di Sens Interdits e il suo impatto sulla comunità locale e internazionale.

Il Festival ha lo scopo di sostenere e diffondere un Teatro d'impegno che trova terreno fertile laddove è più forte il bisogno di agire per contrastare contesti sociali e politici fondati sulla logica della repressione, della censura e sulla volontà di soffocare l'Identità e la Memoria collettive. La pratica scenica diventa un'alternativa: gli artisti, che di quella comunità fanno parte, si mobilitano, si mettono in gioco, creano luoghi fisici e “spazi mentali” in cui entrare in contatto con gli altri per stabilire legami e relazioni, per stimolare riflessioni e azioni. L'arte del Teatro - alimentata dall'energia viva dello scambio attore-spettatore nel qui e ora della messinscena - viene scelta come via d'uscita, come soluzione possibile per contrastare lo status quo dei poteri forti. E quando parlo di poteri forti, intendo compagini governative senza scrupoli pronte a reprimere in qualsiasi modo chi le osteggia. Essere una di quelle voci oggi in Egitto o in Russia, ad esempio, vuol dire infatti assumersi il rischio di sacrificare la propria vita in nome della difesa dei diritti umani, della responsabilità civile e della partecipazione sociale. Ed è questo il lavoro costante testimoniato dai protagonisti di Sens Interdits . Per loro il Teatro è un atto politico, un processo costruttivo e trasformativo. È il mezzo per comprendere il reale; per superare conflitti derivanti da paure, incertezze, disagi; per riannodare il legame Individuo-Società; per provare a modificare l'ordine costituito con la prospettiva di una ri-creazione del luogo pubblico. Un luogo condiviso e di comune appartenenza in cui ri-fondare l'integrità dell'Uomo a partire dalla tutela dei valori democratici della solidarietà, dell'uguaglianza e della libertà.

Nasce da questa urgenza la forza degli spettacoli proposti. Tutti di grande livello artistico. Mai banalmente autoreferenziali. Efficaci. Costruiti con solidi impianti drammaturgici e con un serio lavoro d'attore che sono quasi una rispettosa e dovuta protezione per i temi trattati. L'esperienza extra-quotidiana del Teatro si apre alla quotidianità del Mondo con straordinaria elegia, visionarietà, e lo spettatore si ritrova a condividere percettivamente ed energicamente l'eccezionalità di un evento che lo predispone prima alla partecipazione e poi alla comprensione nei confronti di quanto mostrato e/o evocato sulla scena. Il Teatro funge da “ponte” con la comunità, con un linguaggio che sa sedurre, incantare, risvegliare la fantasia anche quando ad essere narrati sono fatti di atroce e di inaudita violenza. La quotidianità è trascesa, elevata, e il reale viene riammesso nell'immaginario collettivo, ripulito dalle scorie impure della sopraffazione e da comportamenti prevaricatori come quelli esercitati durante gli anni della dittatura di Pinochet in Cile, dal regime autoritario di Putin in Russia o dalle oligarchie militari in Egitto. Le voci e i corpi degli attori si offrono con la loro estrema semplicità allo spettatore: documenti e testimonianze si intrecciano a sguardi pieni di emozione, a movimenti e gesti degli interpreti che liberano i loro corpi fino a superare con insolita e poetica leggerezza quel carico di pesantezza che soltanto gli esseri umani sanno imporre ad altri esseri umani. Ed è così, in una comunicazione diretta e di patrimonio comune, imbevute di verità e di incredibile delicatezza creativa, che il Teatro riaccende la relazione, le tensioni etiche, ideali, progettuali e consolida il pensiero critico dello spettatore fino ad affermare la funzione politica del Teatro. Il suo essere uno dei luoghi privilegiati del dibattito attivo in seno alla collettività per oltrepassare l'individualismo e ritrovare l'identità comunitaria e la coscienza civile.

