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Poetry Music Machine

 

 

di Alfio Petrini

Un giorno ho assistito a questa scena. Sul tetto di una casa un'anatra ha messo al mondo sette anatrelle. Ora vuole raggiungere il laghetto che sta di fronte, oltre la strada. Ma le anatrelle non sanno volare. L'anatra vola dal tetto alla strada e dalla strada al tetto, non sapendo come risolvere il problema. Anche il proprietario della casa è sconcertato. Dopo alcune esitazioni, grida: “Avanti, fai un salto. Coraggio. Scendi. Sei tu la prima. Una alla volta dovete scendere. Avanti, tocca a te, fai vedere come si fa, scendi”. E tende le braccia per accogliere la madre delle anatre nel concavo delle mani. Ripete l'invito moltissime volte, aumentando la carica energetica. E' ovvio, l'anatra non comprende le parole dell'uomo, ma attraverso l'energia, il ritmo e il tono di quelle parole percepisce il senso benevolo dell'incoraggiamento. Salta e finisce nelle mani del proprietario della casa, che la mette a terra. Salta la prima: saltano tutte, una dietro l'altra, in perfetta sincronia. In fila, attraversano la strada, mamma anatra in testa, s'immergono nelle acque del laghetto e si allontanano tra gli applausi dei passanti

Non essendo comportamenti restaurati, cioè costruzioni, ma elementi costitutivi di un evento reale, le azioni non potranno mai essere ripetute, cambiate, indossate come una maschera, perché appartengono al teatro della vita. Confermano tuttavia due cose, che valgono anche per l'artificio teatrale e per l'evento di natura performativa: il primato dell' actio e il principio secondo il quale energia ritmo e tono sono elementi fondanti del processo di comunicazione.

Appena ricevuto il libro di Marco Palladini (“ Poetry Music Machine”, Onyx Editrice, Roma, 2012, euro 12.00) mi sono detto: “Voglio fare come l'anatra. Voglio verificare l'effetto che produrranno su di me l'energia, il ritmo e il tono delle parole parlate dell'autore”. Dico parole parlate non per sottovalutare o ignorare le parole scritte, a cui riconosco una importante funzione di stimolo, ma perché i contenuti sono facilmente rintracciabili nella tessitura dei segni verbali messi in preventivo dal poeta e perché su questo versante la prefazione di Giovanni Fontana risponde in modo esauriente allo scopo. Il mio campo d'indagine ha lo scopo di andare oltre la parola scritta, oltre il suo significato logico, nello spazio in cui - in virtù della mia attenzione percettiva -, la parola si trasforma in suono articolato e il suono articolato interagisce con il suono musicale, fino a comunicare l'indicibile, dove c'è.

Al banchetto della festa Palladini m'invita all'ascolto di “ In Surfin with Charlie”. Lo spazio si dilata. Subisce uno sfondamento. Nello spazio agoracrito c'è il tentativo di andare al di là dell'ostacolo alla ricerca di luoghi antichi, vivi nella memoria, dove Charlie Parker va a spasso con la sua aria di Buddha, e vivi nella carne, dove il cuore fibrilla di fronte alla figura della mia adorata moglie messicana. C'è il ritmo che cresce, la voce che cerca la musica, la musica che cerca la voce. Ci sono corpi pulsanti che s'inseguono, percussioni che si combinano in orditi rotti da squilli di tromba che mettono in allarme e accarezzano allo stesso tempo, che suggeriscono la dolce attesa e l'ansia che non riposa di una scampanellata secca e sola. La voce si comprime nel petto, e nel cuore, e nella gola. Sembra che voglia esplodere, lanciare e poi raccogliere il magma caotico di suoni/voci della preghiera e della rimembranza. Le due azioni procedono insieme, l'una nell'altra si tendono, s'intrecciano alla ricerca di un grido, il grido d'allarme che segnala le bande dei nuovi barbari che distruggono tutto quello che trovano, il grido senza suono di chi reclama giustizia o sprofonda nella povertà più nera, il grido di chi non ha mai smesso di credere nella fata Turchina: ubriaco avanza con insaziabile desiderio, ma sognando si dispera. Il grido si spezza e lascia il groppo in gola. Lo conosco.

Le mie percezioni hanno un valore o sono un niente? Come Palladini, non ho paura del niente (tanto meno di questo niente), mi preoccupano piuttosto tutte le cose, le tante cose che stanno in una terra senza cielo e in un cielo senza terra. Insomma, io sono il ricevente, il testimone attivo, non faccio il notaio dell'azione performativa del poeta, e per me il niente o il poco che sia conta molto. E' tutto, direi. Non sono un'anatra, anche se devo ammettere che l'anatra è stata molto brava, forse più brava di me. Tuttavia, proprio perché non sono un'anatra, non posso giurare fedeltà alle parole parlate del poeta. Rivendico il diritto elementare di sentirmi utile e, come ricevente, di tradirle per amore quelle parole. Solo così conto. Solo così posso sognare a occhi aperti. Solo così posso sentirmi utile, quindi attivo. Immagino addirittura che il poeta-performer mi chiami a gran voce e batta le mani per il mio ascolto anarchico e irriverente. Perché, o sono o non sono quello che sono e che voglio essere, o sono vivo o sono morto, o mi sento utile o non mi sento utile: non ci sono vie di mezzo. “Sono utile non sono utile, sono utile non sono utile”, mi dico, e Palladini ripete “Beat no beat, beat non beat”. Andiamo all'unisono , ora , seguiamo lo stesso ritmo, la stessa energia, lo stesso suono. Allora provo a cambiare energia, poi cambio il ritmo, cambio il tono, torno all'energia precedente: passo da un elemento all'altro e ricevo la conferma che cambia il significato della comunicazione. Il performer e il ricevente non sono più estranei, si fanno compagnia a distanza. E così, mentre lui si sbatte e pensa alla “beat.a generation”, io mi sbatto e penso alla mia beat-a terra umbratile e alle fabulazioni dei vagabondaggi notturni di una volta. E assieme a lui “più beato e beota mi ottenebro d'immenso”.

