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Quante danze
Temperatura nell'universo coreografico italiano

di Paolo Ruffini

 


crediti fotografici di Claudia Pajewsky


Chiude l'anno e stando alla dose massiccia di presentazioni in vari festival o in sporadiche occasioni nelle stagioni dei teatri, possiamo dire che la produzione coreografica italiana è viva e vegeta. Nonostante ciò e al di là delle considerazioni personali, di cui poco importa a qualcuno, e in misura più o meno relativa al sistema della danza nazionale, che non guizza certo per intelligenza perché troppo spesso imbrigliata nel consolidare il consolidato, dobbiamo purtroppo riconoscere che lo spazio che la danza continua a rosicchiare rimane esiguo e minoritario. Minoritario è il termine ‘estetico' che più si addice a un'area, anzi la connota forse politicamente, la definisce anche quando le esperienze ‘fuori formato' o ‘indisciplinate' (come le chiosava sul finire degli anni Novanta Jean-Marc Adolphe), solitamente rintracciabili nel solo alveo della riserva indiana, si affacciano sempre più alla ribalta del mainstream . Ecco allora la corsa ad accaparrarsi il giovane artista di turno (un po' come è successo nel teatro e non succede più, forse perché il teatro soffre un endemico prolasso di scrittura per la scena), soprattutto all'esasperante promozione dei ‘soli' che costano poco e poco impegnano gli autori. Le forze in campo agitano lo spauracchio della perdita di peso del ‘prodotto' danza e dunque l'indagine sui linguaggi rimane ancorato a un pensiero storicizzato, è fermo lì dove si accudiscono i figliocci di scuderie ufficialmente riconosciute come tali (o immaginarie, come nel caso di quei centri di produzione per la danza inesistenti ma con un forte potere contrattuale), quei coreografi-danzatori che hanno allevato nidiate e nidiate di danzatori che stanno provandosi come ideatori in proprio ma non fanno altro che ripetere la lezione a memoria, senza sobbalzi di arditezza. Danzatori interessanti, persino eccellenti in alcuni casi, ma decisamente problematici quando si tratta di interrogare il loro lavoro dal punto di vista coreografico, di concezione registico-drammaturgica dello spettacolo che vada oltre il lavoro su se stessi o la patetica novella da raccontare. In questo panorama, qua e là rintracciamo delle matrici e degli sguardi capaci di proiettare l'universo presente, così magmatico e inquieto, così disilluso dalle retoriche della forma, a portata di mano di uno spettatore non assopito. L'universo presente con tutte le sue implicazioni etiche, politiche, sociali. Alcuni stanno lavorando sulla scomposizione per riappropriarsi del gesto come segno, tra questi Michele Di Stefano mostra non poco coraggio nel ripensare il punto di arrivo del suo precedente Robinson , dove l'equilibrio fra senso e forma aveva raggiunto una perifrasi linguistica di grande spessore. Eccolo alla prova con il nuovo straordinario Bermudas (visto all'Angelo Mai di Roma), dove siamo disposti con sedute direttamente nello spazio dell'azione, un rettangolo di sedie con aperture ai lati che fungono da entrate e uscite dei danzatori, quasi uno stare addosso all'opera. Cambiano i protagonisti di volta in volta intorno al nucleo storico della compagnia MK, sembrerebbe la metafora di un ulteriore spiazzamento postcoloniale, mentre invece il lavoro va ad occuparsi di caos, casualità e ripetizione, riflesso interno al movimento e rifrazione di ciò che ci sta attorno. È chiaro nel presupposto l'intenzione di rimarcare l'archiviazione di alcuni, ricorrenti tratti coreografici. La spazialità si amplifica di ‘comportamenti' in dialogo con il tessuto sonoro, con dei ‘soli', duetti, formazioni allargate, oppure guidate da uno dei danzatori nei confronti del quale gli altri cercano una voluta non uniformità del movimento. Nella ripetizione ossessiva dell'ensemble ritroviamo quella cifra ormai indelebile del coreografo. Un'altra ‘compositrice' della scena, singolare regista e depositaria di un sapere non scontato, Cristina Kristal Rizzo è quella figura capace di non bastarsi mai dei territori conquistati, spingendosi verso una continua ricerca nel disattendere prima di tutto se stessa. Nel nuovo progetto si misura con due totem novecenteschi, lo Schönberg di Verklärte Nacht e la Serenata in do maggiore per archi di Cajkovskij, due parti di uno stesso programma che ha per titolo VN Serenade (visto al LAC di Lugano), spettacolo bellissimo concentrato sull'unitarietà della forma a trasfigurare la relazione prima a due e poi dell'insieme degli interpreti, puntualizzando le possibilità di movimento indagate già dal precedente Prélude e che oggi trovano una sintesi perfetta. La stessa Rizzo, lasciando spazio ai suoi danzatori ritagliandosi la sola interferenza di un cameo, la vediamo in stato di grazia nel muoversi.