È talmente forte questo messaggio che la potenza del significato del concetto di collettività si estende oltre le semplici demarcazioni geografiche. Il dialogo inter-culturale penetra nelle pieghe della città di Lione e in quelle della Regione Rhône-Alpes. Per espresso volere di Patrick Penot, Marc Lesage e Claudia Stavisky, Sens Interdits si trasforma in un Teatro dell'Urgenza, in grado di avviare processi di conoscenza e di aiutare le giovani generazioni a costruire un futuro diverso.

Due anni fa, pensavo che il Festival fosse un fenomeno sostenuto dalla curiosità del pubblico lionese nei confronti di contenuti ed esperienze “altre”, nuove, rispetto all'ordinaria programmazione del Teatro municipale dei Célestins. Oggi posso affermare con certezza che il grande coinvolgimento della gente ha le sue radici nelle attività costanti svolte sul territorio da Patrick Penot e dal suo staff. Il Teatro dei Cèlestins è presente nelle scuole, in spazi ricreativi, in centri sociali, intessendo una rete capillare di scambi che favorisce naturalmente la partecipazione e l'interesse dei cittadini. Ed è per questo che durante il Festival essi accorrono numerosi. Giovani e meno giovani affollano platee, mostre, incontri con artisti, presentazioni di libri. E per loro non fa differenza se un evento viene proposto in centro o in periferia. Quest'anno, infatti, a differenza della scorsa edizione, Sens Interdits ha privilegiato circuiti lontani dal cuore pulsante della città. Una scelta dettata dal voler “presidiare” aree marginali dove è meno diffusa la frequentazione delle sale teatrali. <<Se la gente non viene a teatro>>, chiosa Penot, <<abbiamo deciso di andare noi da loro. È un grande sforzo, ma è il nostro modo per resistere>>.

 

Gli spettacoli

Bussy Monologues, El Ano en que Nací , Je suis hanno un filo rosso che li lega: tutti e tre sono diretti da donne, tutti e tre sono incentrati sulla difesa della Memoria e dell'Identità, tutti e tre sfidano silenzio, oblio e incomunicabilità.

In Bussy Monologues sono le donne comuni a confessarsi, a fissare sulla carta vicende personali, ricordi, sensazioni. Il racconto in prima persona le rende protagoniste e avvia una rottura nei confronti della realtà politica, fortemente autocratica, e del pensiero islamico, che pone con intransigenza le donne in uno stato di minorità, limitando l'uguaglianza di genere sulla base della sharia. A cominciare dal 2006 e per i cinque anni successivi, El Shimi e Sondos Shabayek hanno messo insieme oltre cinquecento storie.