Il gioco mi dipinge un sorriso sulle labbra, ma non mi salva dalla vita, lo so. Tuttavia in questo ottenebrami non fallisco e il sorriso non diventa mai un ghigno. Non solo non fallisco, ma al contrario vinco. E anche il poeta vince: ma non vince su di me: non vince sull 'altro . Scartando la musicalità della parola come aura poetica e lavorando sulla dilatazione del suo corpo/mente, il poeta/performer lancia uno stimolo sensibile a favore del ricevente, il quale lavora a seguire sulla dilatazione del suo corpo/mente per il conseguimento di risultati autonomi riconducibili a quella pratica che possiamo chiamare drammaturgia dell'ascoltatore. Comunicare e interpretare non mettono i due soggetti l'uno contro l'altro armati, ma stabiliscono il principio fondamentale della complementarietà necessaria che attribuisce alla comunicazione il significato di gesto politico. Entrambi i soggetti sono, dunque, attivi e solidali , protagonisti a diverso titolo e peso di un prezioso spazio di libertà creativa.

Mi sembra di poter dire che Palladini non vada alla ricerca della dilatazione delle parole - come sostiene Fontana nella presentazione -, ma della dilazione del suo corpo/mente, che in definitiva è l'obiettivo strategico di ogni poeta/performer. La tecnica della dilatazione del corpo/mente è presente anche nella poesia “ Soluzione Soledad ”, dove Soledad è “la poesia del mondo che si ritira dal mondo”, è “sole di solitudine”, è “sole soledad”, che il poeta/performer – nell'occasione della rimembranza - invoca diverse volte, utilizzando la parola “sole” fino al canto, che è però uno schianto, un singhiozzo, uno strazio. Pensiero e desiderio, ammirazione e dolore, il silenzio dei morti che sono vivi e il silenzio del vivi che sono morti coesistono pertanto nel luogo dove la dialettica si arresta. E la stessa tecnica è presente anche in altre poesie - a significare che si tratta di una costante metodologica posta alla base del progetto performativo -. A tale proposito voglio ricordare anche la poesia “ Decollare…decollarsi”, forse la più bella dell'audio-libro. Un prototipo di miscela linguistica eterogenea. Un esempio di caoticità che circola a velocità impressionante. Una accensione poetica incentrata sul binomio volo/caduta che sancisce la coesistenza - poc'anzi ricordata - di valori opposti e contrari che sfrigolano nel luogo della contesa .

Nel filo della comunicazione di cui è artefice Palladini non passano informazioni, non transitano concetti, ma corpi . Il performer trasforma i comportamenti poetici in segnali simbolici che affida al ricevente, il quale a sua volta trasforma i segnali simbolici in un insieme variegato di contenuti spesso non coincidenti: il che non è un male, come ho già detto, ma un bene, perché rende attivo l'ascoltatore. La poesia sonora di Palladini poggia, quindi, sullo spazio i nterno e sullo spazio esterno della realtà. Il che vuol dire che risponde all'ordine interno del poeta-performer e all'ordine esterno dell'ascoltatore. Il fruitore rappresenta la polis e il poeta non se ne può disinteressare. Anzi, deve auspicare fortemente il suo intervento e metterlo in preventivo.

Palladini conosce perfettamente la tecnica che serve a immettere nel circuito della comunicazione chiara e della comunicazione oscura i corpi che determinano la quantità/qualità della performance. Si tratta di un processo che in questo caso è praticato da un grande produttore di energie e di ritmi, abile nel convogliare l'energia sulla linea di un movimento che va dal tronco verso gli arti periferici (non in senso inverso). La sua poesia non concede spazio alle carezzevoli sonorità delle atmosfere. E' una poesia dura, violenta, che s'insinua negli interstizi del corpo e dell'anima del cittadino della polis a cui è destinata. E' irrequieta, è dinamica. Invita a condivide l'ironia e la derisione aurorale che l'attraversa. E destabilizza, a tratti, quando la materia linguistica diventa caotica (ancora in “ Decollare…decollarsi”, con le sue affascinanti sonorità multiple).

A conclusione di questo ragionamento inconcludente sulle anatre e sugli uomini, ovvero sull'energia ritmo e tono quali elementi dinamici e flessibili dei processi di comunicazione, portatori di variabili influenti che determinano la comunicazione non solo tra esseri umani, ma anche tra esseri umani e animali, mi sembra opportuno raccogliere in grande sintesi le preziose indicazioni emerse dall'ascolto dell'audio-libro di Marco Palladini. Non sono cose di poco conto la contiguità tra parola scritta e parola parlata, tra suono articolato e suono musicale; la forza attiva dei corpi veicolati che stimolano la percezione e l'immaginazione dell'ascoltatore; l'atto di dilazione del corpo/mente nella prospettiva della “poesia che spakka”, dove gioca un ruolo importante la ferita attraverso la quale transita il mondo; l'arresto della dialettica nel conflitto che rimane acceso e che caratterizza il poetare performativo come atto creativo aperto di un poeta pubblico. Sono cose importanti. Sono le cose che fanno la differenza nel confronto tra aura poetica e poesia sonora, tra fare poesie e fare poesia.