 


crediti fotografici di Claudia Pajewsky


crediti fotografici di Claudia Pajewsky

Di tratto estremo parliamo anche per l'ultimo lavoro di Enzo Cosimi (visto al Teatro India di Roma), anello mancante di una trilogia arrivata a disinnescare il disequilibrio fisico e il racconto di cui sono portatrici tre figure in quell'assunto che è per il coreografo parlare del dolore. Lo spazio dell'assenza, la perdita della centralità del discorso morale e coreutico, la visione come puro atto reale che sposta le motivazioni del voler-dover fare arte in questo momento. Il ruolo dell'artista. Per farlo Cosimi recupera il fantasma di Kafka, lasciandosi alle spalle l'idea della confezione dello spettacolo, anzi le tre performer eccellenti che fanno da coro e da controcanto al pensiero di Cosimi, si fanno concrezioni dell'umano e del macchinico di questo Thanks for hurting potente e metamorfico che poco lascia all'immaginazione, tutto è lì a disposizione dello spettatore, quasi una rinuncia all'atto oltre la vita, nell'essere una imperfezione della vita. Ma la danza ha anche avuto il suo momento di gloria questo autunno, cadeva infatti il biennio del New Italian Dance Platform svoltosi a Gorizia nei teatri e negli spazi ‘inconsueti' di una città metafisica, così tanto territorio che guarda i Balcani e italiano allo stesso tempo, incastonata nella sua storia di confine, bellissima e immutata e abbandonata all'imperitura stagnazione della cocente crisi di identità patria. Qui le istituzioni e i centri della danza hanno dato il meglio di sé, senza porsi minimamente il problema di una questione linguistica che una volta chiamavamo ‘contemporaneo', carezzando l'idea che il resto dell'Europa potesse bersi qualsivoglia si mostrasse. Di tutto di più, basta rispettare le quote che da nord a sud decidono i destini coreutici di casa nostra. Però, però, non tutto è perduto. Tra i lavori mostrati con un ritmo da catena di montaggio abbiamo ritrovato e rivisto artisti decisamente interessanti e scoperto altri che stanno maturando il proprio segno dentro una cifra stilisticamente originaria. Certo, vale quello che si diceva poco sopra, ovvero bisognerebbe dare la possibilità a dei ‘giovani' danzatori di crescere nel tentare di spostare il proprio orizzonte sul terreno dello spettacolo complesso dove visione, movimento, regia e spazio tornino ad essere il fuoco del discorso, superando cioè il mero esercizio su se stessi e sulla propria capacità di gestione del talento. Chi è che diceva che il talento non basta da solo? Spiazzante per una platea così tanto interna al mondo della danza (per non dire del balletto) è stato il lavoro di Silvia Gribaudi (lei veramente una outsider della scena), impregnato di gestualità simbolica e autoironia da far prefigurare un rovescio performativo che prende a pretesto lo spazio rituale della danza.


crediti fotografici di Stefano Galanti

Il suo R.OSA_10 esercizi per nuovi virtuosismi vede una Claudia Marsicano prorompente ma che la misura della direzione della Gribaudi rende folgorante (e divertente). Cosa aggiungere che non sia stato già detto per Sylphidarium. Maria Taglioni on the ground di Francesca Pennini? Che insieme a un altro paio più o meno della sua generazione, e i sopra ricordati Cosimi, MK e Rizzo (non solo ovviamente), il presente e le sue diversificate modulazioni percettive o filosofiche ha trovato gli interpreti e i traduttori di senso . Daniele Ninarello è un altro cavallo di razza, bravo a gestire lo spazio fra sé e l'ambiente in cui si cala; il suo Kudoku è un esercizio di stile di grande effetto, costruito su un corpo parlante trasfigurato che gioca tra l'ombra e la luce come nel nero che trafigge il bianco di una enfasi estetica e intima. Lui è bravissimo. Lo è anche Marco D'Agostin, che coglie con Everything in Ok il suo momento migliore e di sintesi. Il duo Igor & Moreno con A Room For All Our Tomorrows è la rivelazione di questo appuntamento. Teatro, gesto, vocalità dolorosa, esasperata e al contempo comica, un tavolo due sedie e l'impossibilità di comunicare attraverso l'estroflessione vocale, l'urlo paradossale, il vuoto di parole riempito di senso, una fisicità espiantata dal racconto plausibile. Due straordinari autori e interpreti, due clown dal segno beckettiano rovesciato, due che scelgono la stanza del quotidiano ma, come ci raccontano loro stessi, è una stanza per tutti i nostri domani, perché l'oggi è indicibile. Un capitolo a parte merita Roberto Castello, presente a Gorizia con un lavoro sembrerebbe volutamente controcorrente. Un lavoro opera d'arte, un esasperato e reiterante sistema di innesti gestuali dal carattere chiaramente espressionista, una macchina motoria e processuale impeccabile, un gioco forse, una scommessa, uno scherzo, uno schizzo alla Otto Dix. Gli interpreti si lasciano condurre per tutto il tempo da un ritmo ossessivo e incessante di una partitura di timbri e rumori e eco con i quadri scenici che si modificano, l'ambiente di una scatola magica perimetra i loro corpi mentre le loro azioni definiscono lo spazio. Un capolavoro di coraggio.


crediti fotografici di Stefano Galanti