Nella messinscena, sono rimaste ovviamente quelle più efficaci dove maggiore è la forza con cui viene espresso il desiderio di rovesciare la subalternità della donna in famiglia, sul lavoro, nelle relazioni private. Le due artiste vestono i panni di ciascuna di esse: pochi oggetti (qualche scatola, stoffe colorate, parrucche e un simbolico manichino nudo di donna) servono a farle entrare e uscire dai personaggi interpretati, offrendoci in poco più di un'ora uno spaccato autentico e appassionante della società egiziana contemporanea. È sostando nella “precarietà” del territorio, segnato dal “limite” Io-Non Io (testimone-attore, realtà-scena), che le due attrici, con una energica presenza vocale e gestuale, riescono a toccare nel profondo lo spettatore e a spingersi oltre la rappresentazione teatrale. Storie di maltrattamenti consumati tra le mura domestiche, di matrimoni combinati, di violenze sessuali rimaste impunite, di adolescenti sottomesse a padri-padroni si susseguono con un ritmo serrato e fanno da sfondo ai filmati che scorrono su un televisore posto al lato della scena. Le immagini immortalano le due attrici sulla metro de Il Cairo, nei vagoni riservati alle donne, mentre cercano di coinvolgerle a raccontarsi. Molti sono i cenni di palese disapprovazione contro le artiste. Altrettante sono le risposte positive di condivisione per i fatti narrati, che tuttavia sembrano essere senza soluzione a guardare le numerose passeggere in lacrime. In Bussy Monologues , il campo dell'esperienza del reale viene scavalcato: le incursioni nella vita di tutti i giorni servono a sostenere una presa di coscienza, verosimilmente irrealizzabile al di fuori dello spazio scenico. E questo perché la denuncia, senza sovrastare mai la magia dell'atto teatrale, traccia il laborioso processo creativo dello spettacolo. I travestimenti di El Shimi e Sondos Shabayek e le loro ferme affermazioni contro le molestie sulle donne, non possono non generare disapprovazione nello spettatore. Tant'è che le istituzioni governative hanno penalizzato pesantemente le due interpreti, fino a costringerle a mettere in scena lo spettacolo nel garage dell'Opéra de Il Cairo e a tagliare gran parte del testo dopo la prima replica. <<Abbiamo avuto nell'ordine, la visita della Polizia della Moralità, della Polizia del Turismo, della Sicurezza di Stato e del Corpo della Censura>>, dichiara Sondos Shabayek, <<ma la cosa ancora più interessante da sapere è che essi sono venuti a cercarci spinti dalle lamentele di alcune persone, offese dalla messinscena e dal fatto che certe questioni non andavano affrontate in pubblico>>. La censura, infatti, è politica e sociale. <<E, forse, quest'ultima>>, continua la Shabayek , <<è ancora più preoccupante della prima>>. Stare tra le persone, parlare con loro e provare a instaurare una possibile condivisione, resta così l'unica alternativa possibile. L'attrice - già giornalista indipendente che con le sue corrispondenze su Twitter e su Facebook da Piazza Tahrir ha documentato la protesta del 2011 contro il Presidente Hosni Mubarak - cerca allora l'appoggio dello spazio pubblico Shawarena e del collettivo multiculturale Mahatat che lo gestisce. Con loro si adopera per promuovere ogni giorno l'accessibilità, il decentramento e la “mobilità” dell'arte nella collettività.

Dall'Egitto al Cile. Da Bussy Monologues a El Ano en que Nací la comunanza tematica non sfugge. Come si diceva, è la Memoria - unita al concetto di Identità - il centro propulsore degli allestimenti. Con un'unica differenza: nel primo caso, complice la situazione politica egiziana degli ultimi anni, le due artiste fissano la loro attenzione sul presente vissuto in prima persona; nel secondo caso, invece, è il passato a incombere sul presente di un'intera generazione che subisce ancora oggi gli effetti della dittatura militare di Pinochet (1973-1990). Sulla scena, undici giovani cileni, nati tra il 1971 e il 1989, rivivono i diciassette anni del regime attraverso il destino dei loro genitori.

I frammenti di vita dei singoli ricompongono via via la storia del Cile: video e musiche dell'epoca, lettere private e ricordi, foto e articoli di giornale accompagnano lo spettatore dalla risoluzione del 22 agosto del 1973, quando il Congresso cileno destituì il Presidente Salvador Allende, fino al ritorno della democrazia, 11 marzo del 1990, giorno dell'elezione del nuovo Presidente Patricio Aylwin. A turno, con l'anno di nascita stampato dietro la schiena, ciascun interprete si presenta di fronte alla platea per offrire la propria sfera più intima, oltraggiata in maniera indelebile dai soprusi subiti dai loro familiari. Sono monologhi spezzati come spezzata è l'intera generazione, erede di padri e madri esiliati, scomparsi, costretti all'isolamento sociale e politico, impazziti a seguito delle torture sopportate. Anche per questi giovani ragazzi, molti dei quali non sono attori-professionisti, il Teatro è lo strumento per ricordare, denunciare, smascherare, riappropriarsi di un passato che li influenza e li condiziona. La struttura della messinscena ha tempi veloci, contraddistinti dall'alternarsi di aneddoti personali ed eventi storici, richiamati dalle date gravose che portano iscritte sui loro corpi. El Ano en que Nací non concede evasione né vuole rassicurare lo spettatore.

Tranne pochi momenti, duranti i quali scene collettive e brevissimi dialoghi, allentano la tensione con gag divertenti e battute sulla figura di Pinochet. D'altronde, se si rappresentano avvenimenti tanto drammatici, ha poco senso imbastire una pièce tranquillizzante. Sarebbe un ulteriore tradimento nei confronti della Storia. Soprattutto se le cifre riportate hanno il sapore amaro di una carneficina, di un attentato sistematico alle fondamenta dei Diritti dell'Uomo: più di 3200 tra morti e “scomparsi”; circa 28000 persone arrestate e torturate; quasi 200000 esseri umani costretti all'esilio. Eppure, la sfida della regista Lola Arias è stata di far assumere agli eventi reali le sembianze di pezzi di vetro in un caleidoscopio con un solido equilibrio tra concreto e immaginario proprio per dare maggiore efficacia alle narrazioni dei protagonisti. Gli accadimenti veri – di incredibile similitudine con quelli della dittatura argentina, già ispiratrice dello spettacolo della Arias sui desaparecidos, Mi vida después – non predominano mai sul linguaggio teatrale e sulla presenza dell'attore. Consapevole che l'oggettiva restituzione delle cose rischia di ridurre la complessità degli avvenimenti, la regista traghetta ideologie e utopie con l'incantamento del Teatro e la partecipazione del pubblico. Gli interpreti spronano di continuo gli spettatori e, chiedendo la loro approvazione o disapprovazione, reclamano prese di posizioni, emozioni, sentimenti. Ne sono la prova nel finale, le confessioni a tu per tu che essi riservano alla platea di astanti. Si tratta di una resa dei conti: ciascun attore fa il bilancio della sua vita. Chi ha ritrovato i genitori, ormai ridotti a larve inaffettive; chi li ha cercati invano senza rintracciarli mai; chi afferma di essere stato allontanato da padri e madri che hanno appreso il percorso teatrale, ritenuto pericoloso, dei figli; chi ancora, dopo tanti anni, stenta ad avere una maternità o una paternità certe. Vi assicuro che da spettatrice è stato difficile mantenere il distacco emotivo; più naturale è stato, invece, essere solidali con le vicende raccontate. El Ano en que Nací è riuscito a penetrare fra la gente, sfidando l'egocentrismo e riconoscendo il valore del Soggetto in perenne relazione con altri Soggetti. Ha superato l'Individualismo in nome della Collettività.

Tra i lavori visti a Sens Interdits , ad attrarre il mio interesse è stato sicuramente Je suis del Teatr KnAM. Il gruppo è nato nel 1985 nella città Komsomolsk–sur-Amour, nell'estremo oriente della vasta Federazione russa, e vanta il primato di essere la prima compagnia indipendente dell'epoca sovietica. A dirigerla la regista Tatiana Frolova, la quale da quasi trent'anni produce i suoi allestimenti in un piccolo appartamento messo a disposizione dalla municipalità di Komsomolsk-sur-Amour nel periodo della perestroika di Michail Sergeevic Gorbacëv Il Teatr KnAM, da allora, non ha mai ricevuto sovvenzioni pubbliche o finanziamenti privati.

È un collettivo - composto oggi da cinque persone tra i quaranta e i cinquant'anni - che provvede al proprio sostentamento e si autogestisce. L'appartamento è il loro quartiere generale, la sala prove e lo spazio dove vengono presentate le messinscene per un massimo di ventotto spettatori alla volta. La storia del Teatr KnAM e l'origine di Je suis sono difficili da separare da Komsomolsk-sur-Amour. La città, a ottomila chilometri da Mosca, secondo la versione ufficiale è stata edificata dai Komsomol , l'Unione comunista della gioventù, organizzazione giovanile del Partito Comunista dell'Unione Sovietica, ma in verità essa è stata costruita da migliaia di prigionieri dei Gulag deportati dalle province russe. Città, dunque, intrisa di sangue e di lacrime; di freddo e di fame; di bugie e di oblio. In Je suis , Tatiana Frolova fa dialogare due piani narrativi differenti: uno, più universale, che porta alla luce verità storiche, contraddicendo il punto di vista di uno Stato propinatore di menzogne; l'altro, più privato, incentrato sul problematico rapporto istituito con una madre malata di Alzheimer la cui progressiva demenza le toglie la capacità di riconoscere e di riconoscersi. <<Chi sono io se non mi riconosci?>>, <<Chi sono io se non mi riconosco nei luoghi in cui vivo?>>, <<Chi sono io se non ricordo i miei antenati e quello che hanno vissuto?>>. Domande ripetute nello spettacolo fino allo sfinimento con un'intensità espressiva che pretende un'unica simbolica risposta: avere il coraggio di rifiutare la perdita della Memoria in nome della ricerca ostinata della Verità. Tuttavia, è proprio lo sviluppo armonico dei due piani a non bloccare la messinscena soltanto nella direzione di un “dramma a tesi”, sebbene il lavoro quotidiano di Tatiana Frolova e dei suoi attori vada verso un Teatro documentario dal chiaro impegno politico. Je suis è uno straordinario patchwork di interviste, testimonianze di anziani, donne, bambini ai quali si intrecciano i ricordi personali degli interpreti e brani dell'opera Livre de l'oubli dello scrittore Bernard No ë l.

Un testo chiave per la Frolova che dalle riflessioni dell'intellettuale francese - scritte nel 1979 e rese note ai lettori nella recente pubblicazione del 2012 – estrapola il concetto dell'oblio come sfida al controllo del potere. La dimenticanza è il “grado zero” che permette di rifondare la Memoria. Un processo irrazionale e informe che per l'autore trova consistenza nella parola scritta e per la regista nella “parola detta” in scena. Ai monologhi degli attori è affidato il compito di rimettere insieme stralci di biografie, alberi genealogici, pezzi di storia nel labirinto della malattia e della menzogna. La rinascita è un'epifania di corpi e di voci che si incontrano e si scontrano nel ritmo incalzante dell'alfabeto: A, come Atti; B come Biografia; P come Pazienza; V come Violenza. Lettere che veicolano concetti e che danno forma a esistenze e situazioni altrimenti sconosciute. Separati dalla platea da un pannello velato, i tre interpreti (Elena Bessonova, Dmitry Bocharov e Vladimir Dmitriev) con un prodigioso lavoro artigianale - ottenuto manovrando semplici pezzi di corda, giocando con piccoli e grandi specchi, utilizzando vernici e spugne - fanno apparire e scomparire volti di anziani malati; figure stilizzate dei gulag-prigione; imponetti gasdotti. Le immagini del falso progresso industriale e le parole degli interpreti infrangono la Storia, i cui “vuoti” di Verità la rendono incomprensibile persino ad un bambino, che dallo schermo di un video chiede conto di fatti che non capisce. È, infatti, nel dichiarato rispetto delle nuove generazioni, le uniche a potersi assumere la responsabilità del cambiamento, che il Teatr KnAM porta avanti la propria attività di contestazione, mettendo a repentaglio la sopravvivenza del gruppo e le vite stesse dei suoi membri. E d'altronde quando ad essere attaccati sono i meccanismi di una Politica corrotta o l'amministrazione costrittiva di Putin è prevedibile avere ritorsioni.

L'unica arma per fermarle è smuovere le coscienze e trovare altri compagni d'avventura. Il Teatr KnAM appoggia, ad esempio, il collettivo punk russo femminista delle Pussy Riot che opera a Mosca sotto rigoroso anonimato. I loro brani musicali fanno da sfondo a molte parti di Je suis e si uniscono al dissenso palese contro l' establishment politico e istituzionale , mettendo sotto accusa la condizione femminile e i presunti brogli elettorali , con cui, nel 2012, il primo ministro Vladimir Putin si sarebbe assicurato la rielezione per la seconda volta a presidente della Russia . Le loro canzoni sono agghiaccianti grida di rivolta. Tracce da inseguire, simili a quei frammenti di giornali che, nel finale dello spettacolo, riempiono lo spazio scenico per esporre altre verità che arrivano al cuore e lasciano senza parole.

Le foto degli spettacoli sono state riprese dal sito del Festival: www.sensinterdits.org